Dal libro al film, l’odissea di Enaiat Intervista a Fabio Geda e a Patrizia Schiavo di Alessandra Bernocco

Una doppia storia di resistenza. Quella di Enaiatollah Akbari, consegnato dalla madre alla sorte incerta di un viaggio della speranza perché qualunque incertezza è meno peggio della certezza di sopravvivere sotto la morsa dei Talebani, e quella di Teatrocittà, centro romano di formazione e ricerca, che ha saputo fare di necessità virtù. Come? Convertendo uno spettacolo bello e pronto interrotto dal lockdown subito dopo il debutto, in un film vero e proprio: non teatro filmato ma prodotto autonomo, nato da una fruttuosa contaminazione di generi.
«Un’operazione che unisce la qualità delle immagini e del suono proprie del cinema e rende onore al teatro per cui è stata pensata». Così Fabio Geda, autore del libro da cui l’operazione ha avuto inizio, Nel mare ci sono i coccodrilli, ormai best seller uscito in Italia nel 2010 e tradotto in ventotto lingue.
Si tratta della storia vera di un ragazzino afghano di etnia hazara, dalla sua nascita in un villaggio rurale dove la vita era segnata dal ritmo dei giorni e delle stagioni, senza elettricità né calendari, fino al suo arrivo in Italia e all’ingresso nella sua nuova famiglia, a Torino, dove vive tuttora e dove si è laureato in Scienze Politiche Internazionali dello Sviluppo e della Cooperazione.
In mezzo, il travagliatissimo viaggio durato otto anni, che passa per il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, raggiunta via mare insieme a due amici poco più che bambini che non hanno mai imparato a nuotare.
Il racconto non lesina su nulla, nemmeno sulle scarpe sottratte a un corpo congelato trovato in alta montagna durante la traversata e procede in prima persona grazie a una serie di interviste realizzate dall’autore dopo l’incontro con Enaiat diciassettenne. Enaiat, così lo chiamano ora e così è nel film diretto e sceneggiato da Patrizia Schiavo, titolato appunto Enaiat, l’incredibile storia. Incredibile eppure reale come lo sono le tante odissee contemporanee in tutto il mondo.

Foto di Roberto Corradini

«Anche adesso» – dice l’autore – «mentre noi stiamo parlando, c’è un ragazzino messicano che cerca di attraversare il confine sul tetto di un treno, o ce n’è un altro, africano, che rischia di affogare nel nostro Mediterraneo. Purtroppo, la storia di Enaiat non è una storia strana: è una storia ingiusta, come tante altre». 

Una storia ingiusta con lieto fine? 

Una storia bellissima di integrazione. 

Se non si sapesse che è la realtà sembrerebbe la favola di un eroe scritta rispettando le prove di Propp.

Infatti, non ho dovuto cambiare nulla perché funzionava perfettamente così com’è.

Ci sono due figure illuminate che sembrano brillare in un mondo buio: quella del maestro ucciso dai Talebani di fronte ai suoi studenti che grida loro, fino all’ultimo respiro, «i talebani sono ignoranti» e quella della madre, disposta ad “abbandonarlo” nella speranza di un futuro migliore.

In realtà tutto il mondo degli Hazara è un mondo di luce, non di oscurantismo.  La loro cultura non ha nulla a che vedere con quella dei Talebani, che tra l’altro non sono necessariamente afghani, ma criminali che hanno trovato in quella terra meravigliosa un luogo di conquista, e che sono diventati forti quando gli Usa li hanno armati in chiave antisovietica, negli anni Ottanta. A quel punto i Talebani se la sono subito presa con gli Hazara, che essendo sciiti, e non sunniti come loro e come i Pashtun, l’etnia dominante, sono da sempre una delle etnie più perseguitate della zona.

C’è una scena in cui Enaiat vede il crollo delle Torri Gemelle e pensa sia un film ma poi anche quando si rende conto che invece è realtà non rimane nemmeno troppo turbato. Il suo problema è che l’amico e compagno di viaggio abbia deciso di abbandonarlo. 

È normale perché a tredici anni l’amicizia vale di più di una crisi mondiale. Kaka Rahim, uno che si occupa di lui a Quetta, in Pakistan, a un certo punto dice: «Fare il bene e fare il male sono due metà dello stesso panino». Il problema è la complessità: la complessità di quei viaggi è tale che non puoi fermarti a pensare a ciò che è giusto o sbagliato, a ciò che potrebbe farti soffrire. Devi andare avanti e a volte devi solo ingoiare. 

La madre lo lascerà con tre raccomandazioni che sono la sintesi di un’etica di vita: non usare droghe, non usare armi, non rubare e non truffare. Enaiat le accoglie al punto che quando mente dicendo agli amici di sapere l’inglese per unirsi a loro nella traversata si fa uno scrupolo di coscienza. 

La solidità etica e morale di Enaiat, io credo sia uno degli ingredienti che ha fatto sì che il suo viaggio sia finito bene. Lui è uno che spande attorno a sé belle energie: è gentile, è onesto. E le poche volte che ha dovuto comportarsi in modi che forse sua madre non avrebbe del tutto approvato lo ha fatto per assoluta urgenza. Rubare una mela perché stai morendo di fame non è come rubare a qualcuno il portafogli per divertimento.

Il film restituisce due momenti in cui scrive alla madre delle lettere, sorta di resoconti della traversata e noi la vediamo mentre le legge. Verità o escamotage drammaturgico? 

È l’unico tradimento della trama rispetto al libro. Nella realtà non è successo, e neppure sarebbe stato possibile, ma drammaturgicamente funziona. Era una modifica necessaria.

Allora ne parlo con Patrizia Schiavo, la regista. Come hai proceduto dal punto di vista della sceneggiatura? 

La sceneggiatura del film è nata come drammaturgia e ho rispettato completamente la trama per quanto riguarda i contenuti. Ho dovuto sacrificare qualche piccola parte, non perché fosse meno bella ma solo perché meno funzionale alla drammaturgia. 

Per esempio?

La traversata su un camion dove Enaiat è costretto in uno spazio di 50 centimetri e si è ritrovato a bere la propria urina.

Le lettere invece sono una tua invenzione?

Sì. Considera che le diverse versioni già fatte in teatro sono prevalentemente monologhi, ma  nel momento in cui decidi di includere altri personaggi, li devi far vivere. Devi dare un ritmo e anche un’apparente forzatura può essere efficace. Nell’ottica di una drammaturgia a più voci ho spostato alcuni pensieri e li ho attribuiti ad altri personaggi.

Nel film ci sono frequenti flashback… 

Perché ho spostato la dinamica del racconto scegliendo il taglio dell’intervista a Enaiat ormai adulto che ricorda, a partire da quando era bambino. Il primo flashback lo fotografa proprio nel suo villaggio, Nawa, dove viveva con la mamma e i fratelli. Uno spaccato di luce. 

Foto di Roberto Corradini

«Io via da Nawa non ci sarei mai andato»: è una frase che ricorre come un refrain nel film. La nostalgia di casa dei migranti, degli sfollati, degli esuli che sopraggiunge nei momenti cruciali. Ma per lui era forse soprattutto nostalgia della madre. Un atto di coraggio che ha dell’eretico, quello di abbandonare il proprio figlio di dieci anni al proprio destino, sia pure per provare a salvarlo. 

L’atto dell’abbandono di un figlio è lontanissimo dalla nostra cultura. In quella invece si arriva a preferire l’incontro con l’ignoto “nel fango della paura”, alla violenza del loro presente. Anche se l’ignoto può essere morte. 

Tu hai scelto di interpretare la madre. Hai comunicato con Enaiat in proposito? 

No, non l’ho voluto fare per pudore e per rispetto della sua sofferenza e ho preferito dare spazio all’immaginazione. Ho immaginato la madre come una figura tragica, mitica. Anche dis-umana ma per amore. E quando solo dopo ne ho parlato con lui mi ha detto: «era proprio così». Mi sono commossa. 

Quella di Enaiat è una storia felice: può diventare un esempio trainante?

Certo! Si tratta di far capire che anche un vissuto così negativo possa diventare strumento di consapevolezza e di rinascita. Trasformando le esperienze difficili in leve d’azione per migliorare. 

Eppure, Enaiat non è ancora diventato cittadino italiano.

Già: eppure.

Nonostante la famiglia affidataria, nonostante una laurea, nonostante un lavoro in università. Tu non pensi che Enaiat abbia una marcia in più della media? 

Io penso che l’avere visto il proprio maestro e il preside della scuola uccisi con quella efferatezza gli abbia fatto desiderare la scuola, prima ancora della sopravvivenza.

Foto di Roberto Corradini

Parliamo anche del vostro progetto, nato per le scuole. 

Vogliamo stimolare a riflettere sul tema dell’immigrazione, emigrazione, discriminazioni di tutti i generi partendo dalle scuole. Perché i nostri figli sono spesso figli di una società apatica, cinica, indifferente. 

Quindi pensate a una nuova ripresa a teatro, oltre al film? 

Certamente. Il film è stato il nostro atto di resistenza per tenerci vivi dal punto di vista creativo e per arrivare dove il teatro non arriva.

E dove siete arrivati? 

Abbiamo costruito una piattaforma on demand dove il film è visibile e acquistabile.  Per noi è molto importante poter continuare nel nostro progetto formativo nazionale. L’idea è quella di una contaminazione tra teatro e film, ovvero uno spettacolo che integri parti dal vivo e scene del film. 

Lasciamoci con una frase positiva. 

«Un desiderio bisogna sempre averlo davanti agli occhi, come l’asino la carota, perché è nel tentativo di soddisfare i nostri desideri che troviamo la forza di rialzarci. E se un desiderio qualunque sia lo si tiene in alto a una spanna dalla fronte, allora di vivere varrà sempre la pena».

 

Enaiat, l’incredibile storia

liberamente tratto da Nel mare ci sono i coccodrilli – storia vera di Enaiatollah Akbari di Fabio Geda (Baldini&Castoldi)

regia e drammaturgia Patrizia Schiavo
regia riprese Martina Bonfiglio
con Antonio De Stefano, Paolo Madonna, Eugenio Marinelli, Jacopo Mauriello, Patrizia Schiavo.

C.N.T. Compagnia Nuovo Teatro – www.teatrocitta.org
con il patrocinio di Amnesty International
riprese cinematografiche a cura di PERSICO FILM.

Il film è disponibile on demand sulla piattaforma https://www.teatrocitta.it/