When the Rain Stops Falling: le voci dell’ensemble lacasadargilla Intervista di Paolo Ruffini

Foto di Sveva Bellucci

È uno spettacolo compatto e allo stesso tempo fluido, un quadro che si scompone e ricompone in molti altri quadri seguendo le vite dei personaggi (e in termini di visione, vede affacciarsi l’eco di una pittura alla George Bellows). È uno spettacolo che contiene in sé la materia e la metafisica, il reale e l’epico. 

 

Da dove sei partita per costruire il cast?

(Lisa Ferlazzo Natoli) Uno dei nodi, o meglio delle basi su cui si è costruito – esteticamente e “politicamente” (passami il termine, magari ci torno dopo) – When the Rain Stops Falling è proprio il gruppo, che preferisco chiamare ensemble, e che magari poi chiameremo di nuovo solo cast per chiarezza riferendoci alla scelta e al lavoro specifico con gli attori. Un ensemble che si è sviluppato nel tempo – che si estende prima di tutto alla zona di regia – e nel tempo ha sviluppato un metodo di lavoro collettivo basato su inclinazioni, codici, curiosità e desideri “in comune”. Persone che si conoscono bene e che si possono permettere il lusso di sollevare domande, sperimentare, azzardare, lavorare in maniera non completamente “efficace” in termini di resa teatrale. Che si capiscono al volo e che possono quindi poi darsi il tempo lento della costruzione minuta. Un piccolo gruppo di esseri umani che vanno e vengono, portando con sé esperienze, questioni e mutazioni “dal e verso il fuori”.
Se poi parliamo di “cast” in senso stretto, collaboro da tempo con un gruppo mobile di attori, ci siamo scelti per una prossimità direi, una curiosità che sono innanzitutto le persone a determinare, in una prima conversazione spesso fuori dal palcoscenico in senso stretto. Oppure in quei lunghi laboratori in cui ci si conosce veramente, o ancora perché fin da giovanissimi ho avuto modo di seguirli come insegnante. Poi sul palco questa prossimità, questo piacere, si è come incarnato con forza proprio in quel corpo, in quella voce, in un modo di scrivere per la scena o anche solo di stare. E allora l’attore non è più qualcosa di sostituibile come si farebbe in un pallottoliere. C’è in comune tra loro un’estrema disponibilità a lasciarsi attraversare da mondi, persone e personaggi, un arrivare già con un pensiero, una proposta ma disposti quella proposta a farsela smontare. Una concentrazione estrema anche sul più piccolo dettaglio, il minuzioso, desiderante rispondere alle richieste e ai compiti che hanno per loro il testo e la scena. Un’allegrezza spesso. Insomma mi viene da dire che tutto è nella “durata”, di una relazione, di un modo di scandagliare i testi, e di una curiosità reciproca che è ancora viva oggi, anzi che si è fatta ancora più forte. Guardo gli attori con cui lavoro, mi avvicino e mi piace quello che vedo muoversi, dentro e fuori, anche negli inciampi. Così quando leggo un testo mi faccio – intuitivamente o in forma d’immagine ostinata – un’idea di chi possa essere questo o quell’altro personaggio. Ne sento come una cadenza, un tintinnio che mi porta a un corpo piuttosto che a un altro. Ne parlo spesso con Alessandro, Maddalena e Alice (Alice Palazzi quarto elemento de lacasadargilla). Ma so per esperienza che il teatro è imprevedibile e che i desideri degli attori, le loro stesse scoperte sono decisivi, così non faccio mai un cast “a priori”, ci troviamo a studiare a tavolino con tutto il gruppo creatosi per il lavoro e tutti sperimentano ogni personaggio. Solo dopo, si scopre, io stessa scopro mio malgrado, chi si incastra con chi, per così dire. Nel caso di When the Rain lo ho fatto con gli uomini, ma non potevo farlo con le donne, perché essendo lo stesso personaggio femminile, in due età diverse, interpretato da due diverse attrici, ho dovuto farmi un’idea precisa di chi potessero essere le coppie, e dovevano essere attrici compatibili tra loro, ma allo stesso tempo entrambe giuste per mettersi addosso le parole delle due Elizabeth e delle due Gabrielle, in età diverse della vita. In generale poi sapevo che le età dei personaggi erano meno importanti dello scegliere appunto compagni di strada che capissero a fondo il mio lavoro e l’aria particolarissima di questo testo. E qui torno al politico cui ho fatto riferimento prima: scegliere un gruppo d’attori – “poco noti” per come li misurerebbe il mercato – bravi, mobili, preparati, portarli avanti, crescerci e farli crescere, perché sai che sono tutto ciò che serve al tuo teatro, un teatro di testo a metà tra sperimentazione e tradizione, per continuare a riflettere e a traghettarsi nel XXI secolo. Non è un caso credo che si incontri poi When the Rain, un testo con molti personaggi, corale e movimentato, dove ogni figura ha una sua forte ragion d’essere, e il lavoro d’attore ne è il centro. Infatti lo stesso Bovell dice di non riuscire a scrivere per un protagonista, un eroe circondato da figure di contorno, è una questione estetica e politica (etica) – dice – gli interessano, sceglie e vuole che valga la stessa cosa per il pubblico, i gruppi, familiari, sociali, linguistici. Gli ensemble, insomma. Le umanità.

 

Qual è stato il lavoro con gli attori? Quale spazio “intimo” è entrato nella partitura gestuale? 

(Lisa Ferlazzo Natoli) C’è stato prima di tutto un lungo bellissimo lavoro di tavolino, di interpretazione, divertimento e indagine. Per “acchiappare” il senso e un ritmo, un’inclinazione dei personaggi e delle cose stesse, la funzione di ogni singola scena e l’eredità che una scena lascia sulla successiva. Per trovare direzione e struttura. Un colore, un odore. E andare in piedi poi senza sentirsi strappar via gli abiti a rincorrere e simulare un personaggio, piuttosto che seguire invece le azioni drammatiche e quelle verbali, andando come in una danza “verso” la vita dello spettacolo. Insomma per imparare a fidarsi davvero del testo, a nuotarci e lasciarlo libero. In seconda fase abbiamo proceduto su tre livelli, in parallelo. Da una parte, immediatamente, la struttura. Una scena dentro l’altra, subito, in sequenza. Per capire come muoversi nel complesso dispositivo spaziale e temporale scritto da Bovell, capire come abitare non in modo generico la concatenazione delicatissima tra le scene. Anche solo per maneggiarne la meccanica delle compresenze e il come starci. Allo stesso tempo abbiamo disegnato le partiture fisiche: spazi, linee, corpi nella costruzione della prima scena, gesti, attitudini, similitudini nella linea familiare, pur nelle diverse epoche, nei luoghi geograficamente lontani e nei diversi personaggi tra loro. E un andamento comune, un sapore che emanasse dalle pareti della storia, da conservare nei corpi, riportare e variare lungo tutto lo spettacolo. Poi il terzo livello, quello delle scene provate e riprovate, fino alla noia. Per trovare nella relazione e in ogni singola parola l’arco dei personaggi. Disegnate, limate modificate – quasi tutte intorno al tavolo che andava via via mutando drammaturgicamente – seguendo l’azione drammatica principale e grazie a tutti i tradimenti e le intuizioni degli attori. E ancora la questione del tempo per ognuno di loro, perché a ogni coppia Bovell dà compiti diversi, intervallati dalle scene degli altri. Henry ed Elizabeth giovani devono raccontare dieci anni in sole 4 scene; Elizabeth vecchia e suo figlio Gabriel Law hanno l’arco di un solo pranzo per quello che è un addio; Gabrielle giovane e Gabriel Law in Australia, un paio di settimane per innamorarsi; Gabrielle vecchia e Joe Ryan qualche mese prima che la malattia della donna prenda il sopravvento; Gabriel York il tempo di cottura del pesce caduto dal cielo. E suo figlio Andrew una sola breve scena attesa per vent’anni. Si tratta di temperature e tempi diversi, si tratta di gestire minuziosamente le mutazioni o le continuità che ogni segmento del testo richiede.
Se lo guardo bene, il mio lavoro mi sembra un miscela impossibile da raccontare, ogni volta tutta da re-inventare. Ha certo a che fare con un vigile urbano che prova a ordinare i flussi di vetture diverse; o di un esegeta dilettante che per quanto abbia studiato non avrà mai le fonti “vere”, perché il teatro non è così; con un musicista che quando parla di intonazioni intende alla lettera «intonati, canta con me, con il tuo partner, con il testo, con le luci e i suoni». O con un falegname che decide anche il più piccolo ricciolo da intagliare se capisce che l’attore ne ha bisogno prima di trovare la sua strada. Ogni volta, con ognuno, è diverso. Ché poi “dirigere” significa dare una direzione al tutto, mettere in comunicazione diversi immaginari, lavorare di pazienza perché non si agisca muscolarmente ma piuttosto per minuzie, controtempi, contraddizioni. Concedersi gesti, pause, piccole affezioni, quasi invisibili. E aspettare di vedere giorno dopo giorno, l’attore che porta un testo proprio con la cura con cui si porta una pizza (mi pare si dicesse così in uno spettacolo di Milo Rau), ché non te la puoi mangiare tu, perché deve mangiarsela il pubblico e tu sei la mano che consegna e poi se ne va.
Molto, moltissimo “spazio intimo” di ognuno è entrato nella partitura gestuale. Non poteva essere altrimenti dato il lavoro autoriale di tutti gli interpreti. Io sono innanzitutto una “guardona”, e con questo voglio dire che gli attori con cui lavoro mi piacciono, li guardo attentamente, e vedo quando mettono in moto il proprio serbatoio emotivo e gestuale a favore di un personaggio. Vedo ogni piccolezza. Allora fermo il flusso e preciso con loro le emozioni e con esse i gesti, le cadenze dei corpi e le posture. O solo li lascio ripetere, quanto più posso, perché diventino intimi con le loro proprie intuizioni. Camilla Semino Favro (Elizabeth giovane) che solleva leggermente la gamba destra nell’appendere l’impermeabile e in un attimo sembra una ragazza degli Anni ’50; che muove leggermente l’indice destro, come per non perdersi (nel dolore) durante il monologo della scena finale tra lei e Henry. Francesco Villano (Joe Ryan) che si toglie stancamente gli occhiali, mentre aspetta Gabrielle, o che contrae la mano appena ha alzato troppo la voce, che si piega in terra gridando. Emiliano Masala (Henry Law) che si tamburella la fronte – gesto rubato a Marco Cavalcoli (Gabriel York) e trasferito letteralmente indietro nel tempo – o che guarda, inquieto, fuori della finestra tormentandosi la fede matrimoniale. Caterina Carpio (Gabrielle vecchia) che annusa la zuppa e ride, e appoggia la mano nell’incavo del braccio.

La scrittura di Andrew Bovell in When the Rain Stops Falling sembra calibrata su un incedere da serial con tanto di prequel e sequel rispetto alla centralità di una vita lasciata in mano al destino. Ma come la Torah insegna, le colpe dei padri ricadranno sui figli…

(Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, Maddalena Parise). Sì, potremmo dire che Bovell «fa del viaggio nel tempo una vera e propria forma stilistica» come nota giustamente Margherita Mauro, traduttrice impeccabile di When the Rain. E per farlo Bovell usa tutti i mezzi e i codici – il serial, il romanzo dell’800, il Melò, forme prossime alla tragedia greca e richiami biblici – che gli permettano di compiere questa “traversata”. Sceglie un plot, un’occasione, un evento scatenante non casuale ma neanche poi così decisivo, che potremmo definire un’aberrazione. E scrive anche in questo suo traversare il tempo, se andiamo a guardare un po’ più da vicino le date che sceglie per ambientare le diverse scene (1959-1968, 1988, 2013, 2039), una riflessione nascosta e affettiva, sulla fine del secolo XX. E fa cadere incessante su tutta la vicenda una pioggia così verticale da trasformarla non solo in un marker climatico, ma in un diluvio dell’anima. Bovell lo fa con un linguaggio semplice, cesellato con frasi, aneddoti, pulsioni e affermazioni improvvise, sottili e rigorose che provano a raccontare quasi en passant chi siamo noi, figli di quel XX secolo, della psicanalisi e delle rivoluzioni, di un inconscio troppo spesso ricacciato sotto i piedi, del capitalismo e di un pianeta che non abbiamo mai guardato con grande attenzione. Ma non solo. Bovell nell’arco di quattro generazioni familiari che “consumano” memorie, corpi, oggetti e relazioni, si fa una domanda in effetti intima sulla nostra sopravvivenza (anche culturale) come specie: come viviamo? Che cosa lasciamo in eredità? E lo fa mostrando “fisicamente” una compresenza nel passato e nel futuro degli stessi personaggi o di personaggi diversi per come erano o come diventeranno anche in virtù di una collisione, quella con un’altra vita. È come se il passato non smettesse mai di accadere e di interrogarci e il futuro non cessasse d’apparire in forma d’intuizione o d’enigma. Lo spettacolo ha voluto radicalizzare queste compresenze fantasmagoriche che, come intermittenze nel flusso lineare della vita, ci ricordano che l’identità – individuale e storica – è una nozione fluida e insidiosa. È qui credo che si può rintracciare quella compresenza tra materia e metafisica, tra reale ed epico di cui parlavi. E infatti Henry, il personaggio da cui tutta la “catastrofe” scaturisce, dice, prima di scomparire: «Il tempo andrà avanti senza di noi e sarà come se non fossimo mai esistiti. […]» e in questa frase però non credo ci sia nulla di “destinale” o predeterminato, quanto piuttosto la percezione di chi per un attimo, solo un attimo ci guarda con chiarezza da un altro luogo, vertiginosamente lontano. Così l’effetto di una frase del genere è di radicarci a questo brevissimo istante imperfetto che chiamiamo vita per farlo splendere al meglio finché ha luogo.
E infatti tu chiami in campo la Torah – le colpe dei padri che ricadono sui figli – e non si tratta nel caso dell’ebraismo di una minaccia o di una punizione, ma di una radicalissima constatazione: gli errori commessi dai padri vengono ripetuti dai figli, non solo, ma con la ripetizione l’errore si radica e non viene più considerato tale. Tra l’altro quando si parla di ebraismo non si parla mai di singolo ma di kalel israel, ossia di collettività ebraica, ogni ebreo è quindi responsabile di tutto il resto del popolo ebraico. Quindi noi tutti siamo i padri responsabili di tutti i figli del nostro popolo. In che senso però? Che bisogna voltarsi indietro con lo sguardo lungo per andare a rintracciare l’inizio di un problema, di una piega che poi è diventata voragine, e guardare in avanti fino a farsi male al collo per capirne le implicazioni e le conseguenze. È lì, in questa corda invisibile tesa tra passato e futuro che i “padri”, non solo i consanguinei, depongono le loro acuminate eredità. E i figli possono fare una torsione e cambiare pericolosamente rotta.

Perché questo interesse al nucleo familiare? Che significato ha per te parlare oggi dei legami familiari? 

(Lisa Ferlazzo Natoli) Prima di tutto credo sia solo un’inclinazione originaria, da sempre per quanto riesco a ricordare, le famiglie o meglio le piccole e grandi epiche familiari, le storie, i cataloghi, le fotografie e le memorie segrete delle famiglie, mi sono sembrate quel luogo senza scampo, seducente e terribile, in cui si potesse mettere una lente d’ingrandimento per scavare e raccontare l’uomo più in generale. Anche per trattare concretamente, grazie a un gruppo familiare preciso – citando lo stesso Bovell uno dei temi fondanti di When the Rain e raccontare in filigrana di come siamo arrivati al rischio d’estinzione. E perché quando si parla di famiglie si tratta spesso di piccoli splendenti inferni, molto nitidi, dove non ci si può nascondere. Sono sempre come sotto la luce abbagliante di un sole. E c’è sempre un inizio da qualche parte, un “c’era una volta”, un sentore delle origini. Una prima possibilità, una relazione, non importa se risolta in catastrofe. C’è qualcosa che sembra una felicità, da qualche parte, anche solo sfiorata. Un rapporto alla memoria, alle storie e al linguaggio – che è poi ciò che soprattutto ereditiamo o ci riprendiamo. «Sono crudeli, no? I genitori», dice nello spettacolo la Gabrielle ventiquattrenne. E la stessa Gabrielle a cinquant’anni dirà: «Sono crudeli no? I figli”». Il luogo famiglia più che interessarmi attira la mia attenzione, e non perché io creda che, freudianamente, la questione di ‘mamma papà’ sia ineludibile e che noi si sia il risultato di quella biografia. Ma perché al contrario mi sembra che rintracciando, raccontando “costellazioni familiari” – sempre in parte “false” perché frutto di un imprevedibile immagazzinamento di ricordi, esperienze, mutazioni e riscritture – si possa accedere a un serbatoio di enigmi, posture, ferite, memorie, catastrofi e miracoletti anche “storici” anche sovra individuali, che altrimenti nel grande generale racconto degli esseri umani si annacquerebbe fino a scomparire o fino a diventare tanto concettuali da non toccare più le nostre anime. E infine perché le storie familiari o quelle di nuclei sociali precisi e circoscritti hanno sempre un loro tempo, storico e della narrazione, che richiede luoghi precisi, minuzia di gesti e d’invenzione, una concretezza riconoscibile di frasi, abitudini e oggetti fino a sfiorare un realismo abbacinato e magico. Penso a Bergman, penso a Fanny e Alexander, ma non solo.

Hai/avete visto messe in scena di altri registi di When the Rain Stops Falling? Quale scarto apporta questo tuo/vostro lavoro rispetto agli altri? 

(Alessandro Ferroni) Abbiamo visto solo dei brevi pezzi in video di alcune produzioni in giro per il mondo, distrattamente e con l’intenzione di restare – distratti, per non farci influenzare o restringere il campo delle possibilità. In generale credo che nel costruire lo spettacolo abbiamo – a differenza di altre produzioni forse più convenzionali – innanzitutto provato a identificare il luogo unico dell’azione, per moltiplicarvi dentro i diversi tempi, gli spazi e i fili rossi, segreti delle tante vicende: un grande fondale che diventasse un muro spesso, “bianco sporco”, parete graffiata densa di pioggia o membrana viva da cui emergono time-lapse di cieli australi o improvvise venature di colore.
(Maddalena Parise) Non abbiamo mai provato a inseguire calligraficamente le spiagge australiane del Coorong o il monte Uluru, perché per noi erano luoghi dell’anima, situazioni particolari in cui – lì e solamente lì – diventava possibile dire certe parole, mentre i cieli australi provavano a irrompere dalla parete di fondo. Così le immagini sono piuttosto delle temperature emotive con la natura di un sottile apparire in filigrana, visibili a fatica, come colte nel tempo del loro formarsi.
(Alessandro Ferroni) Abbiamo lasciato tutto come in un grande interno, dettagliato e concreto, grazie al lavoro di Carlo Sala, ma sospeso nel nero, come “smarginato”nel perimetro dando alle luci di Luigi Biondi il compito di raccontare le sovrapposizioni temporali, il montaggio sincretico delle scene e dei diversi luoghi. Lacasadargilla tra l’altro tende a lavorare non tanto con delle scenografie ma con oggetti di scena, il lungo tavolo “cavo”, o il fondale, ad esempio. Qual è la differenza? È che l’oggetto di scena deve essere “elastico”, devi utilizzarlo, farlo vivere in tante possibili declinazioni, gli attori stessi scrivono “con” l’oggetto. Non lo usi da sfondo o solo per la sua funzione naturale, appunto, mettiamo, quella di un tavolo. Devi capirne il potenziale di trasformazione, senza forzature o artifici, capire come arrivare da un tavolo ad esempio ad adombrare delle lapidi o a raccontare una separazione.
(Lisa Ferlazzo Natoli) Anche Gianluca Falaschi ragionando con me sui costumi in modo atipico per un testo così potenzialmente caotico quanto a diverse ambientazioni temporali, si è mosso da un concetto-nodo: quello delle costellazioni familiari, del fatto che ereditiamo gusti, predilezioni, o anche solo certe stoffe, e lo sguardo si abitua e si affeziona. Così senza saperlo nei nostri abiti quarant’anni dopo abbiamo qualcosa, forse un colore, una piega di quelli che indossava nostra madre. Ma Gianluca si è spinto oltre e ha teso fili, adombrato ad esempio legami di tessuti e colori anche tra le Gabrielle e le Elizabeth che pure non si sono mai incontrate, quasi a dirci che c’è un qualcosa tra loro che si assomiglia malgrado tutto e che poi è il singolare ruolo dato alle donne come fossero inesorabili alberi maestri lungo tutto When the Rain.
(Alessandro Ferroni) Anche al suono abbiamo dato il compito di trasformare di volta in volta il luogo unico nelle sue tante declinazioni. Con le sue sette variazioni di pioggia, con i tuoni che fanno da “ponte spaziotemporale” tra luoghi e tempi lontani. È stato un lavoro sottile, mai sottolineato, che ci aiutava a passare da una panchina in un parco a una spiaggia, senza che lo spettatore se ne accorgesse, o portava un oceano in tormenta dentro una stanza di Londra, come richiesto dalle didascalie di Bovell. Credo possa spiegarlo al meglio l’utilizzo che abbiamo fatto dello splendido brano degli Smiths (It’s over) che attraversa tre scene e si trasforma da suono diegetico, il pezzo che Gabriel ascolta in macchina aspettando Gabrielle, a spazio della memoria, una cupola sonora che echeggia lontana sopra e dietro di noi, e infine parete sonora che letteralmente canta insieme alle parole della lettera di Gabriel alla madre lette da Elisabeth vecchia. Una sera dopo una replica una spettatrice ci ha detto che fino a quel momento era seduta a teatro e che d’improvviso si era trovata al cinema, un cinema dal vero.
(Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni) Su un altro piano, più registico in senso stretto, che riguarda la scrittura scenica, una forte differenza rispetto alle altre produzioni, almeno da quel che ci diceva Bovell, è la scelta di far iniziare e terminare lo spettacolo come un “romanzo teatrale”, con una voce registrata che leggesse le magnifiche didascalie a mo’ di prologo scritte dallo stesso autore. Romanzo che già nella sequenza iniziale viene letteralmente mangiato dalla musica e assorbito dall’azione teatrale, dal teatro in senso stretto, per poi tornare in registrato nel finale e scivolare in un dispositivo che è decisamente un omaggio al cinema. Un’altra differenza, se non riguardo alle produzioni che ripeto non abbiamo esattamente visto, ma certo rispetto al testo, è la decisione di radicalizzare, soprattutto nella seconda parte dello spettacolo, la compresenza in scena di personaggi provenienti da diverse temporalità. Come se da un certo punto in poi, tutti, i vivi e i morti – nel passato e dal futuro – fossero inchiodati ad assistere a quella loro lunga storia. O ancora: la decisione di usare i microfoni con un’amplificazione il più possibile naturale e “cinematografica” per restituire in quello spazio grande, solo apparentemente da interno, anche il primo piano delle più piccole esitazioni della voce, il parlare di spalle, le sottigliezze di intenzioni e borbottìi che altrimenti in nessun modo si sarebbero sentite. Infine, e questo riprende il lungo discorso sugli attori, la scelta di non far necessariamente interpretare un dato personaggio a un attore che abbia l’età giusta, ma dall’attore più giusto per la parte.

Il lavoro video di Daniele Spanò “riempie” lo spazio di (raffinata) cupezza con straordinaria efficacia. Ci sono state vostre indicazioni o suggestioni? 

(Maddalena Parise) Quella (raffinata) cupezza di cui parli, ipnotica e disorientante nella sua semplicità, tra le altre cose, con cui Daniele Spanò ha trattato il tema del clima, è ciò che ci ha immediatamente affascinato quando abbiamo visto il lavoro ancora in costruzione nel suo studio. Per quanto riguarda la scelta dello spazio espositivo, ho scelto per Caelum i sotterranei di Teatro Argentina, luoghi peraltro bellissimi e poco frequentati, per costruire una contiguità reale con lo spettacolo, come se Caelum ne fosse l’eco sotterranea, perché letteralmente lo spettacolo accadeva “sopra” l’istallazione, così come il clima è il tema ossessivo, sotto traccia della Storia e delle storie di When the Rain. Nel caso di questa specifica presentazione romana di Caelum poi la novità che ha inserito Daniele Spanò sta nell’aver aggiunto una seconda parte al lavoro, più intima, le visioni del “cattivo tempo” dalla propria finestra, e questo ha creato un legame più profondo con lo spettacolo perché in comune non c’è solo il tema del clima ma anche quello del “cattivo tempo” inteso anche come una pioggia dell’anima. Inoltre nel caso di questa versione site specific di Caelum l’ambientazione sonora si è potuta realizzare nella sua pienezza.

Questo spettacolo dal mio punto di vista è un punto di arrivo, un salto notevole nel tuo percorso che raggiunge una compiutezza formale e una tensione artistica rara nel teatro d’arte. Quale riflesso hai/avete trovato nel testo Bovell che rispecchia nella tua/vostra anima? 

(Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, Maddalena Parise) Crediamo si arrivi a questo punto prima di tutto negli anni – con pazienza, molto lavoro preparatorio, l’ensemble giusto, e un contesto produttivo come ERT che intende a fondo esigenze, doti e fragilità di un modo di procedere – e finalmente si incappa in un testo che pur con tutte le sue sbavature, parla, ha parlato dalla prima lettura in originale, immediatamente, come dici tu, alle nostre anime. È stato anche un disorientamento nel nostro caso a sedurci per il modo di approcciare il racconto, e il tempo del racconto, come se entrassimo in un cinema a spettacolo già cominciato e solo dopo un po’ cominciassimo a capirne il senso, i fatti e le ragioni. E allora volessimo rivederlo da capo ancora una volta per approfondire la questione. Non si è trattato per noi esattamente del “plot” della storia insomma, ma del modo, del dispositivo con cui Bovell acchiappa, tematizza e racconta quella singolare, commovente e disastrosa compresenza di passato presente e futuro che a volte presentiamo nella “vita reale”. È come se in alcuni momenti della vita, magari di quiete apparente, si aprissero squarci puntuali di passato che un immediato movimento mnemonico torna a visitare al presente, per agirli di nuovo, ripensarli, riformularli, o azzardarsi “quasi” in quell’azione impossibile che è il modificarli. O, come se in altri momenti invece intravedessimo il nostro futuro – anche solo per un lunghissimo istante – in cui interi tratti di vita, echi di parole che qualcun altro dirà dopo di noi o il volto del proprio figlio adulto, si presentassero davanti ai nostri occhi come brevissimi fotogrammi di una nitidezza disarmante. Bovell ci ricorda che le nostre vite scorrono quiete accanto ad altre, sconosciute, e che basta un incontro, un incidente, un’interferenza, un caso perché queste si incrocino fino a precipitare l’una nell’altra. When the Rain Stops Falling è un testo disarmante nel suo ossessivo ri-vedere e ri-raccontare un passato solo apparentemente individuale, fatto di refrain, rewind, sovrapposizioni tra reale e allucinatorio – punteggiato da improvvise incursioni nella Storia e nella meteorologia, – per provare a insinuarsi a forza nel futuro quel tanto da modificarlo. E allora assistendovi è come se il romanzo della propria vita si incastrasse con il romanzo dei personaggi sul palco, del tutto a prescindere dai singoli eventi accaduti a loro e non a noi. A noi e non a loro.
(Lisa Ferlazzo Natoli) È un rapporto alla memoria e al linguaggio soprattutto, al flusso solo apparentemente lineare della vita, e alle cose che vanno come vanno anche solo per un incidente o un caso, che ha letteralmente fatto eco nella nostra anima. Che poi cosa ereditano questi personaggi oltre a qualche oggetto di nessunissimo valore? Il linguaggio. Storie, modi di dire, gesti e intermittenze. Mezzi ricordi. Brevi etimologie. Dimenticanze e omissioni. Sempre e solo linguaggio. E questo mi commuove. La “cosa” per me, per la mia formazione, la mia storia, i doni invisibili che ho ereditato, per quelle che sono le mie origini, sta lì.
(Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, Maddalena Parise) Poi per ognuno di noi ci sono dei nodi, delle crepe che il testo e i personaggi hanno smosso chirurgicamente, come una scossa tellurica e che a volte si sintetizza in piccole frasi che ormai sappiamo a memoria. Il tempo che passa inesorabile, ci piega e ci fa svanire, in ogni “Eccoti qua” della coppia Elizabeth-Henry nell’arco di dieci anni. Elizabeth, Diderot e la sua domanda: «Potremo mai essere di nuovo felici con la nostra vecchia vestaglia?» Qui si parla di capitalismo, ma anche d’amore, semplicemente d’amore. Ancora Elisabeth, ora vecchia: «Non avere niente da dire è come avere così tanto da dire che non si ha nemmeno il coraggio di cominciare». O Gabrielle, dopo venticinque anni di rimpianti: «È andato tutto in merda». «Ecco l’ho detto» di Joe Ryan quando finalmente dice a Gabrielle, con tutta la dolcezza che conosce, che lei gli ha rovinato la vita.
(Lisa Ferlazzo Natoli) C’è qualcosa di delicatissimo e struggente nel racconto che When the Rain fa di questo nostro vivere la vita e il tempo, umano, storico e meteorologico, ed è questo che abbiamo provato a trattenere con tutta la temperanza che avevamo.