Eddie Carbone, il dramma del possesso di Alessandra Bernocco

Foto di Yasuko Kageyama

Un tavolo, una ragazza giovanissima e un ragazzo altrettanto giovane che prende il caffè. Forse parlano. Forse parla lui soltanto. Lei lo osserva e gli versa lo zucchero, un cucchiaino, due, tre, quattro. Tanti cucchiaini di zucchero nella stessa tazzina mentre vaga con gli occhi e la mente. Forse lo osserva.
È una scena di Uno sguardo dal ponte, lo spettacolo diretto da Massimo Popolizio su un testo cardine di Arthur Miller, e questo è un momento, uno dei tanti, indicativi della lettura data.
Gettare una luce sulle emozioni ricorrendo anche a immagini plastiche, sintetiche, capaci di concentrare lo stato d’animo nella reiterazione di un piccolo gesto. Un gesto che da quotidiano, banale, inserito nel flusso ordinario della giornata, diventa simbolico, esce dalla corrente e sale a galla per raccontare l’incantamento. E viene verso di noi, per parlarci di loro.
In questo caso, loro sono Caterina e Rodolfo (Gaja Masciale e Lorenzo Grilli), ovvero la nuova generazione, lo sguardo rivolto al futuro, la vitalità, l’esuberanza, l’ottimismo beatamente ingenuo che guarda al di là del ponte, da Brooklyn a Manhattan, certo che prima o poi il salto si farà.
La storia è nota e molto rappresentata. Siamo a New York negli anni Cinquanta. Eddie Carbone (nel ruolo lo stesso Popolizio), onesto scaricatore di porto di origini siciliane, vive con la moglie Beatrice (Valentina Sperlì) e la di lei nipote Caterina, rimasta orfana e allevata come una figlia, conducendo una vita in apparenza tranquilla. Ma l’arrivo di due cugini dalla Sicilia (Rodolfo e Marco, interpretato, questo secondo, da Raffaele Esposito), immigrati clandestini in cerca di fortuna, farà esplodere in Eddie il sentimento morboso per la nipote: una morbosità latente che ora viene alla luce e si chiarisce per tutti, scatenata dalla presenza di Rodolfo, il cugino troppo giovane, troppo biondo, troppo felice di essere lì, a due passi da Broadway, dove potrà finalmente realizzare i suoi sogni. L’epilogo tragico lo conosciamo. Lo spettacolo, anzi, comincia proprio dalla fine, dal racconto della vicenda da parte dell’avvocato Alfieri (Michele Nani) che in veste di narratore anticipa, suggerisce, commenta, ora come una sorta di coro greco, ora come una didascalia all’immagine che in simultanea vediamo sulla scena.

Foto di Yasuko Kageyama

Il primo flash è su Eddie e Caterina fotografati in un momento di complicità ridanciana, lei spensierata, lui visibilmente ingombro di pensieri molesti, di desideri torbidi che già si lasciano intuire.
Prima che il racconto si snodi come un lungo flashback in cui le scene nodali avanzano dallo sfondo e conquistano il primo piano.
Tutto accade in un’ambientazione liquida, che fluisce senza intralci e a tratti si condensa, soffermandosi su momenti di svolta che permettono uno scatto significativo della vicenda.
La stessa scena di Marco Rossi è appositamente studiata per consentire la compresenza di tempi e situazioni diverse, evocando, sfondando i confini, senza dover ricorrere a cambi sostanziali. Giocando astutamente con la prossemica, le prospettive, la dialettica molto cinematografica tra campi lunghi e primi piani, la regia propone un patto allo spettatore e lo fa senza tante cerimonie. Stai al gioco, fidati, accogli la convenzione.
Non siamo sul proscenio, ma sul molo di Ellis Island e attendiamo i cugini dall’Italia. Bastano due sedie da una parte e dall’altra e il progressivo avvicinarsi dei corpi per raccontare l’incontro. Poco importa se sul palcoscenico, a vista, c’è l’arredo di casa, che cita con mobili chiari e uniformi il decoro della povera gente.
Non c’è realismo né sentimentalismo d’accatto: c’è una verità intima dei personaggi, scrutata e restituita accompagnandoli passo passo, scortandoli e spalleggiandoli attraverso i conflitti che si vengono a creare, attraverso condizioni emotive che si succedono.
Si recita l’attesa impaziente attraverso una passerella frenetica avanti e indietro; l’imbarazzo di fronte ai nuovi arrivati, fatto non solo di frasi di circostanza, ma di mani che non sanno dove posarsi, di movimenti affrettati; l’insofferenza per un abbraccio goffo e insistito, che ripone nei codici più elementari la gratitudine; il patetico senso di sfida di un vecchio nei confronti  di un giovane, entrambi a loro modo animati da una passione sincera; la frustrazione di fronte a una prova di forza fallita; la presenza di un demone che prende forma e la sensazione vischiosa di sentirsi scoperto, giudicato, condannato; la disperata ricerca di un vulnus fuori di sé che possa funzionare come capro espiatorio e la comicità racchiusa nei pregiudizi e negli stereotipi; il conflitto tra la paura e l’affetto, tra la riconoscenza e il rifiuto.

Foto di Yasuko Kageyama

Sono momenti che variamente convergono in scene madri in cui la relazione a due è centrale: il litigio violento tra moglie e marito, in cui la temperatura sale e Sperlì dà il meglio di sé, saggia e ringhiosa ad un tempo, sofferente e bella, non più desiderata e non ancora rassegnata; il rapporto tra Eddie e Caterina, un gioco a perdere in cui lei recita e lui finge di recitare – ricordo il gesto rapinoso in cui lei gli strappa di mano il vestito, forse troppo corto e sempre inadeguato, la sua grazia innocente resa con una bellissima spontaneità – ; l’ebbrezza sopraggiunta a forza di whisky in cui i pensieri repressi si mistificano in baci di Giuda e infine la straziante delusione di Marco, fatale, che smuove in chi guarda la pietà per i vinti.
Come in tutti i lavori di Popolizio (siamo alla sua settima regia di prosa, secondo Miller dopo Il prezzo, del 2015), c’è un controllo costante della situazione e del linguaggio di ciascun personaggio, non lasciato alle proprie paturnie ma sorvegliato come parte di un disegno complessivo, chiarito a priori, tutt’altro che elastico e accomodante. Fatto anche di silenzi con tempi precisi, di respiri, di sguardi incrociati, trasversali, rubati. Sguardi che si controllano e spiano come accade nella scena che vede riunita tutta la famiglia, di fronte alla performance improvvisata di Rodolfo – bella prova di Grilli – che balla e canta a cappella Paper Doll e Ridi, pagliaccio.

Foto di Yasuko Kageyama

Gli attori, da parte loro, conoscono la bestia e la proteggono, ben consapevoli che fuori dalla gabbia l’estinzione è assicurata. Percorsi simili, condivisione palese di metodo e intenti, contribuiscono a fare di un dramma iperrappresentato uno spettacolo nuovo, che mette a tacere chi si domanda il perché ancora Miller nel 2023.
Perché racconta di passioni violente da cui non sentiamoci immuni, passioni che ben si offrono a un teatro d’interpretazione di quelli suddetti, cioè a rischio estinzione.
Perché la parola di Miller racchiude una potenza performativa capace di generare immagini e visioni dal suo interno, senza accattonare o prendere a prestito orpelli di sorta, senza doversi (e soprattutto potersi) inventare espedienti e artifici al ribasso. È tutto scritto, basta saperlo leggere.

Uno sguardo dal ponte 

di Arthur Miller
traduzione Masolino D’Amico
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio, Valentina Sperlì, Michele Nani, Raffaele Esposito, Lorenzo Grilli, Gaja Masciale, Felice Montervino, Marco Mavaracchio, Gabriele Brunelli
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
produzione Compagnia Umberto Orsini
Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia-Romagna Teatro Fondazione.

Teatro Argentina, Roma, fino al 2 aprile 2023.

Tournée:
Teatro Piccinni, Bari, dal 13 al 16 aprile 2023
Teatro Due, Parma, 18 e 19 aprile 2023
Teatro Manzoni, Pistoia, 22 e 23 aprile 2023
Teatro dell’Unione, Viterbo, 25 aprile 2023
Teatro dell’Aquila, Fermo, 29 e 30 aprile 2023
Teatro Verdi, Gorizia, 6 maggio 2023
Teatro Strehler, Milano, dal 9 al 21 maggio 2023.