Dystopia argentina di Paolo Ruffini

Foto di Andrea Caramelli

Abituati ad averli in scena i due performer in quella affilata allitterazione fisica, in qualche modo oltre la danza e attraverso un esercizio fisico definito da altre contiguità corporee, il duo Alfonso Barón e Luciano Rosso dopo il successo di uno spettacolo manifesto qual è Un poyo rojo che entusiasma le platee di mezzo mondo dal 2008, torna al Teatro Palladium con lo spettacolo Dystopia all’interno del progetto dedicato al contemporaneo che ORBITA | Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza sta delineando a Roma, nella sua sinuosa articolazione. Se nel primo l’ambientazione da palestra con tanto di panca e armadietti si incistava in una certa claustrofobia da ring del desiderio, qualcosa tra sferzate fisiche e accondiscendenti smancerie omoerotiche tra i due, laddove l’arte marziale dialogava col vogueing e un certo atletismo decisamente esaltato, in questo nuovo lavoro del duo argentino il rovesciamento comico deborda verso un nuovo piano visivo e “narrativo”, più propriamente ultra-pop e gioiosamente trash. Dystopia, d’altronde, ha sì quella matrice in qualche modo allucinata, o altrimenti detta folle che assembla immaginari drag a ipersonici sforamenti percettivi quasi fumettistici, futuribili, come lo erano i mondi creati da Alejandro Jodorowsky, ma tutto si ricompone all’interno di un cinetico fraintendimento dove il reale e il surreale si rincorrono nel definire una condizione che abbisogna di ulteriori verbalizzazioni, di codici in cerca di un proprio vocabolario.

Foto di Andrea Caramelli

La regia di Hermes Gaido organizza una sovrapposta drammaturgia di segni video dove il sonoro campeggia sovrano, in una cornice definita dal chroma key che fa dialogare ambienti multipli e scene sovrapponibili; lo spazio allestito ricorda uno studio da riprese televisive dove i due si muovono tra interno ed esterno dei mondi ri-creati. È il green screen ad innescare in successione tic narrativi con paesaggi che intendiamo quali realtà parallele e dispiegate in contemporanea, aperture “esotiche” o cristallizzazioni urbane, mentre in un altro schermo assistiamo al collegamento con due  eccentriche intrattenitrici (gli stessi protagonisti) nel loro commentare alcuni passaggi dello spettacolo che li ha resi famosi, quasi a sottolineare una qualche continuità con Un poyo rojo inteso qui come traccia estetica, profilando così una qualche filiazione, sebbene Dystopia organizzi ormai il proprio linguaggio da un’altra parte.

Foto di Andrea Caramelli

Assistiamo a momenti comici ma la riuscita del lavoro, rispetto al precedente, sta in quel continuo smottamento da un piano all’altro, con i due “inglobati” in tanti ritratti come quelli dei profili social riproponendosi in un pantheon di figure “assorbite” dalle intemperie del mondo, la contemporaneità esposta senza veli, anche nella sua cruda critica agli sconquassi sociali. E nell’incessante rifrangersi dei volti e dei corpi, sdoppiati, moltiplicati, ripresi da angolazioni paradossali, azione di una verità corporea che sa smaterializzarsi in immagini estroflesse, Alfonso Barón e Luciano Rosso sanno gestire un contesto sempre inedito e continuamente reinventato con particolare maestria, nella consapevolezza di non poter essere nel voler essere altro da sé, altro da quel meccanismo (come la stessa presentazione dello spettacolo ci indica) da parte in commedia alla Truman Show. Tanta tecnologia manifestamente organizzata per rendere evidente la tessitura di parti organiche e parti digitali, e dove le due si con-fondono pure, sembrano inanellare una temperatura di struggente malinconia, laddove qualcosa viene a mancare, laddove l’assenza seppure nella sola percezione ne caratterizza il segno: «La nostalgia non si dà senza qualcosa che ti manca e senza il tuo ricordo a misurarne l’assenza», ci ricorda Michela Murgia (Michela Murgia, God Save the Queer. Catechismo femminista, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2022, p. 26). Questa nostalgia si manifesta come affanno, direbbe Jorge Luis Borges, di non essere in grado di contenere il presente, di comprenderne le infinite sfumature, di non riuscire a leggere l’adesso, per questo ci applichiamo a sfuggirlo, per non sentirci responsabili né incapaci, e leggere la realtà nel futuro è un esercizio arduo, una distopia, appunto.

Foto di Andrea Caramelli

Dystopia

drammaturgia Alfonso Barón, Hermes Gaido, Luciano Rosso e Julien Barazer
regia Hermes Gaido
coreografia Alfonso Barón e Luciano Rosso
interpreti Alfonso Barón e Luciano Rosso
musica Alfonso Barón, Hermes Gaido e Luciano Rosso
collaborazione musicale Sebastian Perez e Migo Scalone
video Alfonso Barón, Hermes Gaido, Luciano Rosso e Julien Barazer
montaggio video Hermes Gaido
disegno luci, scenografia e costumi Alfonso Barón, Hermes Gaido e Luciano Rosso
direzione tecnica Vizcaíno
produzione Maxime Seugè e Jonathan Zak per Un Poyo Rojo (FR), Teatro Español di Madrid (ES) e con Carnezzeria Srls (IT) con il sostegno di Direction régionale des affaires culturelles Occitanie, Spedidam, le Pôle de développement chorégraphique Bernard Glandier – Montpellier, L’Arsénic Gindou (Communauté de communes Cazals-Salviac), Théâtre Molière Scène Nationale Archipel de Thau – Sète.

Teatro Palladium, Roma, 8 marzo 2023.

Per tutte le informazioni sulle prossime date della compagnia si consulti: https://unpoyorojo.com/en/on-tour/