Osservatorio Babilonia di Paolo Ruffini

Foto di Sara Castiglioni

Scrive Goffredo Fofi in un recente numero di “Internazionale”: «Ci sono libri (e scrittori) inutili e libri (e scrittori) necessari, ma di questi ultimi se ne trovano pochi mentre gli altri sono legioni. Cercare e trovare quelli giusti richiede pazienza: siamo in troppi a scrivere (tutti i professori universitari, per esempio; e gli allievi delle scuole di scrittura che, peggio, scrivono romanzi) e non ci sono filtri adeguati, critici e mediatori esigenti» (1). Mutatis mutandis questa impietosa fotografia la si potrebbe adattare al teatro, non genericamente alla scena ma proprio al teatro quello impastato di parole, scritture multiple, azioni e coordinati refrain tra macchinerie e orgasmi d’attore. Al di là della stoccata sui filtri adeguati e i mediatori esigenti, che meriterebbe un più ampio dibattimento a partire dalla consapevolezza di trovarci in termini sociologici e culturali in un “paesaggio” specchio di una immaterialità e porosità dei significati quanto delle forme, e persino del “senso” stesso dell’esistenza lì nell’approssimarsi a un futuro dell’orrore, che affidarci al filtro di critici e mediatori seppure esigenti – come dice Fofi – è ardua operazione di restyling, oggi ancor più immobilizzati, questi presunti “lettori” dell’opera, a un modo reazionario di guardare e di leggere il presente, un modo dedito alla sola ricerca di un posizionamento di potere personale (pensiamo alla danza contemporanea, ad esempio, e ai tanti cadetti di corte che ne vezzeggiano una memoria rivendicandone originalità laddove storicamente per natura “anfibia”, direbbe Fabio Acca, la danza si lascia felicemente spossessare da sempre in una trasmigrazione di dati e segni). Però del tutto condivisibile è il punto di vista di Fofi, quando ci ricorda che tra le legioni degli “addetti ai lavori” rari sono gli incontri che sferzano il gusto medio (e mediatico) dello spettatore, rari gli appuntamenti in cui arte e temperatura del tempo presente riescano a inoculare dubbi e “opacità” di un discorso quasi sempre reso da didascalie ed enfasi interpretative. Una delle poche realtà del teatro nostrano, ormai consapevolmente adulto capace di aggiornare l’obiettivo sulle questioni sensibili del tempo che viviamo, senza retorica ma anzi con disinvolto cinismo, è Babilonia Teatri. Compagnia veronese fondata nel 2005 da Enrico Castellani e Valeria Raimondi, è portatrice di un “racconto” ispessito dalle contraddizioni linguistiche e politiche di una Italietta alla deriva autoritaria, meschina e fascistoide sul crinale di un razzismo emancipatosi persino dal senso di colpa, violenta e irrisolta che mostra soprusi di piccolo cabotaggio quotidiano. L’affresco che vanno componendo da anni, tratteggiando un paesotto di provincia e le amenità di un cattolicesimo bigotto (come anche lo stridore sulle differenze sociali e culturali), sembra tenere assieme i colori di un realismo sovraffollato da interferenze surreali, un po’ le forme scomposte di Picasso e un po’ le cromature sgargianti di Guttuso, e la materialità brechtiana dei fatti, l’ossessione di una incidenza narrante che mescola un parlato senza fronzoli a un cantilenare modulato e apparentemente informe, di grandissimo impatto scenico, lì a liberare un immaginario da subito caratterizzato da una audace irriverenza e personalissima forza scenica in tensione da denuncia, appunto politico epico e scarnificato. L’ultimo lavoro vuole interrogare questioni che inevitabilmente, ancora una volta, ci riguardano, guardano noi, il senso di perdita o di probabile fine in un pianeta, il nostro, al termine dei suoi giorni e di cui abbiamo la responsabilità; insomma, uno spostamento questa volta in una sfera globale disinnescata dai paradossi individuali, familiari, finanche prossimi tra cittadino e cittadino (così da far dire ai due interpreti: «se questo è il paradiso, ridatemi l’inferno» oppure «se questo è il paradiso, ridatemi Netflix»), attraverso lo sguardo, un osservatorio del tutto speciale, quello dei bambini Ettore e Orlando, figli della coppia teatrale. MulinoBianco. Back to the green future apre su una scena essenziale, pochi oggetti, due zaini e uno scatolone, macchine elettriche che intuiamo essere dei due bambini i quali entrano di lato da dove è posizionata la regia a vista; da lì seguono dando indicazioni i due genitori, all’occorrenza gestiscono la funzionalità dello spettacolo compresa quella delle luci e dell’audio con Luca Scotton. Uno schermo in verticale fa da sfondo ma tutto è prossimo allo spettatore, senza profondità. Noi siamo lì con loro. I due bambini si alternano le parti, hanno tutta la credibilità di quella frontalità che ha caratterizzato Babilonia Teatri, quella invettiva feroce che qui è stemperata dall’innocenza di Ettore e Orlando; sono commoventi, impressionanti nel saper misurare il proprio comportamento naturale e le esigenze dell’interpretazione, recitano giocando coscienti di dover eseguire una parte, recitano illuminati alternativamente da luci spot, padroneggiando microfoni e movimenti in quello spazio-mondo trasfigurando un’impressione visiva e fonica ch’è stata dei genitori e come succede nell’impaginazione scenica del gruppo.

Foto di Sara Castiglioni

E così, si avvicendano momenti di esposizione a momenti di risistemazione dello spazio in cui gli oggetti prendono corpo, rimodulano i significati e ingigantiscono come un’eco il senso delle cose che avvengono, anche solo mimetiche. Percepiamo tra i brani che si alternano Plastic people di Frank Zappa, Tomorrow di Amanda Lear, Ovunque proteggi di Vinicio Capossela, un dosaggio musicale perfetto tra azione e memoires sentimentali, una cucitura drammaturgica come sanno fare Castellani e Raimondi capace di dare valore alle emozioni e peso a ciò che si sta dicendo. In questo quadro, ripetiamo, fortemente brechtiano, un umore poetico e rabdomantico che attinge da Pasolini ci riallinea alle smarginature di Pepe Robledo e Pippo Delbono, i non-maestri (sul serio) di molti artisti italiani, in un così forte drenaggio emotivo che stempera l’irruenza persino comica dello spettacolo. Dal paradossale invecchiamento in video di uno dei due protagonisti, a immaginarsi un futuro dopo la catastrofe, lo spettacolo si costruisce come una escalation di “fatti” molto plausibili riportati con puntuale veridicità: sono le nostre abitudini, le necessità indotte, i desideri costruiti a tavolino dai sistemi di produzione economica che fanno dell’ultra-modernità una sfacciata e arrogante matrigna, annullando il senso del limite dove chi vive di stenti o muore in viaggi di fortuna per fuggire verso una vita migliore sono “strumenti” funzionali al mercato e alla sovrabbondanza dei pochi. Esemplare il finale quando scopriamo un toro gigante pittato con i colori della bandiera degli States e che rimanda al massivo uso di carne nell’alimentazione mondiale: troneggia il finto animale simbolicamente in tutta la sua proiezione oligarchica dell’esistenza, dove si parla la sola lingua del profitto e il concetto di “impero” assurge a territorio sconfinato di indifferenza, a Mosca come a New York, a Shanghai come a Varsavia (il muro di mattoncini Lego che si accenna a costruire in scena la dice lunga). Un toro, altro memoires decisamente biblico che tocca il nervo scoperto della nostra inettitudine, direbbe Jonathan Safran Foer. Spettacolo bellissimo. 

Nota
1)Goffredo Fofi, C’è ancora bisogno di ribellarsi, “Internazionale” 1446 (Internazionale s.p.a.), 4 febbraio 2022, p. 88.

MULINOBIANCO
Back to the green future 

di Enrico Castellani e Valeria Raimondi
con Ettore Castellani e Orlando Castellani e con Valeria Raimondi, Enrico Castellani, Luca Scotton
luci, audio, direttore di scena Luca Scotton, Vfx video Francesco Speri
foto Sara Castiglioni.
Produzione Babilonia Teatri e La Corte Ospitale, coproduzione Operaestate Festival Veneto
in collaborazione con Dialoghi – Residenze delle Arti Performative a Villa Manin 2021.

Teatro India, Roma, dal 25 al 30 gennaio 2022.
In tournée.