Il futuro prossimo del cunto: “Playtelling” di Dario Tomasello Intervista di Filippa Ilardo

Se è vero che è impossibile sciogliere la nebulosa delle origini del cunto, nella sua ultima pubblicazione lo studioso messinese Dario Tomasello dedica uno studio articolato sul cunto utilizzando come paradigma epistemologico le teorie della performance e l’approccio poetico-cognitivo.
Playtelling. Perfomance narrative nell’Italia contemporanea (Marsilio Editori, 2021), inquadra anche lo scenario contemporaneo che si viene configurando nel panorama teatrale isolano, indicando quali successori del maestro Mimmo Cuticchio nuovi artisti come Vincenzo Pirrotta, Giovanni Calcagno e, in particolare, Gaspare Balsamo (nel novero mancano artisti come Salvo Piparo).
Già il titolo, che sostituisce il termine story telling con un più completo play telling, ci fa intendere come il contributo di Tomasello si concentri sulla qualità performativa della narrazione, determinata da un lato dal coinvolgimento corporeo e vocale dell’esecutore, dall’altro dal valore testimoniale, identitario, rituale di questa particolare pratica di narrazione.
Un contributo importante che dà contezza di una revanche del cunto testimoniato dalle molteplici iniziative ad esso dedicato e il docufilm di Giovanna Taviani, Cuntami Sicilia. 

Da cosa nasce l’esigenza di tornare ad approfondire gli studi sul cunto siciliano? 

Dal momento epocale nel quale ci troviamo. La storia culturale conosce dei cicli che, al netto di ogni possibile filologia, non sempre sono razionalizzabili. Sta succedendo qualcosa, a mio avviso. Un po’ come quando all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, Mimmo Cuticchio, con la presenza meritoria di Guido Di Palma, cominciò a storicizzare, nel documentario La spada di Celano, il senso della trasmissione del retaggio ricevuto da Peppino Celano. Il cunto, grazie a Cuticchio, a partire da quel momento ha ricevuto nuova linfa. Oggi, in condizioni certamente diverse, sta accadendo qualcosa di analogo. E, ne sono certo, molto del destino futuro del cunto si dovrà al senso della missione di Gaspare Balsamo.

È davvero impossibile trovare una genealogia certa riguardo alle origini del cunto? 

Quasi. Voglio dire: non esiste una tradizione genealogica chiara, documentata dal punto di vista tangibile nel tempo, che si collochi al di qua del XIX secolo. Tuttavia, se prendiamo a modello l’ipotesi di Milman Parry che, a partire dalla sua indagine novecentesca nei Balcani ricostruì la sostanza orale dei poemi omerici, non possiamo non notare che anche per il cunto la presenza di sequenze formulari riveli una durata ben più resistente e antica di questa tradizione narrativa. 

Mimmo Cuticchio chiede al suo maestro Peppino Celano il perché dell’uso della spada di legno. Quale il valore di questo momento all’interno dell’atto performativo del cunto? 

Un valore assoluto perché la spada costituisce un elemento decisivo dal punto di vista intradiegetico. Il repertorio ortodosso del cunto riguarda infatti il ciclo carolingio e la Chanson de geste e il momento culminante della narrazione è proprio il duello. La spada poi, come la tradizione insegna, è simbolo dell’autorevolezza del logos e dunque della maestria del cuntista.

Una spada che viene ceduta, come passaggio testimoniale da Celano a Cuticchio. Un’arte che – come spesso ha affermato Cuticchio – «si ruba non si tramanda». La questione su come tramandare questa tradizione è ancora aperta. Un mancato passaggio di consegne, insomma?

Certamente, potremmo dire che c’è un prima e un dopo Cuticchio. Fino a Celano, il cunto ha conservato il suo statuto pre-teatrale, una sorta di rituale collettivo, e certamente la trasmissione del mestiere avveniva nella modalità di un artigianato ancestrale. Si ascoltava un maestro per anni, si andava a bottega e, in questo senso, si “rubava” il mestiere.
Con Cuticchio, il cunto subisce una trasformazione profonda e viene “preservato” dal rischio dell’estinzione grazie al teatro. È evidente che, a causa di questa mutazione antropologica, anche il metodo di trasmissione cambia, assume tratti meno “ascetici” o iniziatici, si configura come training laboratoriale.
Di conseguenza, il fatidico passaggio di consegne è destinato in futuro a configurarsi in modi inediti.

Ci sono echi euro-mediterranei e legami con l’area orientale, in particolare dal Maghreb al Medio Oriente, nella tipologia narrativa del cunto? 

Assolutamente sì. C’è un milieu condiviso proprio nel contesto euro-mediterraneo. Ciò è deducibile dalla pratica degli artisti. Lo stesso Cuticchio ha più volte ripetuto di un’affinità stilistica e ritmica con il Naqqali iraniano.
Io sto approfondendo, in un progetto di ricerca condiviso con il collega ed amico Khalid Amine dell’Università maghrebina di Tetouan, le analogie tra la narrazione orale siciliana e quella nordafricana.

Parli anche – citando Valentina Venturini – di uno strappo tra cristianos y moros, cioè il cunto rappresenterebbe una sublimazione mitica e letteraria ad una delle grandi ferite della storia siciliana. Quali elementi del rapporto con l’Islam si celano dietro il cunto? 

Fin da quando ero bambino e mio nonno mi portava a vedere l’Opera dei pupi, mi sono sempre chiesto, in forme sempre più consapevoli, perché il repertorio delle storie narrate fosse proprio quello.
Oggi penso che non sia un caso. Il cunto, in quanto rituale collettivo, ha funzionato nel tempo, a mio avviso, come una catarsi. Il ciclo carolingio mette in scena una guerra santa che, nel caso specificamente siciliano, è una guerra civile.
La rimozione dell’elemento arabo-islamico non è stata indolore nell’isola. Al di là delle vestigia culturali, la presenza musulmana, in quanto fatto secolare, ha lasciato strascichi ben più profondi di quelli che riusciamo a vedere. Il cunto, come cerco di spiegare nel libro, è in tal senso una traccia suggestiva, meritevole di ulteriori approfondimenti.