Beauty Dark Queen: Elena di Troia, vittima della sua bellezza di Sergio Roca

Lo scorso 11 marzo, in una replica speciale al Teatro Ulpiano di Roma destinata esclusivamente alla stampa, ho assistito allo spettacolo Beauty Dark Queen (lo strano caso di Elena di Troia) – realizzato dalla Compagnia Colori Proibiti fondata e diretta da Stefano Napoli che, dopo essere stato rappresentato a Roma sin dalla fine del 2017 sarà in scena a Milano, dal 21 al 26 maggio, al Teatro Franco Parenti.
Descrivere il lavoro di Stefano Napoli non è facile perché la “decodifica” non può basarsi su elementi “canonici” oggettivi, quelli, per intenderci, usati per analizzare la danza classica e il mimo, in quanto l’attività scenica non è soltanto (o per forza) rivolta al movimento ritmico come non è soltanto (o per forza) indirizzata a una gestualità significante. Beauty Dark Queen è il “secondo capitolo” di una trilogia, in divenire, dedicata alle dark ladies e iniziata, circa dieci anni fa, con la realizzazione di Circus Dark Queen, Antonio e Cleopatra.
L’obiettivo del gruppo è stato quello di trasporre in scena, tramite delle clips visive arricchite da una vivace ed intensa colonna sonora e nel quasi assoluto “mutismo” degli interpreti, la storia di Elena di Troia (interpretata da Francesca Borromeo) e la guerra che Omero descrisse nell’Iliade.


Il matrimonio, imposto, con il re di Sparta Menelao (Luigi Paolo Pantano), l’essere rapita (consenziente) per amore dal principe troiano Paride (Giuseppe Pignanelli) – anche se, in realtà, fu “ceduta” in dono da Afrodite (Simona Palmiero) in cambio del famoso giudizio che decretò la dea la più bella tra le dee – ma che fu il pretesto che diede avvio alla decennale guerra di Troia. Il tutto sotto l’influsso “mefistofelico” di Ermes (Filippo Metz) che è sempre presente in scena in persona o tramite una statuetta che lo rappresenta.
È la storia di una donna “oscura”, portatrice di sofferenze suo malgrado; ricca di un potere “occulto”, di cui ella non è conscia e che, come scrive nelle note di regia lo stesso Napoli, racconta: «di uomini che non sanno amare ma solo possedere, di donne che si difendono chiudendosi nella freddezza del cuore […], del tempo che consuma corpi e passioni, di un mondo in cui l’amore viene rubato e venduto. Elena sopravvisse a tutti gli uomini che l’avevano amata». In fondo Elena è la vittima dei “giochi” degli dei che la rendono schiava della sua stessa bellezza, negandole la libertà di scegliere chi amare e causando, tra gli uomini che desiderano possederla, per la sua avvenenza e non per il suo essere, grandi dolori e sofferenze.
Nei 17 quadri, dei tableau vivant, realizzati dopo circa due anni di prove da parte della compagnia, la rappresentazione si sviluppa in fotogrammi, scenette, narrazioni mimiche che, per il loro impatto, richiamano sia elementi della cultura popolare e moderna (i fumetti di Disney con la Banda Bassotti o l’oscuro Diabolik di Angela Giussani) sia quelli della statuaria e dell’arte pittorica più classica (da Rodin a Caravaggio) ma ancora – per ciò che riguarda la protagonista – come dichiara lo stesso Napoli: «il busto di Canova del Victoria & Albert Museum di Londra».


Un lavoro di profonda ricerca quello di Napoli dove nessun movimento o azione, effetto di luce e sonoro è lasciato al caso. Il sipario e i pochi oggetti di scena: la statuetta di Eros, privo di arco e frecce, una mela, dei cavallucci, le scarpe rosse, un abito da sposa ed un altro abito, vistosissimo, sono funzionali a richiamare alla mente uno o più episodi della vita della nostra (s)fortunata eroina. Grazie a questi accorgimenti, cioè a un insieme di linguaggi condensati, risulta possibile raccontare, in forma attualizzata, quegli archetipi umani di cui l’uomo moderno ha perso e dimenticato il senso.
In scena Elena, unica superstite – umana – della tragedia passa “indenne” tra le mani dei suoi mariti/amanti/aguzzini, ma finisce simbolicamente crocefissa, testa in giù, per rinascere in un altero simulacro di se stessa, esempio di (una triste) araba fenice, indossando un vistoso abito proveniente dal Folies Bergère che la pone, per l’ennesima volta, e forse suo malgrado, al centro dell’attenzione. Come scrive il regista, l’abito: «è stato imposto dallo stupendo poemetto diGhiannis Ritsos sulla vecchiaia di Elena nel punto in cui dice “questo esilio dentro i nostri stessi abiti che invecchiano”».
Pur lodando tutto il cast, non posso non plaudire al perfetto aplomb della Borromeo, alla plasticità del Merz e all’ironica presenza della Palmiero.
Pregevole la colonna sonora con brani di George Gershwin, Abel Korzeniowski, Screamin’ Jay Hawkins e Carl Maria von Weber.
Unico neo, a mio giudizio, i numerosi bui che, seppure funzionali a separare i vari “capitoli”, introducono o interrompono, in modo troppo netto, l’azione/quadro.
Messa in scena per coloro che amano performances di alto livello qualitativo disposti ad assistere a spettacoli che non sfocino, obbligatoriamente, in una drammaturgia consueta basata sulla parola o sui linguaggi corporei “codificati”.

Beauty Dark Queen (lo strano caso di Elena di Troia)

Compagnia Colori Proibiti
regia Stefano Napoli
con Francesca Borromeo, Filippo Metz, Simona Palmiero, Luigi Paolo Patano, Giuseppe Pignanelli
fotografie Dario Coletti e Daniela Annino
disegno luci Mirco Maria Coletti
supervisione sonora Federico Capranica.

Teatro Franco Parenti, Milano, dal 21 al 26 maggio 2019.