Zona di resistenza. Vedute da Short Theatre 2020 di Paolo Ruffini

“La Plaza” della compagnia El Conde. Foto di Claudia Pajewski

Il palcoscenico del Teatro Argentina alzato il sipario presenta un prato fiorito, un pieno e un vuoto che per lungo tempo tiene sospesa la tensione ch’è significativa per la sua totale destrutturazione della spettacolarità. Con l’eco sonora rarefatta soltanto le parole proiettate sul fondo indicano, o meglio presentano una possibile “strada” narrante fatta di sole frasi scritte. È questo tempo dell’”adesso” del nostro corpo, del dicibile e dell’indicibile di cui tutti e tutte ne abbiamo contezza sebbene cooptati nel frullatore della produttività del “nulla”. La Plaza della compagnia spagnola El Conde de Torrefiel torna sui temi a loro cari di immaginare un futuro per l’umana esistenza mettendo in mostra l’impossibilità di farlo, l’ignavia che grava sulla lucidità di compiere una frattura, una “rivoluzione” prima di tutto morale. Segue un secondo tempo con toni pastello dove si avvicendano figure rese anonime da una maschera-velo sul volto dei performer, scene di vita quotidiana, ancora una volta mute, solo azioni, spostamenti dove riconosciamo lo skater, musulmani, giovani coppie, un mix insomma di quel melting pot che ormai caratterizza ogni metropoli. Uno spettacolo persino disturbante, straordinariamente teso e volutamente privo di cedimenti linguistici. Estetico come può esserlo un lavoro della Socìetas, impermeabile ai proclami divisivo com’è la memoria.

“La Plaza” della compagnia El Conde. Foto di Claudia Pajewski

È Short Theatre! Quindicesima edizione che si traghetta in un altrove con il carico di visioni e narrazioni mai concilianti, Short Theatre di quest’anno rimarca il segno di un futuro da indagare ma che già avvertiamo da qualche stagione in quel suo ridefinirsi di volta in volta. Arcuri e Corona rilanciano lasciando, aprendo a scenari che vedranno in futuro nuovi curatori, gesto quanto mai insolito se pensiamo alla stagnazione delle direzioni di festival e stabili che governano imperiture o assecondano cambi di facciata. I piani sono molteplici, le sovrapposizioni concettuali hanno articolato momenti dell’agire come quelli della parola, al di là degli spettacoli, pensare un festival ha significato tradurre in formati “anarchici” una speciale relazione con lo spettatore che poi, di fatto, non è stato relegato solo in quel ruolo, anzi. Ecco, il ruolo, un termine che assieme alla domanda “cosa state vedendo?” sintetizzano coerentemente i tracciati dei materiali proposti, le intuizioni e le cesure di questo appuntamento romano di settembre. Si mettano l’anima in pace coloro che tentano da più parti di tentare la presa del “palazzo”, la rivoluzione è ormai diffusa e condivisa capillarmente e sovvertirne l’andamento è un pensiero reazionario: il “palazzo” non esiste, è una metafora! Ancora una volta Short e il partner complice Teatro di Roma ribadiscono con segni felici e inediti la tabula rasa delle solite piccole diatribe fra drammaturghi, attori e registi polverosamente ancorati a un sistema di prosa per un pubblico che ambisce alla tranquillità borghese. Il resto del mondo sta andando da un’altra parte, dovranno farsene una ragione. Così, se il progetto Les Cliniques Dramaturgiques orienta una serie di incontri sulla dialettica della creazione e delle forme compositive proprio nel cuore del concetto esteso di drammaturgia, Panorama Roma apre al lavoro ancora in fieri di autori-performer proprio nel momento di costruzione e di verifica; un laboratorio, dunque, Short Theatre come un viaggio iconico e liberato dove lo sguardo incrociato anche furtivamente con lo spettatore apporta contenuto, rimodula il tempo. «Se costruite delle cose, se siete “artisti” di un qualunque tipo, a un certo punto vi chiederanno, o magari vi chiederete da soli, “perché” recitate, scolpite, dipingete, o quello che sia. Nel mondo della scrittura, pare che questa domanda non invecchi mai. A ogni generazione, qualche penna di troppo si sente portata a scrivere un saggio chiamato, inevitabilmente, “Perché scrivo” o “Perché scrivere?, titolo sotto il quale troverete un sacco di ragioni e spiegazioni convolute e più o meno autoreferenziali (Io stessa ho dato il mio contributo a questo genere letterario)» (1). Sono le parole di Zadie Smith, autrice di spessore da sempre impegnata a incrinare, a disinnescare la portata retorica dei luoghi comuni che sopravvivono in quella delicatissima frizione della ricerca delle responsabilità profonde, soggettive, tra pensiero identitario e tradizione, tra colonizzazione del desiderio e conservazione dei ruoli, in una società e in un tempo ripiegati sull’ “Io”  e dove spesso il “Noi” è espressione di un clan. Diamo per scontato, dunque, che sia ancora una scrittrice a farsi domande sulla sua funzione, sul suo ruolo appunto, e per estensione la “categoria” tutta quella degli scrittori e delle scrittrici che si è fatta portavoce da un bel po’ ormai – soprattutto in Italia – dei movimenti e delle questioni che orientano le sfide sociali e culturali del nostro tempo recente. Quasi che quegli artisti, quei creatori non scrittori o non scrittrici ai quali allude la Smith, mancassero di voce, di fiato. Detta così, sembrerebbe che a prendere parola pubblica siano esclusivamente gli autori di penna, Short Theatre 2020 invece rovescia la vulgata, ospita lavori e processi in progress decisamente “politici” per quella certa qualità che nega l’ampollosità dell’elocuzione, lavori che si fanno portatori di dubbi e ferite, accadimenti scenici posizionati in quella faglia di imprecisione linguistica e incompiutezza esegetica così da innescare ulteriori “disturbi” percettivi, ancoraggi intorno ai temi dei sistemi di produzione economico-finanziaria, alle questioni di genere, alla gestione delle migrazioni di questa epoca o alla nefasta eredità coloniale (almeno qui in Italia) o al disastro ambientale di cui siamo coautori e partecipi consapevoli (Yuval Noah Harari e Jonathan Safran Foer docet). Una certa visione dell’io che incontri l’altro e «si lasci prendere, sopraffare, superare, dalla sua alterità» (2). È il tentativo, in definitiva, di creare uno spazio nuovo del pensiero dove ripensare il nostro rapporto col mondo e con gli esseri che lo abitano. La vecchia economia è finita, ci dice Arjun Appadurai, rimangono però le nuove schiavitù, le trasmigrazioni dei capitali fuori controllo che generano sempre più povertà, il frullatore impazzito di una comunicazione violenta al servizio di un mercato globale occidentalizzato e razzializzato che detta legge a Nairobi come a Hong Kong o a Roma. Rimane allora quel senso di spossatezza a fronte di una sempre uguale maniera di raccontare (recitare, raffigurare) storie di un mondo che va a pezzi, con vezzi di un passato ormai immoto oggi per questo poco credibili, come la vecchia economia burattinaia dell’attuale mercato del lavoro che mantiene saldi gli stessi interessi di sempre, gli stessi ordini sociali, addirittura aggravandone le logiche, allo stesso modo, dunque, una vecchia maniera di pensare il teatro (la danza, la performance, eccetera) significa rimestare in un parolaio di forme e di gradienti consumati. Per questa ragione il festival di Arcuri e Corona con irriverente a-spettacolarità spostano l’asse, intervengono sul senso delle proposte artistiche, sulla loro opportunità “inqualificabile”.

“Rua” di Volmir Cordeiro. Foto di Claudia Pajewski

È allora Volmir Cordeiro col suo Rua, ad esempio, a travalicare lo spazio con una azione dal gesto performato dove la danza e il teatro si sintetizzano in una scrittura affastellata di segni che tengono assieme il mood della strada come sfiatatoio urbano e il riverbero dichiarato di Brecht, un discorso su ciò che vediamo, che azione è quella oggi, quali domande ci lascia. Qual è l’arte che trova una relazione con lo spettatore senza che questi si percepisca come tale? Un lavoro altrettanto emblematico è quello di Emilia Verginelli che dentro un immaginario debitore di Motus costruisce una scena-set per il suo Io Non Sono Nessuno, esplicitamente una anteprima di un progetto che ha ancora una parola-emblema della condizione di questo tempo, la necessità-obbligo culturale di tutti e tutte di definirsi attraverso un titolo di qualche tipo o una specifica professionale. Anche in questo molto interessante “contenitore” di idee espresse scenicamente la partitura fisica si muove in parallelo a quella del discorso “detto” e alle immagini in video, ovvero le interviste a diverse persone (tra le quali il padre della stessa Verginelli) che calibrano una dimensione emotiva aggiuntiva rispetto all’auto-racconto dei tre protagonisti in scena (l’autrice-regista e due “interpreti” di grande spessore scenico), che con la loro fisicità attraversano la break dance come trasparenza d’abito. Storie di casa-famiglia, i rapporti che si assommano smottando i piani professionali per tracimare in quelli privati; gli assistenti sociali, gli psicologi, la genitorialità e, non ultimo il migrante, l’altro, tutto in questo lavoro scenico è in quel mondo da costruire a partire dalle relazioni come unico sentimento meritorio di cittadinanza.

“Io Non Sono Nessuno” di Emilia Verginelli. Foto di Claudia Pajewski

D’altronde, scrive Donatella Di Cesare, «il migrante resta un impensato nella filosofia, che ha preferito passarlo sotto silenzio assecondando le omissioni della visione ufficiale» (3).

Note

1) Zadie Smith, Questa strana e incontenibile stagione, BigSur, Roma 2020, p. 27.
2) Bernard-Henri Lévy, Il virus che rende folli, La Nave di Teseo, Milano 2020, p. 61.
3) Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 28.