
Sembra segnata da una certa ritualità del gesto scenico o dal concetto stesso di “rito” questa edizione del Fuori Programma Festival, con la direzione artistica di Valentina Marini, al Teatro India di Roma (seguito nei giorni del 3 e 4 luglio), almeno ne cogliamo aspetti da riverbero primigenio, per certi versi ipnotico nel reiterare un segno, posture, architetture produttrici di senso in quella ossessione del gesto, ognuno nella propria definizione “estetica” certo, ma capaci di tessere una sottile contiguità nei lavori scenici in questione.
Il rito come emblema di un accadere protratto nel tempo e nello spazio e che tiene le fila di una comunità, lì convenuta, la ri-ordina, ne sacralizza una certa “riparazione” di memorie traumatiche. Ma è ancora possibile parlare di rito in questa contemporaneità dis-lessica? Nel linguaggio ordinario e in quello mediale, soprattutto nella dissipazione di metafore o nei voluminosi accostamenti del concetto di rito alla pratica di sostantivi o aggettivi generici del parlare comune, che stanno lì ormai a indicare atti sociali caratterizzati da ripetitività e condivisione, il rito sembra assumere un nuovo e per certi versi paradigmatico segno comunicativo. Il rito sembrerebbe riemergere dalla sua apnea archeologica per rimarcare territori d’appartenenza, fossero anche della sola illusione partecipativa. E quali sono questi lavori che ce ne ricordano la prassi?
Un passo indietro. Merito del Festival di quest’anno è stato anche quello di non farsi triturare dalla necessità di presentare spettacoli “in prima” a tutti i costi, scegliendo di offrire al pubblico romano “oggetti” meno frequentati, poco visti nella Capitale, verificandone così la loro “durata” e la loro prossimità al tempo presente.
Del rito, si diceva, sarebbe interessante cogliere la disseminazione del gesto come interludio di un’azione sociale, uno scarto dal tempo storico di un mondo assuefatto all’ordine del mercato (anche culturale), il recupero semmai – e se mai ne esistessero ancora – di tutte quelle convergenze emotive e di significato che ci permettano di recuperare (come al setaccio) un residuo di significati piuttosto che affermazioni dell’ego.
In questo senso, se il duo Sau-Ching Wong e Carles Castaño Oliveros, di stanza in una Spagna lei sì stratificata culturalmente, nella loro prima italiana di Kruid hanno cooptato lo spettatore in un universo sintetico, un campo di forze intangibili nel quale immergersi e perdersi; Brother to Brother – dall’Etna al Fuji nella sua versione site specific di Roberto Zappalà e l’altrettanto cerimoniale Stuporosa di Francesco Marilungo (riorganizzati per l’occasione per lo spazio Arena del Teatro) ordiscono in egual misura un “rapimento” percettivo nei rispettivi lavori, filtrati però da riconoscibili deviazioni di appartenenza (a una tradizione, a uno stato d’animo, a una riappropriazione linguistica).
Kruid ci convoca in una delle sale del Teatro: lasciamo le nostre scarpe e le nostre borse per entrare direttamente nello spazio scenico dove sono sistemate due file di sedie con poggiati sopra a ognuna un visore per la realtà virtuale che siamo invitati a indossare. Basta poco per trovarci in un universo parallelo (fittizio) di forme che ambiscono a ricreare mondi, sovraffollato di moduli in movimento, organismi e naturalità decisamente artificiali, una selva misterica e “allucinante” della stessa allucinazione iper-cromatica della psichedelica, dove la performer si muove come per sondarne ulteriori potenzialità. Noi, in un primo momento fermi sulle nostre postazioni dietro grate (anche queste ricreate dal portato sintetico) osserviamo il trasformarsi di quell’ambiente per poi essere chiamati a oltrepassare il confine dato e provarci dentro una dimensione totalmente immersiva, sintetica appunto, chiaramente digitale, in quel gioco di stimolazione di più sensi al di là della propria realtà fisica, seppure mai messa in discussione.

Lo Spazio Arena dell’India nonostante presupponga una visione distanziata, ritrova a suo modo una certa prossimità nella distribuzione dello spettatore su tre lati del quadrilatero. E rimanda al piano visivo di un ring, dove prende forma per questa occasione il Brother to Brother – dall’Etna al Fuji ripensato appositamente.
La cifra d’autore di Roberto Zappalà va sempre più affinandosi, una perfetta macchina scenica che restituisce l’anima della sua terra con ganci (consonanze) di una naturalezza sorprendente ai motivi, agli ancoraggi, al percement allure nordeuropeo; qui, in questo gioco d’insieme, i e le performer esplorano i punti di fuga e le perpendicolari con straordinaria bravura, e nell’apparente caducità del movimento dei singoli trova, al contrario, una resistenza sino a un movimento figurale “robusto” in quel divenire corpo unico parlante dell’insieme (e che deborda nel vociare sottile, in nenie impercettibili, eco ancorate al misticismo siciliano o per meglio dire mediterraneo, col fiato interrotto da un Oriente mappato).
È un insieme di fogge d’antica natura, un nero di costumi che in “trasparenza” lasciano adagiarsi anzi scoprirsi nei cunei di un Giappone imperioso, sebbene anche lui svuotato di potenza; è nella salinità di una mescolanza di albori, come solo la Sicilia è capace di farsi portatrice (l’Islam, l’ebraismo, la Grecia ellenica e il mondo nordeuropeo, appunto). Il lavoro è costruito per quadri ispessiti, momenti di solo o duetti esposti come alla prova, un atto di sfida tra il sé dei e delle performer e l’ensemble che furoreggia quella lingua dentro una struttura collaudata con aperture all’imprevisto, alla possibilità cioè di lasciarsi nell’indefinito di un tempo sospeso, quasi nel tornare a “scrivere” uno spazio privo di materia, condizione debita per il movimento che riempie ogni senso.
Con loro i musici ai tamburi Munedaiko (il gong tibetano è il controcanto agli Ōdaiko nella misura in cui il silenzio è l’enfasi sinfonica della pienezza), un rimando a sonorità evidentemente sovraesposte che intercettano nel fraseggio del corpo annotazioni ancora da esplorare, perché lo spazio sembra sintetizzare quegli orienti e quelle pendici antropologiche del Sud rendendo percettibili le sonorità nonostante il loro fragore. All’inizio lo spettacolo ci appare recuperare la memoria dell’immane tragedia della bomba atomica, quel sibilo, l’attesa spaesante e perturbante, si muove in progressione nel crescendo di un florilegio di azioni sensibilmente disinnescanti l’orrore verso un respiro, seppure cupo, più liberatorio, aperto, di speranza, e di bellezza.

Allenare la pressione, far rapprendere il dolore. Per indicare ancora uno spaesamento, un luogo dell’ossessione emotiva e percettiva, anche Francesco Marilungo modifica il suo Stuporosa per l’occasione del festival romano, ricompattando le fila e ridistribuendo i pesi di un atto cerimoniale, ovvero rituale, in quella filiazione che rovista nel canto della tragedia greca e il pianto delle prefiche siciliane, coro delle Troiane (che riporta alla mente il disegno organico e materico di Thierry Salmon) e con un tappeto sonoro muto. Un tappeto di accenti vocali, bisbigli, qualcosa che sta tra l’elegia popolare e altro di più profondo, di una mistica del rovesciamento antropologico, volto alla elaborazione del lutto, del suo dolore condiviso da una comunità anche quando è privato. Performer egli stesso qui alla composizione di un fragilissimo sistema di innesti dove spettacolo e afflato culturale si innervano l’uno nell’altro, e dove la precisione dello sguardo delle performer è lancinante, profondamente arcaico ma così contemporaneo.

Basta poco per rievocare anche in Stuporosa le morti e il dolore di questi giorni e di questi anni, recuperando nell’orrore i massacri di Srebrenica, un compendio di eco e figurazioni che afferiscono al senso di colpa occidentale, un lamento che ci riguarda, un sentimento che non ci dimentica. Eccole allora deambulare, corpi come prospettive ribaltate dove le mani nei capelli sanno amplificare la fine estatica, chi non c’è più assurge a trasfigurazione di un rito dunque, con tutto il compendio di ripetizioni gestuali, parole non dette ma evocate, una liturgia arcana, anche cristiana, sicuramente epica in quella scansione di un tempo dell’altrove che urla, si rovescia fuori come nelle figure del Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca.
Un lavoro esemplare tessuto sulla possibilità che si dà la figurazione di essere al contempo effimera, un lapillo, una appena percettibile fiamma, e la potenza piombante del pianto, il resto del dolore nelle vene, nei muscoli, negli sguardi attoniti.

Anche il lavoro di gruppo nanou è parte di questa idea di un festival dalle tante anime, arrivando a Roma dopo un percorso che gli ha permesso di ridefinire un carattere di per sé installativo ma di volta in volta ricalibrato negli spazi frequentati.
Parliamo di Redrum loro ultima produzione, un archivio di memorie visive e gestuali del gruppo stesso, azzardiamo nel pensarlo addirittura come una sintesi perfetta di un percorso ormai ventennale. Allestito anch’esso in una sala interna dell’India, crea isole sceniche e camminamenti, corridoi che modificano l’area tutta in una grande piattaforma mobile, come un’isola fatta di isole dove la mobilità è data solo ai e alle performer e nello sguardo dello spettatore (posizionato in diverse aree della sala oltreché sulla gradinata di platea).
Redrum è il grimaldello esperienziale che ci permette di riflettere sul tempo, sul concetto di visione personale e collettiva, mette a disposizione si diceva un archivio di accenti e traiettorie coreografiche e, come À rebours di Joris Karl Huysmans, ma senza la nostalgica retorica del romanzo, sistematizza un alfabeto di segni reiterandoli, svuotandoli di ascendenze, li rende persino “sgrammaticati” e per questo affioranti di splendore puro.
Per un notevole tempo che ci permette di entrare o uscire a piacimento, il lavoro prosegue il suo dispiegarsi in fasi di occupazione dello spazio, di verifica (anche fisica) degli ambienti, di innesco di azioni apparentemente casuali, forse lo sono, in quel mix estroverso di riempimento e svuotamento della percezione. Questa possibilità epigrammatica lascia trasparire un posizionamento liberatorio (e libertario) della durata (si diceva), nella consistenza o nell’evanescenza delle forme che vanno a compiersi in scena. Il dispositivo ha memoria di quel realismo modale già indagato nella trilogia delle stanze di Motel, dove tutti i mondi coesistevano, ma felicemente “inciampa” anche in una sorta di trattazione del rovesciamento (ancora un altro rovesciamento), dove quello che si vede non è quello che è, l’autentico è un pensiero sfuggente, un mascheramento, laddove Michail Michajlovič Bachtin riponeva molte speranze nell’inversione dei ruoli nel Carnevale, ci dice Richard Sennett.
Redrum è un lavoro asciutto e perfetto, fatto di traiettorie, passaggi accennati, ripensamenti, camminate in flessione con le braccia tese (vero loro logo d’autore della compagnia), cambi di rotta quando incrocia il fortuito passaggio di uno spettatore ignaro, di attese. Un rituale nel presente di sfida, a partire da sé, dalla propria storia.
