
Alla serata finale della tredicesima edizione del Roma Fringe Festival, Rainbow di Francesco Rivieccio convoglia su di sé il premio come migliore spettacolo e quello della critica, convincendo all’unanimità i giurati e le giurate. La serata dello scorso 28 luglio è stata l’ultima, l’undicesima, di una lunga maratona iniziata il 14 al Teatro Cometa Off e proseguita al Teatro Vascello, dove si è tenuta anche la finale fra i tre spettacoli ritenuti più meritevoli dalla Giuria dei direttori e direttrici di Zona Indipendente, la rete teatrale che ospiterà per dodici repliche il monologo dell’autore e attore napoletano.
In un lunedì sera romano di fine luglio, insolitamente fredda e ventosa, sul palco dello storico spazio diretto da Manuela Kustermann (anche Presidente di Giuria della finale), si danno tre lavori assai eterogenei, segno della scelta del Fringe romano di non prediligere un linguaggio specifico.
Il primo lavoro, Tanto ormai di Damiano Lepri e Adriano Gardumi, si presenta sulla scena con rumori di bombardamenti e luci d’emergenza, immergendoci in quella che, forse, doveva essere una situazione distopica o proiettata in un futuro impalpabile (una guerra alle porte, un nemico che avanza nelle strade, eliminando uno per uno chi resiste) ma che è difficile, in questi giorni, non sentire particolarmente inquietante. I tre attori sono renitenti, a quanto pare, tanto all’arruolamento nella resistenza quanto alla fuga, e si rifugiano in una casa che sembra un po’ un museo per le due enormi installazioni sul fondo (ma sono finestre, si scopre dopo un po’). Anche se patisce lo scollamento dal resto del lavoro, che vorrebbe avere forse il carattere anfibio di certe opere bolañiane, o borgesiane, e invece necessita probabilmente di una revisione dell’impaginato, il lavoro non è privo di momenti interessanti nella scrittura, che si riflettono nell’interpretazione e nella regia. I tre monologhi al quadro (invisibile in scena, posizionato idealmente oltre la platea), a cui i tre protagonisti si rivolgono, ad esempio, sfondano le quattro pareti dell’abitazione-rifugio e rivelano tre diversi atteggiamenti non solo di fronte alla guerra, ma di fronte alla vita. Tragicomico e forse memore dall’esperienza surreale degli asincroni di Ghezzi è un altro momento efficace del lavoro, il resoconto dei resistenti all’avanzata del nemico, che dalla radio, esplosione dopo esplosione, contano la propria progressiva scomparsa e malinconicamente sfoltiscono la lista dei beni di prima necessità occorrenti per la sopravvivenza.

Non è difficile comprendere la ragione dell’attribuzione dei premi al monologo di Rivieccio. Fra le tre opere è quella la cui drammaturgia appare più composta, più piana e risolta, anche grazie al linguaggio scelto, quello del monologo di narrazione, che offre minori ostacoli alla scrittura scenica, riservando all’autore solo quelli relativi alla composizione testuale e alla resa performativa, condotta, quest’ultima, sulla linea della tradizione. Eppure alla complessità non ci si sottrae del tutto, poiché se la gamma espressiva dell’attore Rivieccio è contenuta e a suo modo sobria, senza scivolamenti nel patetico, il racconto, che parte dalla voce narrante dell’autore-attore, subisce un progressivo sprofondamento nel tempo e nel ricordo.
Rivieccio rievoca il nonno, che racconta, a sua volta, del processo subito per diserzione, e che nel racconto si trova nuovamente, indietro di cinquant’anni, narratore delle proprie vicende, nei tragici mesi post 8 settembre, la doppia prigionia da internato militare, prima tra i tedeschi in Prussia, poi tra i russi, la fuga e il ritorno. Il finale, dopo una simmetrica anabasi, ci riporta al presente e al lieto fine.
Il lavoro poggia sul palco in tre punti, rappresentanti le tre stazioni della storia, il “presente”, sulla sinistra, dove il nonno pesca in compagnia del nipote, un leggio a centro palco, lo scranno del giudice, e una zona più avanzata, dove si svolgono le azioni del giovane internato nei campi di lavoro. Puntelli tematici svettano come ricorrenze: il gioco del calcio, la semplicità del protagonista, (quella che la Giuria ha riconosciuto come «capacità di incarnare l’inconsapevolezza di chi è soggetto attivo in un conflitto bellico»), e l’apparizione dell’arcobaleno, titolo del lavoro, segno di speranza e guida nelle situazioni più ardue.
Ma le ricorrenze sono anche letterali, nel testo, non solo dentro un lessico napoletano portato a livello-zero, accogliente, addomesticato e comprensibile per tutti, ma per la costante ripetizione di espressioni e frasi che, al modo di utili tormentoni («che ne sapevo, io?»), scandiscono la narrazione. E tanto il racconto quanto gli eventi trovano in queste ripetizioni una funzione rassicurante, una strategia inconsapevole del protagonista e (chissà?) dell’autore per consentire una sommaria ma agevole assimilazione degli eventi, persino i più tragici.
Il personaggio protagonista è reso con affetto e una nota costante di compassione. La sua storia e la Storia con la maiuscola si leggono più sui passi percorsi dalle scarpe sfondate, dal numero dei morti che si lascia dietro e sulle altre disavventure che sulle capacità di questo testimone ingenuo di analizzare le questioni e trarne conseguenze sul piano politico o filosofico: una condizione, questa, probabilmente la più comune sulla terra.

Più problematico e scomposto per la sua natura ibrida, ma certamente più fertile terreno per ulteriori messe a fuoco (se non di tesi da dimostrare almeno di formato entro cui stare – o non stare!) è il progetto di Eleonora Bracci, Giulia Celletti, Marta Della Lucia, Camilla Ferrara. Il loro Venire meno è, a oggi, poco più di un palinsesto da strutturare, e da rifinire nella recitazione, che parte parossistica e slabbrata, poi via via si fa più contenuta.
Ora pezzo comico scollacciato condito di smorfie, ora restituzione di (poche) interviste audio, alla maniera di Iacozzilli, ora confessione intima o battagliera all’asta del microfono, ora diretta allocuzione al pubblico o addirittura coinvolgimento delle esperienze personali, Venire meno affronta il tema della finzione dell’orgasmo femminile, della qualità e forma del piacere, del rapporto tra la propria autenticità e la sovrastruttura culturale.
E si ritrova inaspettatamente a indagare la natura culturale e storica dello stato di chi sente gravare su di sé stessa il compito di compiacere, o almeno di alleviare, sia pure con un «bravo, bravissimo» al proprio amante, il dolore causato dallo sgretolamento di un ruolo che deteneva fino ad oggi incontrastato, quello di somministratore di piacere. Col rischio, però, di ritrovarsi in una dinamica autolesionistica: ribaltando (in)consapevolmente la lezione di Carla Lonzi, l’orgasmo non raggiunto pare ora non più un delitto da portare in aula con prove fisiologiche e politiche, ma una libertà da rivendicare, in quanto necessario corollario dell’incapacità di comunicazione, all’indifendibilità dei ruoli.
Venire meno, nel suo disordine forse irricevibile, affonda le mani temerariamente, senza protezione, in un materiale complesso e vivissimo, aprendo da un lato seducenti spiragli (l’Estasi di Santa Teresa d’Avila di Bernini come trascrizione su marmo di una suprema finzione di fronte al più Alto degli amanti), e suggerendo di passaggio inquietanti ipotesi antropologiche: «è possibile» – ci si chiede a un certo punto – «che fingiamo anche quando non vogliamo fingere?».

Si segnalano gli altri Premi, che hanno interessato perlopiù spettacoli non giunti alla finale.
PREMI DI CATEGORIA assegnati dai teatri aderenti alla rete Zona Indipendente:
Miglior Regia: Tanto ormai – Adriano Gardumi
Miglior Drammaturgia: Cowboys #2
Miglior Attrice: Manuela Fischietti
Miglior Attore: Vincenzo Ricca
Premio Speciale Off: Ludopazza
Premio della Critica: Rainbow «Per la capacità di comporre – con pochi, parlanti segni scenici, un’affabulazione densa e misurata, e una precisa grammatica gestuale – un’epopea familiare che smargina dai confini della Seconda Guerra Mondiale».
Premio Alessandro Fersen: Rainbow
Premio Spirito Fringe: AZzIONE immediata.