
Sono scene scomposte, isolate, monadi che galleggiano in uno spazio oscuro, frammenti di una totalità tagliata da un laser con millimetrica precisione.
Con Sarabanda, spettacolo che ha da poco chiuso in bellezza la tournée al Teatro Argentina di Roma, Roberto Andò risponde all’incandescenza del testo di Ingmar Bergman, sceneggiatura per il suo ultimo film, in cui tornano a incontrarsi Marianne e Johan, la coppia di Scene da un matrimonio, gli stessi che trent’anni prima avevano festeggiato la separazione riuniti per una notte soltanto in un letto qualunque, domandandosi l’un l’altro dove poter aggrapparsi per non sprofondare.
Ma ci sono riusciti o sono sempre lì sull’orlo del baratro? Sono sempre lì, né affondati né emersi da quello stato di confusione misto a torpore in cui li avevamo lasciati trent’anni prima. Più disincantanti, forse rassegnati, ma non pacificati.
Il magma indurito è pronto a eruttare. L’umanità che ribolle, silenziata e nascosta, viene sondata, sezionata, offerta allo sguardo, al giudizio, al ludibrio, violata nella sua segretezza.
Ecco allora perché Sarabanda, titolo che si riferisce a una danza lenta di origine spagnola, un tempo vietata perché ritenuta scabrosa, in cui le coppie si uniscono e si dividono, proprio come i due personaggi bergmaniani.
Marianne torna da Johan dopo trent’anni, eppure tra loro non sembra esserci sorpresa, non c’è stupore, si percepisce anzi una certa indolenza da parte di Johan.
Poi basta una scheggia di tempo che si riaffaccia con impertinenza e di nuovo si ricomincia, come una danza, appunto, i cui passi sono scritti nella memoria del corpo anche quando si è smesso di ballare.
Marianne torna a riannodare le fila di un rapporto interrotto, non già per riunirsi ma per provare a capire, per nostalgia, per rimpianto, per ritrovare senza confliggere qualcosa di sé che il tempo non è bastato a chiarire. Torna per non sprofondare, senza riuscirvi, offrendosi a un racconto dove sono entrate altre voci (e altri ingombri) dalle quali viene inesorabilmente travolta.

Non sono più le madri da assecondare, le bambine da tutelare, i tradimenti dichiarati, taciuti, rinfacciati in extremis: sono nuove presenze, nuovi appigli troppo instabili per aggrapparsi o nuove occasioni di scontro.
Sono le voci di Henrik e di Karin, il figlio di Johan e la di lui giovane figlia, alla quale Henrik si è morbosamente legato dopo la morte della moglie, un lutto che ritorna nelle parole o forse una liberazione di pulsioni castigate e sublimate nel rapporto maestro-allieva. Violoncellisti entrambi, anch’essi uniti e divisi in una sarabanda che prenderà forma nella Suite per violoncello solo n. 5 di Johann Sebastian Bach.

Ma prima è passione, turbamento, rancore incubato, gelosia, possesso, dipendenza, conflitto intestino, volontà divergenti, necessità dissonanti. Henrik non accetta che la figlia possa avere un altro maestro all’infuori di lui, che d’altra parte sente di esistere soltanto in funzione del ruolo che si è dato, ostaggio egli stesso del proprio transfert e della propria ambizione.
Johan non demorde di fronte alle richieste di denaro del figlio, Henrik infierisce e Marianne, da interlocutrice accogliente diventa bersaglio di sfogo, sempre meno disposta a restare in silenzio.
Il vero spettro è il silenzio e lo temono tutti, un Dio demoniaco infiltrato negli sguardi, nei respiri, nei gesti inconsulti. Come se le parole trattenute per decenza, pudore, vergogna, potessero lasciare il posto a parole peggiori, ancora più caustiche e più distruttive, a pensieri che covano e che nel silenzio prendono voce.
Dare voce ai silenzi, dare corpo alle parole è una grande prova d’attore. La sensazione è che un testo così non possa reggersi se non grazie a una squadra sorvegliatissima di interpreti capaci di creare un tessuto verbale che sia visibile e tangibile, perché la rete non si sfilacci e faccia cadere nel vuoto corpi e parole.
A mano a mano che il testo procede ritroviamo personaggi sempre più esposti, scorticati e inermi, ritratti a due a due, come prevede il copione, in dieci scene.

I quattro attori sono essi stessi strumenti di una partitura emotiva che scava nelle viscere senza pietà. E lo fa come se si servisse di tempi musicali di repertorio, attingendo a indicazioni riconoscibili: grave e adagio a tratti solenne per Renato Carpentieri, un Johan senza più stupore, che trascina il passo e sceglie la stasi di una poltrona; Alvia Reale, uno di quei tempi dinamici che un nome l’avranno ma non fingerò di saperlo: quello che è certo è che la sua Marianne attraversa una gamma di colori che con grazia o prepotenza resistono molto bene all’usura del tempo; Elia Schilton, Henrik, dà vita a un personaggio che gli si confà come una seconda pelle: amoroso e folle, nevrotico, a tratti quasi irreale, come in quei picchi dissonanti dai quali fuoriesce il suo profondo malessere; Caterina Tieghi, la giovane Karin, stupisce piacevolmente fin dal primo testa a testa con Marianne, uno sfogo sotto forma di confidenza, che si dà con una cascata di parole: potrebbe essere un andante con moto che va precipitando.
Parte fondamentale delle scene sono le luci, firmate entrambe da Gianni Carluccio mentre le musiche e i suoni, rispettivamente di Pasquale Scialò e Hubert Westkemper sigillano uno spettacolo che è anche una colonna sonora, tra i migliori visti in stagione.
Ci auguriamo che il nostro sistema teatro possa premiare e sostenere la qualità di spettacoli da distribuire per il bene del pubblico.
Sarabanda
di Ingmar Bergman
traduzione Renato Zatti
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd, per gentile concessione di Josef Weinberger Limited (agente del copyright), Londra, per conto della Ingmar Bergman Foundation.
Teatro Argentina, Roma, dal 27 maggio al 1° giugno 2025.