Quando il teatro cambia la vita: un monologo autobiografico per Sasà Striano di Laura Novelli

Shakespeare gli ha cambiato la vita. Gli ha insegnato che avrebbe potuto avere un’altra possibilità, che avrebbe potuto perdonarsi. Shakespeare ha ribaltato il suo destino a furia di poesia, di sentimenti estremi e controversi, di quella pietosa comprensione dell’animo umano che, nutrendo le sue opere, nutre le nostra visione del mondo da secoli. Shakespeare e il teatro sono stati, insomma, i binari lungo i quali Sasà Striano (ex-detenuto del carcere di Rebibbia e oggi affermato attore con alle spalle ruoli importanti in celebri pellicole quali Gomorra di Garrone e Cesare deve morire dei fratelli Taviani) ha potuto ricominciare a sentirsi uomo, a pensarsi non più vuoto, smarrito, perso. Ne ha scritto spesso nei suoi libri autobiografici (cito, tra gli altri, La tempesta di Sasà, Giù le maschere), ne parla quotidianamente quando lavora come insegnante in alcuni laboratori teatrali attivati nelle carceri italiane e ne ribadisce il senso nel suo ultimo lavoro per le scene: il monologo Il giovane criminale da lui stesso scritto, diretto e interpretato ed ispirato ad alcune ben note pagine di Jean Genet.

La pièce debutterà l’8 gennaio al Teatro Off Off di Roma ma ha avuto un’importante anteprima nella rassegna di Radio3 Tutto esaurito! Il mese del Teatro alla radio, curata da Laura Palmieri e Antonio Audino, all’interno della quale è stata presentata nella sala A di via Asiago in diretta audio e video (facilmente recuperabile nel sito www.raiplayradio.it).

L’evento radiofonico, tra l’altro programmato a chiusura di vetrina, ha rappresentato non solo una partenza, una prova generale, ma un vero e proprio focus sul significato e il valore della pratica teatrale negli istituti di detenzione. Le riflessioni dell’autore/attore, intervistato da Laura Palmieri, di Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro a Roma Tre e curatrice del progetto Teatro in Carcere, e di Marco Ruotolo, docente di Diritto Costituzionale nella medesima università e coordinatore del tavolo di lavoro Gli Stati Generali sull’esecuzione penale (www.glistatigenerali.com) hanno arricchito, infatti, il monologo di una sostanza teorica davvero molto significativa.

<<In un momento storico in cui si innalzano muri>> – ha sottolineato la prof.ssa Venturini – <<dobbiamo ricordare il lavoro teatrale che nelle carceri italiane fanno tanti operatori e artisti. Penso, per esempio, ad Armando Punzo e alla Compagnia della Fortezza di Volterra; penso ai Liberi Artisti Associati, il gruppo di Rebibbia guidato da Fabio Cavalli all’interno del quale Striano stesso si è formato. In questi casi, così come nelle molte altre realtà disseminate nella nostra Penisola, il teatro rappresenta “un ponte tra carcere e società”, un’occasione appunto di rinascita. Per i detenuti, partecipare ad un laboratorio teatrale significa superare l’idea che lo spettacolo sia solo “intrattenimento” e capire, invece, che esso “serve per lavorare su di sé”, per costruire relazioni, per fare un’esperienza che, una volta usciti, può tradursi in una professione. Come dice il grande Grotowski: in fondo lavori per riprenderti la tua anima>>.

Sempre su questa idea di catarsi, di rinascita, di cambiamento ha insistito la testimonianza del prof. Ruotolo: <<Mi piace ricordare l’articolo 27 della nostra Costituzione laddove, al comma 3, si legge che Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Che è poi una rieducazione alla bellezza della vita>>.

La bellezza della vita. Già. Quella bellezza che Striano, nell’appassionato viaggio autobiografico affrontato in questo assolo, conoscerà solo tardi. Dopo aver attraversato tanti orrori, tanta violenza, tanta fragilità. Ancor prima di nascere, varca il cancello del carcere di Poggio Reale in grembo alla madre per andare a trovare lo zio (è il 1972). Un marchio indelebile. Le condizioni sociali di degrado e miseria in cui cresce lo costringono, sin da bambino, a delinquere. A delinquere davvero, e non per finta come si vede al cinema o in tv. Sperimenta i primi furti. Le vessazioni di una guardia di sicurezza. La paura delle botte. Le prevaricazioni orrende subite dagli altri detenuti. Non c’è salvezza per chi come lui è nato nel posto sbagliato. Sembra che un fato negativo e infausto guidi le sue azioni criminose. Dapprima limitate al contrabbando di sigarette, poi sempre più gravi. E sempre più compromesse da una coscienza silente ma vigile che lo chiama a riflettere, ad arrabbiarsi con il mondo, con le istituzioni, con chi non gli ha permesso di percorrere un’altra strada.

Proprio questo continuo ondeggiare tra racconto, memoria e messa in crisi del ricordo stesso è, secondo me, uno dei punti di forza del lavoro. Non a caso l’interprete – recitazione asciutta e sottoesposta, che tuttavia cede in alcuni momenti alla commozione più spontanea – si presenta al pubblico dicendo di non essere un attore ma un criminale davanti ad un uditorio di giudici, avvocati, aguzzini. La sua vita da camorrista passa dunque al setaccio di un’eticità personale che pone l’azione più turpe in rapporto tanto con l’esterno – la realtà, le condizioni, gli altri – quanto con se stesso, con la propria anima.

Ė come se in fondo quel senso della bellezza della vita, questo criminale più volte incarcerato, a lungo latitante, e poi disceso negli inferi di una depressione apparentemente senza rimedio (gli anni della reclusione a Rebibbia), lo serbasse dentro se stesso da sempre. Ma senza esserne consapevole. Senza avergli dato un nome. Ci vorranno l’alcool, gli psicofarmaci, quello smarrimento estremo dovuto al sentimento di non essere più nulla, svuotato di senso e solo, a costringerlo a una rinascita. Ma sarà solamente grazie al teatro (complice l’insistenza di un detenuto ergastolano già rapito dal fascino delle scene), alle opere di Edoardo De Filippo, di Shakespeare, di Genet, che quella rinascita potrà diventare reale. Entrato nel laboratorio guidato da Cavalli, Striano scopre infatti una luce, capisce che da lì in poi si apre una nuova vita per lui.

Tutto questo percorso è raccontato in modo semplice, chiaro. Senza enfasi né patetismi. Colpisce qui soprattutto l’insistenza con cui egli confessa di aver avuto sempre un “senso romanzesco” della propria esistenza, un sapere profondo di essere diverso dagli altri. Ed è questo uno degli aspetti che, drammaturgicamente parlando, avvicinano il monologo di Striano a Genet (non per niente grande autore rappresentato più volte anche dalla Compagni della Fortezza di Volterra e ricordo, solo per fare un esempio, il memorabile allestimento de I Negri del 1996). Un Genet altisonante, furioso e insieme commosso, delicato, indifeso, che, in questo discorso radiofonico elaborato nel ’48 e incentrato sui cosiddetti riformatori, scrive: <<La Radio francese mi aveva offerto una delle sue trasmissioni dette “Carte Blanche”. Ho accettato con l’intenzione di parlare dei giovani criminali. Il mio testo, che in un primo tempo era stato accettato da Fernand Pouey, è stato ora respinto. Più che fierezza ne sento una certa vergogna. Avrei voluto far ascoltare la voce del criminale. E non il suo lamento, ma il suo canto di gloria. Me lo impedisce un’inutile ansia di essere sincero, ma di essere sincero non tanto per l’esattezza dei fatti quanto per fedeltà a quei toni un po’ rochi che soli potevano esprimere la mia emozione, la mia verità, l’emozione e la verità dei miei amici. I giornali si erano già stupiti che un teatro fosse stato messo a disposizione di uno scassinatore – e di un omosessuale. Quindi non posso parlare davanti ai microfoni nazionali. Ripeto che ne provo vergogna. Sarei comunque rimasto nel buio ma sul limitare della luce e indietreggio nelle tenebre da cui ho fatto tanti sforzi per strapparmi. Il discorso che leggerete era stato scritto per essere ascoltato. Lo pubblico ugualmente ma senza la speranza di essere letto da quelli che amo>>.

A differenza di Genet la voce di Striano arriva a chi si predispone all’ascolto. Ascoltare una vita è un po’ come ripercorrere la propria, intercettare le differenze, scoprire le analogie. E tanto più il meccanismo funziona perché questo breve monologo di vita ne racconta non una ma ben due, racchiuse nel medesimo “romanzesco” destino del protagonista. Tra la vita prima del teatro e quella dopo si apre una battaglia che è personale e sociale insieme. Motivo per cui davvero il teatro nelle carceri può essere spiraglio luminoso di rinascita. Di fiducia nel domani. Di fulgida bellezza.

Il Giovane criminale

Genet/Sasà

scritto, diretto e interpretato da Sasà Striano

assistente alla regia Marta Paci

foto Valentina Tamborra

Rai Radio3, TUTTO ESAURITO!, 30 novembre 2018.

Teatro Off Off, Roma, dall’8 al 13 gennaio 2019.