Quale padre per i figli di questo terzo millennio? In nome del padre di Mario Perrotta di Laura Novelli

Due volti maschili campeggiano nella foto manifesto dello spettacolo. Entrambi intensi. Seriosi ma rassicuranti. A sinistra, riconosciamo Mario Perrotta. Autore, regista e attore più volte premiato (ricordiamo, ad esempio, l’Ubu per il Progetto Ligabue. Arte marginalità follia nel 2015 e, due anni prima, quello per un Un bés. Antonio Ligabue) che nei suoi lavori è sempre stato capace di coniugare l’urgenza di uno sguardo sul contemporaneo a una visionarietà del tutto personale, nutrita a furia di memoria (intima e collettiva), mitologia e scrupolosa documentazione. Basti leggere tra i rivoli del suo sito (http://www.marioperrotta.com/) per capire con quanta profondità di analisi egli si sia accostato al tema delle migrazioni, dell’accettazione/rifiuto del diverso (tanto più se artista), dell’inutilità disastrosa della guerra firmando, soprattutto negli ultimi anni, progetti compositi scanditi in diverse tappe (quali, ad esempio, Bassa continua, A chi viene dal mare, Una notte sull’Altipiano ).

A destra della foto scorgiamo invece Massimo Recalcati, noto psicanalista e saggista (https://www.massimorecalcati.it/) che in molti dei suoi libri (Il segreto del figlio, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre) scandaglia i rapporti familiari e la fragilità attuale di un’istituzione scossa da profondi cambiamenti. Proprio in quest’ultimo saggio (pubblicato da Feltrinelli nel 2013) Recalcati affronta il tema dell’evaporazione dei padri nella società odierna e cita Perrotta laddove scrive: <<Siamo stati tutti Telemaco. Abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì ritornasse. E si potrebbe aggiungere come fa Mario Perrotta nella sua intensa rivisitazione teatrale dell’Odissea, che qualcosa torna sempre dal mare>>.

Insieme, questi due uomini, intellettuali e “padri“ sono i vettori, i centri propulsori di un progetto sulle famiglie “millenials” che inizia con la pièce In nome del padre (debutto al Piccolo di Milano il 17 dicembre) per poi proseguire fino al 2020, allargando l’indagine a madri e figli. L’intero corpus di lavori ha avuto un significativo preambolo in una serie di letture pubbliche: primo seme di una riflessione che allarga ora il suo respiro per trasformarsi in un vero e proprio spettacolo. Un monologo scritto, diretto e interpretato dallo stesso Perrotta, e che vede appunto Recalcati offrire la sua consulenza alla drammaturgia, in cui il tappeto teorico e critico di partenza diventa materia scenica, personaggio, corpo, parola. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Dopo i corposi progetti degli anni scorsi, ora il tuo sguardo si posa sui rapporti familiari. Tema per il quale immagini un trittico di lavori. Perché questa urgenza?

La trasformazione della famiglia e dei ruoli tradizionali credo che sia un nodo nevralgico dei nostri tempi. Essendo anche io genitore da qualche anno, ho sentito un bisogno estremo di confrontarmi con queste trasformazioni. E ovviamente ho deciso di dedicare al tema non un singolo allestimento bensì tre, investendo su una riflessione e una idea teatrale dilatate nel tempo. Ho smesso di produrre spettacoli hot, brevi e veloci. Ho bisogno di respirare, di prendermi tempi lunghi, in controtendenza con un mondo che corre sempre di più e non si capisce bene verso cosa. In questo caso poi il tempo ci vuole perché affronto il tema dei nuclei familiari e dei suoi tre pilastri: padre, madre e figlio. Con Il nome del padre, che debutta il mese prossimo a Milano, iniziamo dai padri. “Materia” che mi sta molto a cuore.

Che ruolo rivestono, nella costruzione dello spettacolo, i libri di Recalcati?

Funzionano da base scientifica del lavoro drammaturgico, che naturalmente è diverso e autonomo rispetto agli studi. Io immagino tre figure diverse di padri. Tre padri molto lontani tra di loro per estrazione sociale, livello culturale, professione, carattere. Diversi soprattutto nel loro modo di essere padre.

Di che padri si tratta?

Sono innanzitutto tre padri patologici. A teatro bisogna rappresentare ciò che è fuori dalla norma, fuorviante, sghembo, altrimenti ci si annoia. Sto lavorando in questa direzione nel cercare di mettere in carne alcune categorie astratte. Mi spiego: vorrei portare in scena le tre maggiori tipologie di padri che Recalcati cita nei suoi volumi. Il Padre Norma, tutto regole e rigidità; il Padre Smarrito, inadatto al ruolo e più figlio del figlio stesso; il Padre Democratico, il più insidioso, quello sempre aperto al dialogo, amichevole, progressista, che poi però al primo problema volta faccia e va in crisi. Ovviamente queste tre categorie rischiano di sembrare generiche. Tanto più che ogni padre contiene in sé qualcosa di tutti questi aspetti. La differenza vera sta nella capacità o meno di porsi delle domande. Al di là di come si è o si cerca di essere, credo che farsi delle domande sia l’unico modo per poter essere padre e madre.

Questi tre padri in scena come verranno rappresentati?

La situazione scenica è semplice: sul palcoscenico ci sono solo tre manichini con appoggiati sopra gli abiti dei tre padri. Manichini che sono simulacri di questi padri mancati, grotteschi, inquietanti. Io, cambiando abito, cambierò personaggio a vista senza mai interrompere la narrazione.

Quanto autobiografismo di figlio e di padre c’è in questo nuovo lavoro e progetto?

Molto. Già con Odissea, una produzione di undici anni fa, chiudevo i miei conti di figlio, anche se il padre rappresentato in quel lavoro non è un’evocazione del mio che, a differenza del personaggio, era un padre molto presente e affettuoso. Tuttavia, il messaggio del mio monologo era che, a un certo punto, bisogna smettere di essere figli altrimenti non si può diventare padri. Oggi la mia situazione personale è molto cambiata. Da quattro anni sono padre di un bambino che mi pone domande complicate sul mondo e la vita. Cerco di dargli risposte accorte ma mai assertive. Sento di aver aperto la mia partita con un me stesso padre. E questa sensazione è stata fondamentale per l’ideazione e la creazione del progetto di cui stiamo parlando.

Dunque ti metti in scena?

Più che altro esorcizzo le mie paure – che credo condivise e comuni – mettendo in scena i padri che non vorrei rischiare di essere. Mi porrò le domande più urgenti dei tre padri mancati che rappresento.

Anche stavolta affronti un monologo. Che tipo di riflessione ti ha portato a questa scelta?

I tre padri in scena parlano con i loro figli, adolescenti immaginari, che puntualmente non li ascoltano. Ma forse essi non li ascoltano perché i padri stessi non sanno parlare. Dunque, il monologo è significativo anche di questa mancanza di ascolto e di comunicazione reciproci. È vero che mi ritrovo ancora una volta dentro l’ossatura di un monologo e che qui rimescolo alcuni elementi che sono stati significativi nel mio percorso artistico, ma è anche vero che introduco delle novità, riguardanti soprattutto l’uso della lingua, dei dialetti.

In che senso?

Mi hanno spesso definito un narratore salentino. Ebbene, non mi reputo tale o almeno non solo tale. In Milite ignoto, ad esempio, ho recitato in tanti dialetti diversi. In questo nuovo lavoro invece cercherò di fare un uso dei tre dialetti fuori dagli stereotipi più abusati. Ad esempio, il barese sarà affidato ad un intellettuale e il milanese ad un operaio. Un po’ come faceva Gian Maria Volonté. Di totalmente nuovo c’è poi l’uso degli abiti, il cambio di abbigliamento ad ogni passaggio di carattere. Cosa che fino ad oggi non ho mai sperimentato in scena.

Che epilogo si prevede per questi tre padri del terzo millennio?

Alla fine della pièce (prodotta dallo Stabile di Bolzano, ndr), i padri si mescoleranno. Ognuno perderà un pezzo di se stesso e si comporrà l’idea di un unico padre dalle lingue commiste. Un insieme di tutti e tre i modelli paterni, come per dire che davanti ai figli tutti e tre sono uguali. Tutti e tre sono padri mancati, monchi, afasici.

Quale è stato il ruolo di Paola Roscioli, che qui collabora alla regia, nella costruzione del lavoro?

Come sempre, a partire dai tempi di Italiani Cíncali, il contributo di Paola è una parte fondamentale del mio processo creativo perché è un’attrice pura (di recente è stata l’intensa interprete del monologo Lireta. A chi viene dal mare, per la quale è stata candidata al Premio Ubu 2017), istintiva, uterina. Una di quelle che sente con il corpo se una cosa funziona o meno, se bisogna tagliare una scena o allungarla, se una battuta suona bene o stride. È una qualità che io non ho e che le riconosco con tutta la mia stima e il mio cuore.

Dopo le date del Piccolo (repliche fino al 22 dicembre, ndr) dove sarà possibile vedere In nome del padre?

Faremo una lunga tournée toccando città importanti come Bari, Genova, Lugano, Bolzano. Gireremo anche in centri più piccoli. Il calendario è davvero fitto. Unico rammarico: non essere riuscito a portare lo spettacolo a Roma. Non abbiamo trovato nessuno spazio disponibile ad ospitarlo. Credo di aver sempre lavorato sodo e di aver avuto il riconoscimento del pubblico e degli addetti ai lavori. Eppure, nessuna realtà romana si è fatta avanti per darmi la possibilità di presentare al pubblico capitolino questo lavoro. Mi sembra un segnale indicativo del difficile momento che la capitale sta attraversando. Da uomo di teatro, non posso negare di essere molto preoccupato per questa situazione. E lo direi anche per chiunque altro nella mia posizione.

In questo mese di novembre, Perrotta e la sua compagnia stanno proseguendo la seconda sessione di drammaturgia per In nome del padre. Riportiamo il link di un video che mostra il frammento di un incontro con Massimo Recalcati nel corso del quale si parla dell’evaporazione del Padre Norma: https://www.youtube.com/watch?v=7Xr3Nrx8hVw&feature=youtu.be. Un breve accenno a ciò che più diffusamente lo psicanalista scrive nei suoi saggi. In particolare, si legge sempre ne Il complesso di Telemaco: <<Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l’ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato, vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso>>.

In nome del padre

uno spettacolo di Mario Perrotta

consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati

con Mario Perrotta

regia, scene e luci Mario Perrotta

collaborazione alla regia Paola Roscioli

costumi Sabrina Beretta

foto Luigi Burroni

Piccolo Teatro, Milano, dal 17 al 22 dicembre 2018.