PROFILI: VITE DA VICINO > Un’idea di danza secondo Selina Bassini Intervista a Selina Bassini di Paolo Ruffini

Selina Bassini dal 1996 è socia fondatrice dell’Associazione Cantieri Danza di Ravenna partecipando alla sua costituzione e assumendone la codirezione-artistica. Oggi per Cantieri si occupa della curatela dei Festival Progetti diffusi nel territorio regionale e nazionale. Fra questi Lavori in Pelle (divenuto poi Vetrina della Giovane Danza d’Autore) e Ammutinamenti, Festival di danza urbana e d’autore di Ravenna. Infine, è coordinatrice di Anticorpi Emilia Romagna, rete di rassegne, festival e residenze creative da cui è nato il Network Anticorpi XL, prima rete italiana dedicata alla giovane danza d’autore.

Il tuo personale lavoro si è costruito intorno a una grande passione per sfociare poi in una professionalità che oggi, con l’Associazione Cantieri Danza, ci racconta molto della danza indipendente degli ultimi anni. Nelle tue pratiche cosa rimane, cosa si trattiene di quell’esperienza a suo modo esemplare come Tangaz? 

Apri con questa domanda un bellissimo album di ricordi nei quale è raccolto anche l’inizio della nostra amicizia. Ci siamo conosciuti per la prima volta da due parti opposte di un  tavolo: tu giovane e brillante critico teatrale in giuria alla finale del “Premio Scenario” nel 1999 insieme a Giovanna Marinelli, Marco Baliani, Antonio Calbi, Stefania Chinzari, Gerardo Guccini, Sandro Lombardi, Massimo Marino e Pier Giorgio Nosari, io dall’altra parte di quel tavolo per un feed back sul nostro neonato Tangaz. Se non ricordo male fu il primo spettacolo di danza a vincere uno dei prestigiosi premi speciali assegnati alle giovani compagnie. Il “Premio Scenario” è stato il primo progetto che si propose come osservatorio del nuovo e luogo di dialogo, sperimentazione, confronto, accogliendo progetti in divenire, da parte dei giovani artisti. Entrammo a far parte di “Generazione Scenario 2000″: una serie di iniziative di carattere spettacolare e culturale organizzate dall’ETI (Ente Teatrale Italiano) per promuovere e distribuire i progetti vincitori. Un progetto che fu per me e per Claudia Bruni un’importante esperienza che portammo poi come buona pratica all’interno dell’associazione Cantieri. Un fine millennio gli anni che andavano dal 1995 al 2000 dove presero avvio nuovi prototipi di tribù in ambito coreografico e ognuno di noi, con la sua comunità di riferimento, ha potuto sperimentare le pratiche di costruzione per un futuro possibile della danza italiana: come me e Claudia Bruni, Michele Di Stefano e Biagio Caravano fondarono MK, Roberto Casarotto la sua compagnia Secondo Taglio, Alessandra e Antonella Sini e Paola De Rossi fondarono Sistemi Dimanici Altamente Instabili, Michela Lucenti, Simona Bertozzi, Fabrizio Favale, il Teatro delle Moire con Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, solo per citarne alcuni. Kinkaleri, ad esempio, avevano già dal 1995 dato vita ad un raggruppamento più consolidato dei nostri. Ci univa, credo, un denominatore comune nella curiosità che tutti avevamo nell’esplorazione dei linguaggi del corpo secondo traiettorie lontane da un vocabolario precostituito. Cercavamo a modo nostro una distanza dai maestri. Tutti a modo nostro abbiamo a creato un terreno fertile. L’esperienza di Cantieri in quel fine millennio e del festival Lavori in Pelle con le mie prime curatele, nascono in questi anni. Un ricongiungermi, dopo aver attraversato la Bologna anarchica di quegli anni e dei suoi centri sociali con la mia storia, con la mia identità. Così, non a caso il primo festival che Cantieri organizza nasce ad Alfonsine, dove sono nata e cresciuta e da dove mi sono allontanata per poi tornare dopo la mia esperienza nel mondo; così Tangaz raccontava di “una “balera” di provincia e della musica del tango (ma non solo), e i personaggi che la popolavano, i quali raccontavano ognuno in qualche modo una propria storia che veniva continuamente spezzata, decostruita, attraverso un gioco di libere associazioni o di fragili rimandi. Lo spettacolo decollava poi verso una fantasmagorica sarabanda dove i voli pindarici, i sogni e le illusioni di ognuno dei protagonisti diventavano una storia collettiva che aspirava ad essere un po’ parte della vita di ognuno di noi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se dovessi sintetizzare in un concetto o in una impressione, cosa continua a rappresentare per te l’esperienza della danza? Come si declina, quali interferenze intercetta, rispetto alla complessa configurazione dell’arte contemporanea e dei suoi abbandoni linguistici? 

Una peculiarità della danza penso sia quella di intercettare nel qui ed ora i luoghi della comunicazione e dell’incontro dell’animo umano.

Quanto sei ancorata, nel tuo pensiero curatoriale e per certi versi artistico, a una radice, una ragione, un “obbligo d’onore” nei confronti della storia e delle tradizioni nella danza? Qual è la tua idea curatoriale?

Mi sono avvicinata alla danza contemporanea da autodidatta al termine della mia attività agonistica di ginnasta, mentre intraprendevo gli studi all’Istituto superiore di educazione fisica di Bologna. La mia prima ricerca del movimento è avvenuta grazie alla preziosa “Summer School” che Vittoria Ottolenghi organizzava a Comacchio durante il festival di danza Ballo è bello, di cui era direttrice artistica, dove invitava ogni anno maestri che avevano lavorato o che avevano portato avanti la ricerca di creatori o creatrici della danza postmoderna e della danza contemporanea negli anni Sessante e Settanta, oltre che a coreografi che hanno segnato la storia della danza contemporanea italiana. Il mio dialogo con la danza non ha potuto così prescindere dalla memoria e dal riconoscimento di questi linguaggi della tradizione. Attraversavo per la prima volta pratiche che avevano generato uno nuova bellezza. Credo, come curatrice, che sostenere, accompagnare il percorso di artisti giovani ed emergenti rinnovi in me la necessità – attraverso il lavoro – di immaginare nuovi habitat insieme a loro, perché possono contribuire con il loro sguardo a ripensare ora a una nuova bellezza anche in cose che non abbiamo mai pensato prima.

Qual è il tuo concetto di bello? 

La bellezza è per me un percorso che mi colpisce quando arriva al cuore delle cose, quella per cui sento che lì ne va di noi. La bellezza mi deve commuovere.

Stiamo vivendo una momento per certi versi straordinario, anzi fuori dall’ordinario. Al di là delle possibili strategie che si stanno mettendo in campo per dare voce alle arti anche in questo frangente e al di là della loro efficacia, secondo te a chi sono rivolte? Quale pubblico sta incontrando questa datità esperienziale mediata?

Insieme, festival, rassegne, residenze creative, artisti, operatori, critici, abbiamo la responsabilità di ripensare cosa vorrà dire fare comunità quando usciremo da questa emergenza e quando – per un ulteriore periodo – non sarà possibile tornare come prima alle pratiche rituali che da sempre ci vedevano gli uni accanto agli altri, nella prossimità fisica che conosciamo. Dovremo diventare presidi locali dove ripensare a nuove pratiche per ricostruire il rapporto di fiducia con il pubblico

Quali sono gli artisti che in questo momento ti interessa seguire?

Gli artisti erranti che raccontano il mondo e non hanno paura del disequilibrio.

Il futuro è inevitabilmente una nebulosa (per gli ovvi motivi che conosciamo), ma quale “azione” potrebbe essere utile alla danza da oggi in poi?

In una situazione di emergenza, dove diventa complicato potersi confrontare personalmente, è importante mantenere lo spirito di concertazione e condivisione delle idee. In Associazione stiamo sperimentando nuove modalità di lavoro da casa, proviamo a sviluppare idee e progettualità. Ci riuniamo quotidianamente con il supporto delle tecnologie  per affrontare insieme le questioni che la crisi ci pone davanti. Sentiamo la necessità di riflettere e di aggiornare le nostre progettualità per renderle più incisive rispetto alle ripercussioni che questa emergenza produce e produrrà sull’intero sistema della danza. Ci stiamo interrogando in modo particolare sui futuri possibili e sul ruolo di sostegno allo sviluppo professionale di giovani coreografi. e degli autori emergenti. Non possiamo trascurare le realtà artistiche emergenti, le quali rappresentano l’elemento più vitale e dinamico e, al contempo, quello che meno dispone di garanzie e strumenti per reggere all’impatto della crisi.