PROFILI: VITE DA VICINO > Enzo Celli: fermiamoci per ritrovare verità Intervista a Enzo Celli di Patrizia Vitrugno

Liminateatri.it avvia, da questo mese, una nuova rubrica periodica Profili: vite da vicino che vuole raccontare le vite, ovvero, le persone dietro il loro ruolo a teatro. Scoprire i segreti dell’essere attore o danzatore, da dove è partita questa passione e come si è concretizzata. Cercare di arrivare al cuore di ogni artista che incontreremo è l’ambizioso obiettivo di questo spazio perché dietro a una professione c’è sempre un essere umano fatto di fragilità e determinazione, di grandi sogni ma anche di piedi ben piantati per terra, di occasioni perse e ritrovate.
E la apriamo con Enzo Celli, danzatore e coreografo italiano che da due anni vive e lavora a New York.

A Enzo Celli non piace il gioco facile. Lui non è uno che fa il danzatore. Lui è un danzatore. La prima volta che l’ho incontrato è stato qualche mese fa in un bar di New York, tra la Broadway e la 20ma strada, e mentre il racconto procede i suoi occhi brillano di passione.

In Italia ero il direttore di una compagnia di danza (la Botega, fondata a Roma nel 1995 ndr), c’era un centro di formazione importante ed ero anche abbastanza conosciuto. Era dal 2008 però, cioè dalla mia prima volta nella Grande Mela, che sapevo che la mia vita era qui e ho combattuto con questa cosa per dieci anni. Poi un pomeriggio su una spiaggia parlando con mia moglie è venuta fuori l’insoddisfazione e il senso di infelicità perché sapevo di essere nel posto sbagliato. È da lì che è partito tutto. Ora che sono qui da due anni posso dire che è stata la decisione migliore.

Oltre a essere un ballerino, un coreografo e un insegnante Enzo Celli è il fondatore e direttore artistico, assieme a sua moglie Elisabetta Minutoli, di VIVO Ballet, società nata a Roma e che ha sede a New York dove nasce invece il VIVO Ballet Professional Training Center. Prima di tutto, però, Celli è un autodidatta.

A Sora, il paese in cui sono nato e cresciuto, non c’era una scuola di danza e se ci fosse stata di certo non sarei diventato né il danzatore né il coreografo che sono. Sarei stato uno dei tanti. Invece in quello che faccio c’è un germe di diversità che non vuol dire essere migliore, ma semplicemente diverso. Una diversità che ancora non colgo benissimo perché sono anche spettatore delle cose che faccio ma che nasce dall’essere un autodidatta. Ed è per questo che penso che quello che sto facendo io lo può fare chiunque. E non lo dico per sminuirmi, anzi! Quando penso a tutta la strada che ho fatto, da Sora a New York, mi sembra la storia di un altro. Invece non è così, è la mia e ora voglio vedere come va a finire, ho bisogno di sapere dove mi porterà questo percorso anche e soprattutto per mio figlio. Chi pensa che un figlio sia un ostacolo non sa cosa dice. Se io non avessi avuto lui non avrei avuto la forza di fare questo salto: è la mia energia.

Una energia che si declina anche nella rigida disciplina, che impone tutti i giorni un tempo per la mente, uno per il corpo e uno per lo spirito, alla quale Celli si sottopone da anni e che forse fa parte dell’essere danzatori.

Ogni mattina mi sveglio alle 5,30 perché ho bisogno di dedicare un’ora e mezzo solo a me stesso. È il tempo per pregare, meditare, guardare mio figlio che dorme, preparare la giornata in modo da non dover correre a tutti i costi. Poi niente tv, solo il canale dei cartoni.

E la preghiera è l’inizio e la fine delle lunghe giornate di Celli, in un dialogo costante con Dio. 

Più che un uomo di fede mi sento un uomo di preghiera nel senso che non riesco, come dice Erri De Luca, a sottrarmi all’urto del vangelo tutti i giorni. Ho il mio messale privato pieno di miei scritti a margine. E quindi ogni mattina prendo un caffè con nostro Signore mentre la sera bevo con lui un bicchiere di vino. E quello che faccio è incastonato in un certo tipo di missione. So che è un’espressione molto forte però so che nostro Signore si aspetta che io faccia quello che sto facendo e che lo faccia qui.

Foto di Pierre André Transunto

 Sarebbe stato, infatti, molto più probabile e soprattutto più semplice restare in Italia e qualcuno potrebbe pensare che Enzo Celli abbia fatto una scelta da kamikaze. Dalla sua prospettiva invece è stato un gesto di fiducia.

È la provvidenza. C’è un autunno, c’è un inverno, c’è una primavera e c’è un’estate. Poi si ricomincia. C’è un tempo per tutte le cose.

Ed Enzo in quale stagione della vita si trova?

Mi sento nella fioritura, in primavera. È passata la semina e attendo il raccolto. Io però sono un mandorlo, i miei fiori sbocciano prestissimo ma sono l’ultimo a dare i frutti.

Oggi, da New York, raggiunto telefonicamente Celli ci consegna anche il suo punto di vista sulla situazione che il mondo intero sta vivendo a causa del diffondersi del Coronavirus.

Temo che quando finirà questa storia non si parlerà dell’Italia ma si parlerà di New York perché i numeri qui saranno da film horror. Io ho deciso di mettermi in quarantena da due settimane e, fortunatamente, dato che c’è un grosso progetto in ballo per la stagione 2021-22, con il mio cast artistico avevamo già deciso di prenderci una pausa. Ovviamente il danno maggiore riguarda l’aspetto educativo e didattico perché le scuole sono chiuse. Detto ciò però mi rincuora il fatto che noi operiamo su New York che comunque è una città che è all’avanguardia su tutto e dove c’è un certo tipo di mentalità e di visione. Ritorneremo. Più forti e più grandi di prima perché già adesso si fa molta fatica a tenere a casa le persone. Io penso che dal punto di vista artistico dopo ci sarà un buon momento per le relazioni sociali e la differenza verrà fatta proprio nei primi tempi di ripresa della normalità. Bisognerà solo fare in modo che questa necessità di trasferire i contenuti sul web per poter continuare per esempio a fare lezioni anche attraverso classi online non sia un’arma a doppio taglio e che un domani poi possa in qualche modo nuocere alle lezioni in presenza e quindi all’economia delle scuole di danza. Io mi ero rifiutato poi, dopo un’attenta riflessione e in seguito a diverse richieste, ho accettato di fare una classe online. Il mio progetto però è articolato in modo molto preciso ovvero 30 minuti di variazione di danza e 10-15 minuti di coaching di gruppo, per parlare di come affrontare questo momento. L’ho voluto fare per un senso di appartenenza all’Italia e di vicinanza e perché mi spiace lasciare completamente sola una comunità come quella dei danzatori italiani. Devo essere sincero, se lo avessi dovuto fare solo per i danzatori americani forse non lo avrei fatto.

Un momento dello spettacolo “Crisalidi” di Enzo Celli

In verità nella realtà newyorkese Celli è ben inserito. Su di lui e sulla sua danza c’è una grande attenzione e poi, come lo stesso Celli ammette, “quando fai una cosa a New York parli al mondo”. Nell’ultimo anno e mezzo, fresco di green card e di una nuova potentissima agente (la JK&A – Jodi Kaplan & Associates) Enzo Celli si è dedicato molto alla sua carriera da insegnante, ha debuttato con Gabbatha, spettacolo in memoria di Alan Kurdi ispirato a La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès, e dopo una prima serata con modulo americano di 4 coreografie, lo scorso marzo ha portato in scena Crisalidi, lavoro che traccia una linea di congiunzione tra la farfalla e il ballerino entrambi concentrati a raggiungere la bellezza e quindi la poesia, che durerà, si spera, un mese. Infine a gennaio 2020 ha debuttato con The Village lo spin-off di Giselle, la storia del villaggio di Giselle dopo la sua morte. Il ruolo principale ovvero quello del sindaco è interpretato proprio da Celli che veste i panni di un pappone politico che fa leva sulle paure della gente proprio come succede oggi.

E per Enzo Celli cos’è la paura?

La paura è uno dei motori perché è propria dell’essere umano. Esattamente come questo ossessionato senso di appartenenza, l’esserci sempre e comunque. È uno dei temi della nostra società assolutamente tossico. Una delle mie paure, invece, è sempre stata l’apatia e stare qui a New York per me è energia pura, non avrei mai pensato di potermi sentire così acceso. Oggi finalmente sento di poter dire che la morte mi troverà in vita. Mi troverà sulla porta di casa mentre sto indossando lo zaino, di corsa perché sono in ritardo.

Ora però, anche a causa della situazione che stiamo vivendo, è arrivato il tempo dell’attesa. 

Io sono un contadino per cui ho la capacità di fermarmi e aspettare. È proprio in questo periodo che sono entrato in contatto con la mia nuova agente Jodi Kaplan con la quale stiamo preparando la stagione 2021-22 che prevede anche un tour in Israele. Credo si stia chiudendo un cerchio e artisticamente posso tornare a un certo tipo di danza, per me più interessante, che poi è quella contemporanea. Io ho lavorato per molti anni in Italia in una compagnia di linguaggio underground e hip hop e sono stato identificato con quello. Mi sono reso conto che stava diventando una gabbia perché quando la gente ti dice quello che fai in realtà ti sta dicendo quello che non devi fare perché segna i tuoi confini. Io invece ho bisogno di andare oltre, sempre, e quindi ho deciso di seguire questa naturale tendenza alla danza contemporanea. Per questo New York perché in Italia tutti mi dicevano che non si poteva fare e io da buon contadino ho detto: andiamo a vedere dove ci capiscono. Il segreto è avere la freddezza di fare un passo indietro, di non farti prendere dagli entusiasmi e soprattutto di non innamorarti mai delle tue idee o di quello che stai facendo perché potrebbe essere uno dei più grandi autogol.

Questo è dunque il tempo dell’attesa che segna l’inizio di un nuovo processo creativo in corso e che si conclude con quello che Enzo Celli chiama “prendere la zanzara”. 

Anche per le mie creazioni è sempre un discorso di stagioni. C’è un periodo in cui senti che qualcosa sta arrivando e allora io mi ritiro completamente. Abbandono la danza per un mesetto, mi rifugio assieme a una pila infinita di libri in montagna oppure nella mia casa di Sora, in Italia, dove tutto è rimasto intatto da quando siamo andati via il 3 gennaio 2017, albero di Natale compreso, e cerco di rendermi il più permeabile possibile. A un certo punto senti che sta per arrivare qualcosa ed è esattamente questo il periodo che io chiamo “prendere la zanzara”, cioè quando l’idea arriva e la afferri proprio come quando prendi questo insetto.

Enzo Celli nella sua casa a Sora

Il distacco, nel tempo immobile della sua casa di Sora, restituisce un legame profondo con le proprie origini ma anche rabbia dal suo punto d’osservazione oltreoceano.

Il legame con la mia terra è molto forte ed è costante, giornaliero. Guardare l’Italia da qui in tempi di normalità però mi fa ancora più arrabbiare perché dal di fuori ti accorgi realmente del potenziale di quella lingua di terra. Ci si ottura la bocca con la parola cultura affermando che è un problema culturale e quindi va bene così, l’abbiamo sdoganata. Io invece penso che i problemi culturali siano una questione di corpo a corpo, la battaglia culturale è una lotta all’arma bianca, è una roba a cazzotti. E l’Italia è un acquario, noi siamo lì dentro, ci pensiamo, ci vediamo, ci consideriamo in un modo, a volte anche con supponenza e poi ci accorgiamo che quello è un acquario e tutto il mondo va in maniera diversa.

Cosa possono fare gli artisti per l’Italia? Ed Enzo Celli?

Io purtroppo per il mio Paese non posso fare niente, a meno che il mio Paese non decida che io possa fare qualcosa per lui. Il sistema culturale italiano è deviato completamente sulle sovvenzioni mentre qui ci sono dei clienti per dei progetti. In Italia ci sono tanti produttori che utilizzano dei ragazzini per mangiarsi dei soldi. E questo sistema è bloccato su di loro. E finché non si sblocca gli artisti come me non possono fare nulla. E questo fa ancora più male pensando che il nostro Risorgimento è partito dai teatri, dai loggioni.

Qual è dunque il compito degli artisti?

Dovrebbero essere delle bombe anarchiche all’interno della società con la libertà di poter dire ognuno ciò che vuole. Nel momento però in cui si perde questa caratteristica, è finito tutto. C’è un enorme divario ormai tra il linguaggio e la cultura per cui la cultura non si è più riconosciuta nel linguaggio, si è allontanata e si è creata questa distanza abissale che l’ha portata a rinchiudersi sempre più nelle élite così come il linguaggio si è spostato e rinchiuso nelle periferie.

E oggi che il mondo è fermo e siamo tutti in attesa di riprendere in mano le nostre vite e che anche i teatri possano ricominciare a ripopolarsi, un artista cosa può fare?

Una sera ero a cena con Maurizio Maggiani e mi disse questa frase: «c’è bisogno che la vita non sia soltanto bisogno». Io credo che dopo questa esperienza molti di noi si renderanno conto proprio che nella vita alle volte è necessario fermarsi un attimo e prendersi cura delle persone che si hanno accanto, di sé stessi, del bello. In questo senso secondo me si apre un’opportunità artistica perché la gente tenderà a ricercare la verità. È questo di cui avremo tutti bisogno: di verità, di trasporto e di purezza. Io penso inoltre che l’unica opportunità che abbiamo noi artisti è il corpo a corpo: salvarne uno alla volta, turbarne uno alla volta, dannarne uno alla volta. Poi quell’uno a uno diventerà massa ma prima che si ritorni a essere massa secondo me ci vorrà un po’. Come una sorta di spermatozoo che sta cercando di fecondarne uno alla volta.

Cos’è invece il corpo per Enzo Celli?

È tanto ma non è abbastanza. Il corpo è un mezzo proprio come un’automobile per questo è fondamentale la benzina che metti. Uscendo fuor di metafora in questo momento sarebbe sufficiente metterci almeno un po’ di pensiero, un po’ di riflessione perché io credo che l’uomo sia fatto di tre componenti inseparabili ovvero corpo, mente e spirito di cui bisogna prendersi cura tutti i giorni. Mi viene in mente una delle ultime interviste di Togliatti in cui parlando a dei ragazzi disse loro: «ormai io non ho più tempo ma voi sì. Siate i monaci delle vostre idee». E la parola monaco è usata nel suo significato etimologico ovvero di “essere unito interiormente” e questo tipo di unione secondo me è fondamentale. Quindi c’è un monachesimo all’interno di quello che io faccio e il mio corpo prende forma e senso in funzione della relazione con mente e spirito.

Enzo Celli in sala prove

C’è invece una relazione, per te che sei un danzatore, tra corpo e movimento?

Ho un feeling tutto mio con il movimento in generale. Per me è più facile trovare bellezza in un vecchio signore che mangia il pollo con le mani che non in un danzatore che fa quindici jeté. Quando vedo un corpo difficilmente vedo un movimento e non riesco a pensare ai danzatori come atleti alti, lunghi e appuntiti. La danza che mi piace di più è quella più improbabile, quella fatta dal danzatore che sembra il più sfigato di tutti. Quando ho spiegato a mio figlio la differenza tra danza contemporanea e balletto gli ho detto che il balletto è come quando vai a vedere The Avengers, c’è stupore, c’è shock, mentre quando vai a vedere la danza contemporanea è come vedere Up il cartone, c’è poesia perché la poesia la percepisci solo dopo aver percepito una debolezza. Non c’è poesia nella perfezione. È qualcosa che ha a che fare con l’energia più che col corpo. Oggi siamo così concentrati su una ricerca forbita del linguaggio che ci siamo dimenticati che non esiste l’upgrade del bacio e delle lacrime, il nostro corpo non può farne a meno. Stiamo perdendo la capacità di piangere e baciare sul palcoscenico e la gente vuole esattamente quello. In questo particolare momento storico poi ancora di più sarà necessario per noi artisti di danza contemporanea cercare di non perdere la capacità di baciare le persone che ci vengono a vedere e lasciarle piangere sulle spalle della nostra arte. Sarà fondamentale non dimenticarsi di quello che stiamo vivendo adesso. Vittoria Ottolenghi che è stata la persona che mi ha scoperto in Italia mi ha sempre detto: «verranno a vedere chi sei e non che cosa fai». Ci ho messo un po’ a capire questa frase ma alla fine ne ho colto il senso. La gente non va a vedere I giganti della montagna, va a vedere Lavia che fa I giganti della montagna cioè va a vedere quel tipo di umore, quella forza. Quando vai sul palco ci deve essere questo, devi “mettere le mani nel sangue di qualcuno”. Questa è l’unica opportunità che abbiamo altrimenti tutto sarebbe uguale e non sarebbe più spettacolo dal vivo. Se così fosse sarebbe finita.

Se dovessi definire New York come lo faresti?

È la nuova Gerusalemme, perché all’interno del nome Gerusalemme c’è la radice di pace e visione. E io credo che questa città sia così perché in termini di arte continua a conservare una visione unificatrice e quindi pacifica. E poi è libera in tutti i significati che questo termine può avere. Infine mi conserva un cuore acceso dandomi sempre nuova linfa. La verità è che mi sento sempre un frusinate in Central Park e da quando sono qui ho la sensazione che i miei vent’anni precedenti non siano stati altro che un grandissimo riscaldamento.

Come affronterai allora questo inizio di partita?

È un momento di grande responsabilità perché devo essere capace di accettare le cose che ho sempre voluto, che non è facile. È molto semplice autocommiserarsi. Mi sento un po’ come in quei film in cui i rapinatori vanno a fare un colpo in banca e che se tardi di tre secondi è andata. Ecco io mi sento un po’ così, come uno che sta facendo una grande rapina al mondo della cultura e della danza mondiale. Forse questa è l’immagine giusta.