PROFESSIONI DEL TEATRO > Intervista a Roberto Gori – compositore di Sergio Roca

Roberto Gori. Foto di F. Scotto

Uno spettacolo o un film, in senso tradizionale (escludendo il mondo del teatro dei burattini, ombre o cartoni animati etc.), senza un attore non potrebbe esistere. Alla stessa maniera non potrebbe esistere, o risulterebbe “monco” di gran parte della sua stessa essenza, uno spettacolo senza altri stimoli sensoriali, almeno quelli “plausibili” in una messa in scena: la vista e l’udito.
Se per la vista le informazioni acquisite rimandano ai movimenti scenici, alle coreografie, ai colori delle scenografie o alle luci, l’udito ci guida non solo nel mondo del “significato” ( quello della parola, del verbale, e quello dell’esplicativo dei suoni), ma anche, per finire, quello “emozionale” delle musiche.
Che la musica avesse una funzione primaria nella vita umana lo dichiarò già Pitagora ma, per tornare all’argomento base, il teatro e gli spettacoli in genere, una rappresentazione non può dirsi realmente ben “confezionata” senza un “accompagnamento” musicale, emotivamente descrittivo, di quanto accade sulla scena o sullo schermo.
Questo incontro di Professioni del Teatro è perciò dedicato al Maestro Roberto Gori, musicista e compositore che ha alle spalle, nonostante la giovane età, una carriera quasi trentennale che ho avuto il piacere di conoscere qualche anno fa e ho imparato ad apprezzare sia come musicista che come persona.

Ciao Roberto, nell’attuale panorama dei musicisti italiani che si dedicano alla composizione per la scena sei, sicuramente, uno fra nomi più quotati. Prima di addentrarci in argomenti specifici, ci racconti di te e di come hai cominciato ad intraprendere questa attività? 

Come per molti di noi, le reali ragioni dietro le scelte di vita, e le occasioni che mi si sono presentate, sono il frutto di una serie di combinazioni e di sliding doors che, all’occhio di un ateo, possono apparire totalmente casuali. Il mio curriculum, invece, racconta che nel 1992, minorenne ancora per poco, mi venne commissionata la musica di uno spettacolo in lingua inglese prodotto e diretto da Caterina Cangià, alla quale sarò per sempre riconoscente. Questo diede il via alla proverbiale “catena di eventi” che mi trasformarono da allievo del Conservatorio di Santa Cecilia a compositore pagato. L’elemento raro in questa storia è la serietà e la fiducia con cui un tale compito fu affidato a un immaturo diciassettenne. All’epoca frequentavo Rimsky-Korsakov, i Genesis e i Metallica, e mi interessava poco altro. Elemento fondamentale della ricetta: odiare lo sport e le occasioni di aggregazione, tranne quelle in cui potevo stare un po’ più in alto degli altri e dietro una tastiera. Che un compositore possa anche sorridere e tifare per una squadra l’ho capito molto più tardi.
Quindi il teatro è stato il mio battesimo. Dopo ci sono state esperienze diverse e anche molto importanti (il primo Amici di Maria De Filippi, il Festival di Sanremo, un Disco d’oro e varie collaborazioni con musicisti tra i più quotati d’Italia). Ebbi paura dal primo istante, e al primo vero intoppo abbandonai la nave. Tornai al teatro, luogo sacro dove gli “omicidi sono solo recitati”. Ma non fu una scelta, fu una conseguenza. La prima vera scelta la feci andando a un colloquio di lavoro con Roberto Gandini, regista col quale collaboro ormai senza sosta da ventidue anni, e tornando in Conservatorio per prendermi i diplomi di Pianoforte e di Composizione.

Creare musica per il teatro, il cinema o comunque per uno spettacolo è sicuramente una esperienza entusiasmante. La musica descrittiva delle origini tendeva a riprodurre in suono le suggestioni offerte da un impatto visivo, come un panorama, o letterario, come una poesia passando, anche, da un concetto di paesaggio esteriore a quello di sentimento interiore. Quando si compone per la scena, almeno nel tuo caso, da cosa preferisci partire per la tua ricerca creativa? Dal copione o, se possibile, da ciò che è stato già realizzato sul set o sul palcoscenico?

Se sto lavorando a un tema musicale, preferisco partire da una conversazione con il regista o dalla lettura di un libro. L’analisi del copione o della sceneggiatura ha sempre rappresentato per me un momento molto difficile, di fronte al quale mi ritengo inadeguato. Mi si richiede uno sforzo immaginativo che spesso non produce esiti o che, altrettanto spesso, ne produce di sbagliati.
Ovviamente se sto scrivendo musica di scena devo canalizzare il materiale in forme molto meno astratte. Pertanto, preferisco avere sottomano qualcosa di concreto come il girato di una scena, o addirittura il montato; poter partecipare alle prove in teatro come elemento attivo della compagnia. Sarà luogo comune, ma mi piace pensare alla musica come a un membro aggiunto del cast.

Roberto Gori.

Se nel cinema, per ovvi motivi, la musica è una componente inevitabilmente acusmatica, nel teatro, quella dal vivo, dona ad uno spettacolo un surplus di emozioni che difficilmente potrebbero manifestarsi se ci fosse solo una base preregistrata. Il fattore economico, però, tende a scoraggiare l’uso dei musicisti in scena anche nelle produzioni di teatro musicale. In quale maniera, credi, sarebbe possibile invertire questo trend? 

In tutta la mia vita non ho mai incontrato un regista che, una volta “assaggiata” la musica dal vivo, abbia saputo o voluto poi rinunciarvi. I registi sono i migliori alleati del musicista per sostenere la sua causa di fronte alla produzione ma questo a volte genera orrori; come una band di tre o quattro elementi che suonano dal vivo “sopra” una base registrata con cinquanta elementi. Un efficace palliativo, ma pur sempre una rinuncia alla reale esecuzione “live”.

Ci sono software che ci permettono di rendere “liquida” la musica preregistrata. Artifici che permettono a un esecutore competente di “plasmarla” durante la performance. Ne parlo nel libro Fare musica per il teatro uscito questa estate per Dino Audino Editore.
Ma il vero trucco consiste nel far sì che un compositore/esecutore sia presente alle prove, tutte le prove, a partire dalla prima. E che possa interagire con la scena, partecipare e sperimentare con il regista e con il cast. Il risultato sonoro potrà essere più scarno ma sicuramente più aderente al testo e al contesto. E con una ruota così ben oliata si va più lontano, più veloce e tutti sono contenti. 

Come e quanto pensi che l’elettronica nella musica abbia influito, in maniera sostanziale, nel mutare il senso della composizione e il gusto degli ascoltatori? 

Si può essere Artisti o Artigiani o entrambi.
Il mio primo Concerto per Pianoforte e Orchestra è stato scritto a mano ed eseguito con parti scritte a mano e fotocopiate. Non esistevano ancora i software notazionali. Era ricco di idee, probabilmente migliore di molte cose che scrivo oggi, sprizzava energia e gioia di vivere a ogni battuta, ma era breve come una miniatura, perché mentre lo scrivevo ero consapevole che avrei dovuto copiare a mano tutte le parti.
La tecnologia è un utensile, e avendoci risparmiato un po’ di quel prezioso “olio di gomito”, ha trasformato i più pigri di noi in “Compositori Ikea”.
La tecnologia ci fornisce molti più strumenti che in passato per arricchirci, ma contemporaneamente uccide la nostra curiosità e il senso di necessità e urgenza che dovremmo avere di fronte alla cultura e all’arte. 

Ladyvette (Valentina Ruggeri, Teresa Federico, Francesca Nerozzi) con Roberto Gori

Domanda classica per questo spazio. Ad un giovane musicista, aspirante compositore per la scena, cosa suggeriresti, oltre ai regolari studi di Composizione, per muovere i primi passi in questo mondo? 

Il teatro è il luogo del “fare” per eccellenza. Quindi consiglio di sfruttare ogni possibile banco di prova, dai laboratori teatrali scolastici ai gruppi oratoriani, ai self-tape su Youtube. Che sia per la gloria o dietro compenso, cercatevi una nicchia dove esista ancora il tempo per fare errori e riderne insieme, fare esperimenti, giocare senza l’incubo di una scadenza imminente. Poi, però, stabilite una scadenza e rispettatela. Il teatro coinvolge troppe discipline, e aspettare che tutto sia perfetto è pura utopia. 

Come già hai accenato poco sopra, recentemente è stato pubblicato, a tua firma, il volume: Fare musica per il teatro, edito da Dino Audino. Ci parli di questa esperienza e dei contenuti?

La prima “bozza” del libro è ancora sulla mia scrivania ed è formata da una pila di appunti che da sempre ammasso nell’illusione di poter dare una forma a quest’arte meravigliosa e schematizzarla. Oltre, ovviamente, a essermi d’aiuto per gli esempi da offrire ai miei studenti di Composizione.
Una sera, mia moglie Teresa Federico (attrice e drammaturga) mi presentò una editor con cui collaborava, Francesca Gagliardi, la quale mi confessò di avere a breve un incontro con Dino Audino. Essendo io un fan della casa editrice Dino Audino, i cui libri hanno cominciato a riempire i miei scaffali dai primi giorni in cui mi interessai di teatro, la pregai di parlargli del mio progetto che era di mettere ordine in quella valanga di appunti per trasformarla in un metodo di composizione per il teatro.
Audino rispose con acceso entusiasmo, nonostante fossi alla mia prima pubblicazione, poiché la letteratura in merito è pressoché inesistente (a differenza, ad esempio, della letteratura sulle colonne sonore per il cinema). Abbiamo subito convenuto di semplificare il linguaggio per rendere il testo fruibile anche dai non-musicisti. Ma questo non ha influito sul contenuto: in effetti non si tratta di un manuale di composizione né di drammaturgia, ma piuttosto di un ponte che sta in mezzo. Non pretende di dare tutte le soluzioni, ma aiuta a farsi le giuste domande e suggerisce dove andare a cercare le risposte. Grande spazio è dato proprio alla musica di scena, anche durante il recitato, Arte che, per tornare al concetto di musica dal vivo, pretende a gran voce la presenza del musicista sul palco

Come pensi che influenzerà il tuo lavoro questo lungo periodo di blocco dei teatri dovuti al Covid19? 

È molto semplice. Quando le cose non funzionano posso dare la colpa al Covid!
Scherzi a parte, l’unico modo di resistere è interpretare il Covid come il modo con cui la Natura offre a noi artisti la possibilità di cambiare la nostra etica lavorativa ed estetica. Come teatrante ho perso molti lavori. Come compositore ero già abituato ai lunghi periodi di isolamento. Inoltre, ho la fortuna di avere qualche anno di carriera ed esperienza, il che sviluppa una forza inerziale considerevole che mi terrà a galla ancora qualche mese. Ma quando penso ai colleghi più giovani o più sfortunati ritorno subito a pedalare. 

Per concludere in allegria, domanda di rito per questa rubrica: a te la parola per raccontaci un episodio capitatoti nella preparazione di uno dei tuoi spettacoli. 

2007, Teatro La Fenice. Stavamo allestendo Il principe della gioventù, opera/musical composta dal compianto Riz Ortolani del quale ero assistente musicale. Una sera viene da me un membro del cast (ero direttore musicale dello spettacolo) e mi chiede di intercedere presso il Maestro per cambiare la tonalità di un suo assolo. Inorridisco e gli spiego che, avendo il Maestro scritto a mano tutte le orchestrazioni e avendo noi già copiato le parti per gli strumenti (quell’edizione del Principe veniva eseguita con tutta l’orchestra dal vivo come una vera e propria opera lirica), non solo la cosa era impossibile, ma non ne avrei neanche parlato col Maestro, che, carattere ombroso, avrebbe potuto dare in escandescenze.
Il ragazzo mi scavalca, e ingenuamente presenta la sua richiesta a Riz in persona. Il Maestro, come previsto, si infuria, e noi passiamo i giorni successivi fra telefonate, riunioni, tavole rotonde e tribunali per convincerlo che quel ragazzo è ancora l’uomo giusto per lui.
Qualche giorno dopo Riz piomba nel mio studio pallido e stanco. Ha gli occhi arrossati e l’aria di uno che non ha dormito. Lancia sulla mia scrivania un pacco di fogli pentagrammati.
Ha passato tutta la notte a riscrivere l’orchestrazione dell’assolo. Ha rifatto a mano, in una sola notte, una cinquantina di pagine per grande orchestra. Molto più materiale di quanto io sarei riuscito a copiare nello stesso arco di tempo.
Quel giorno ho scoperto che Riz Ortolani era non solo un grande Artista, ma anche un Uomo generoso e un infaticabile Artigiano.

Roberto Gori.