Paura d’amare, da Debussy allo spazzolino da denti di Sergio Roca

Capita di non riuscire a pubblicare un articolo prima che uno spettacolo termini il suo ciclo di rappresentazioni ma capita anche che l’estensore, per le soluzioni sceniche adottate e sicuro di una riproposizione a breve del lavoro, voglia dare – comunque – testimonianza di ciò che ha visto.
Frankie and Johnny in the Clair de Lune, scritto nel 1987 da Terrence McNally, è un dramma con venature di commedia, ma a lieto fine. Semplificando in modo estremo il racconto, che si svolge tutto in un appartamento, si tratta della storia d’amore che sboccia tra un uomo e una donna, dopo una notte di sesso, nel momento in cui entrambi, spogliatisi delle proprie paure, mettono a nudo le ferite delle rispettive anime.
Nel 1991 la pièce divenne pellicola col titolo Paura d’amare con la regia di Garry Marshall con un appassionato Al Pacino e una fascinosa Michelle Pfeiffer. Per essere fruibile sul grande schermo, però, si rese necessario arricchire il racconto e sostituire l’angusta ambientazione originale con una strutturazione spaziale più ampia. Per sottolineare i momenti topici (soprattutto basati sugli stati emotivi) e per portare in risalto il “flusso di coscienza” si sfruttò, in fase di ripresa, il tipico linguaggio del campo e del controcampo con risultati decisamente eccellenti.
Andato recentemente in scena, al Teatro Brancaccino di Roma, Paura d’amare, nella versione adattata e tradotta da Eleonora Di Fortunato e con la regia di Giulio Manfredonia, dovendosi confrontare più con l’ingombrante trasposizione cinematografica di Marshall che col testo di McNally, ha suggerito ai curatori italiani non solo la riscrittura della sceneggiatura ma anche la ricerca di soluzioni tali da permettere la coesistenza dei due differenti copioni. È stato necessario, quindi, trovare una serie di escamotage per non perdere la focalizzata “concentrazione” offerta dall’uso di uno spazio unico ma anche offrire una maggiore “ariosità” al racconto facendolo vivere nei luoghi creati per la trasposizione sul grande schermo.


Uscito da poco dal carcere Johnny, bell’uomo sulla quarantina (Massimiliano Vado), ottiene un impiego nel ristorante dove lavora Frankie (Maria Rosaria Russo), donna piacente ma di una bellezza non convenzionale, della quale si invaghisce tanto da porre in essere qualsiasi stratagemma per conquistarla benché venga respinto fermamente.
Quando Frankie cede alle lusinghe dell’uomo (che, a differenza di lei, è già pronto a costruire una relazione più seria), anziché lasciarsi andare all’appagante situazione affettiva, si irrigidisce subendo i condizionamenti negativi di un doloroso passato.
Solo la costante e ferma presenza di Johnny, con la complicità di un disk jockey radiofonico e del brano di Debussy: Clair de lune (assieme ad uno spazzolino da denti che può simboleggiare la rimozione delle negatività del passato), riuscirà a sciogliere quelle “paure dell’anima” che impediscono alla giovane di poterlo ricambiare.
Massimiliano Vado, ricorrendo ad una intelligente impostazione vocale dai toni bassi, propone il ruolo dell’uomo deciso ma romantico. In scena la mimica, “iconicamente” e ironicamente credibile, riporta il carattere di chi è fermo nel proposito di conquistare la donna da cui è attratto ma anche sufficientemente maturo da essere in grado di riconoscerle gli spazi e i tempi necessari per farsi accettare.
Maria Rosaria Russo, dal suo canto, dotata di una bellezza e di una sensualità “rassicurante” (tanto da ricordare in alcune pose il premio Oscar Helen Hunt nella pellicola Qualcosa è cambiato del 1997), ha avuto l’onere e l’onore di dover costruire un personaggio più complicato di quello cinematografico obbligata a gestire, senza l’aiuto delle tecniche di ripresa, un cospicuo numero di variazioni emotive da esprimere più col linguaggio del corpo che con il testo.

 

 

 

 

 

 

Oltre ai due protagonisti da segnalare un cast di ottimo livello. Eccellente la prestazione di Massimo Cagnina che, da caratterista navigato, dovendo dar vita a due figure pressoché contemporaneamente, è risultato impegnato in rapidi cambi di abito, di carattere e di sonorità. In scena: Monica Dugo, Livia Cascarano, Federico Campaiola con la partecipazione di Antonio Gerardi contribuiscono a rendere maggiormente godibile la narrazione con un surplus di vivacità che si ottiene solamente quando si propone, con intelligenza, qualche intreccio secondario.
In teatro il ritmo è cadenzato, i dialoghi, le situazioni, scorrono con calma ma non con lentezza, lasciando agli astanti il tempo di assorbire i vari “quadri” che si svolgono in aree sceniche multifunzionali e che vengono rimodulate, a vista e più volte, dagli stessi attori.
Nella trasposizione proposta, il racconto si svolge in Italia, in una periferia romana, in un periodo non definito ma focalizzabile tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo. Sulla scelta di questa ambientazione spazio-temporale, che pone la vicenda fuori dal confine americano e in un momento storico incerto, c’è da fare, però, una breve riflessione. Fermo restando che lo straniamento indotto dalla (ri)scrittura lascia aperti molti spiragli interpretativi che rendono “epica” la vicenda (come se questa fosse stata incentrata più sullo “scavare” nell’intimità dei soggetti – schiavi delle proprie paure – che di raccontare le loro storie tout court) rendendo più empatiche le figure in scena, è pur vero che questo può creare un imprevisto “disorientamento” nella lettura dei comportamenti dei personaggi stessi in quanto “costruiti” su una psicologia e una mentalità più affine a quella del mondo anglosassone che a quella nostrana. A mio giudizio, paradossalmente, questo effetto – sicuramente particolare – non sminuisce l’efficacia dell’impianto e della costruzione scenico-narrativa, ma mostra come il portare l’“improbabile” nei confini del “plausibile” sia la sfida più appagante per chi ha deciso di dedicarsi, con passione e professionalità, al mondo del teatro: non a caso lo spettacolo ha avuto il tutto esaurito per più sere consecutive.

Paura d’amare

di Terrence McNally
adattamento Eleonora Di Fortunato
regia Giulio Manfredonia
con Maria Rosaria Russo e Massimiliano Vado
e con Massimo Cagnina, Monica Dugo, Livia Cascarano, Federico Campaiola e la partecipazione di Antonio
Gerardi e di Chiara Cappelli, Margherita Maggio, Giulia Rea, Francesco Renna
scene Elisa Bentivegna
costumi Eleonora Pischedda
assistente alla regia Salvo Di Falco
aiuto regia Goffredo Maria Bruno.

Teatro Brancaccino, Roma, dal 24 ottobre al 3 novembre 2019.