Orizzonti Verticali: tornare a perdersi a San Gimignano di Carlo Lei

Foto di Sofia Giuntini

Perdersi a San Gimignano, una città «lunga 900 metri e larga grosso modo 400» è pressoché impossibile, scrive Marco Lisi nella sua anti-guida turistica (Tarka, 2021). È vero, non è difficile tracciare un reticolato in cui inserire la topografia della città: la cinta di mura, aperta da cinque porte maggiori (San Giovanni, Quercecchio, San Matteo, San Jacopo, delle Fonti), attraversata per il senso della lunghezza dal tratto intramurario della via Francigena, vegliata a ponente dalla Rocca di Montestaffoli. Naturalmente poi ci sono le note torri, must-see, prima cosa da fare a San Gimignano.
E c’è il festival Orizzonti Verticali, giunto alla decima edizione, che si presenta altrettanto leggibile sia spazialmente che temporalmente, insinuato nell’ultimo scampolo d’agosto, ancora sbuffante dei pullman che scaricano turisti a Porta San Giovanni. Sono tre giorni, dal 25 al 27, distribuiti in spazi che dalla cima del paese, la Rocca, vanno alle profondità di un ex rifugio antiaereo, oggi ribattezzato Sottomondo, ritrovo per giocatori da tavolo e nerd; dal Giardino del Monastero di San Girolamo al recentemente restaurato Torrione Mangiapecore, subito sotto la Rocca.
Dal punto di vista dell’impaginazione, le proposte artistiche rispecchiano questa linearità, un salire verso i picchi della sperimentazione delle forme e un ridiscenderne. L’apertura è infatti dedicata alla sola voce, con il racconto di Michele Santeramo Storia d’amore e di calcio in versione di pura lettura, eseguita con eleganza da Fabio Facchini e tutta nuda, spogliata del contorno spettacolare di luci, musiche, video dell’edizione messa in scena altrove dallo scrittore stesso. Ugualmente teatro di narrazione per la chiusura, con gli Opposti flussi di Marco Baliani.

Foto di Enrico Coviello

Nel mezzo di questi punti fermi non manca il teatro di performance, con Lo spazzasuoni di Giardino Chiuso, il progetto ancora in progress di Instabili Vaganti, Dante Beyond Borders, la danza di ricerca ma ben inserita nella tradizione della compagnia Atacama e l’incursione nella sperimentazione dai tratti avanguardistici di Ivona (Pablo Girolami). Il programma sembra non voler lasciare spazi bianchi, tenta una proposta quasi esaustiva, nei suoi limiti dimensionali.

I.
Siamo sulla Rocca di Montestaffoli, è buio, sali su uno dei torrioni, non illuminato, il senso di vertigine che ti prende è improvviso: il pavimento irregolare, su cui le intemperie hanno scavato a loro piacimento, i parapetti ti arrivano appena alla vita. Rompe la notte il video di Instabili Vaganti che puoi vedere di sguincio, proiettato sulle mura, increspato dalle pietre, sette capitoli sul Dante dell’Inferno e del Purgatorio. Sciama sotto, molto sotto, la città, con le sue cene vista duomo, i gelati campioni del mondo. Ma quassù tutto è calmo, il vento fresco fa socchiudere gli occhi.
Piccolo inconveniente: il programmato spettacolo Dante Beyond Borders è sostituito “per problemi tecnici”. Con sicura grazia si impossessa del palco Anuradha Venkataraman, che ci colpisce a tradimento con una impegnativa performance di Bharatanatyam. Il titolo tradotto è Dancing for gods, ed è la narrazione per corpo totale (dagli occhi alle caviglie, fasciate di sonagli, dalla lunghissima treccia infilata nella cintura alle piante dei piedi tinte di rosso), dell’innamoramento di una fanciulla per il dio Shiva, sulla sua incapacità di parlargli per confessargli tale passione. È come precipitare nuovamente dalla luce al buio e poi ancora alla luce, l’attesa di un Dante italo-indiano è cancellata da una spaesante immersione in una tradizione che mostra l’inaspettato dinamismo d’attacco della sua storia millenaria.
Neanche ventiquattr’ore e l’incrinatura si allarga. Un temporale breve e vorticoso si abbatte sulle strade – ed è bello goderselo dal chiostro di Sant’Agostino, mentre frusta gli alberi e li tranquillizza subito dopo. Ma è impossibile fare, com’era previsto, La Danza della Realtà di Patrizia Cavola e Ivan Truol (Atacama) sul prato della Rocca, intriso com’è dall’acqua caduta: ci si sposta sul palco, dove le prove proseguono fino oltre l’orario d’inizio, col pubblico seduto. Ma nel mezzo del bel lavoro, un imprevisto tecnico fa zittire la fonica. Per un breve tratto, venti, trenta secondi, guardandosi negli occhi, i danzatori proseguono all’asciutto, esposti, i corpi colpiscono il linoleum del palco con tonfi attutiti, uno strisciare di piedi nudi, un unico respiro, finché la musica torna, e basta un nulla per ritrovarsi a un appuntamento rassicurante.

Foto di Enrico Coviello

Quel batticuore della sospensione apre le porte alla coscienza della malattia, la strada si sfoca di fronte a T.R.I.P.O.F.O.B.I.A., il nuovo disturbante lavoro di Pablo Girolami in scena con Guilherme Leal, dentro la sala grande della Galleria Continua di arte contemporanea, un gioiello ricavato, senza stravolgerne la struttura degli ambienti, in un ex cinema-teatro degli anni Cinquanta, di cui persino il tavolato del pavimento è conservato e ricomposto come un puzzle quando le mostre ne prevedano una parziale rimozione. Se si è tripofobici, terrorizzati cioè dalla ripetizione di un pattern grafico, come i buchi di un alveare, all’interno dell’installazione FRAME II (2021) di Anthony Gormley, un’enorme architettura concatenata di parallelepipedi di algido alluminio, si deve stare senz’altro male. Molto male si sta anche dentro il lavoro del coreografo italo-spagnolo, che agli spasmi dei corpi costretti nelle cornici dell’installazione fugge, e trova un qualche medicamento nell’applicazione di coppette per salassi in plastica su tutta la superficie dei corpi, mentre biglie rotolano canore dai gradini della ribalta. Ricoperti ora di queste numerose escrescenze, come disordinate mammelle, i due performer scendono quei gradini, si ritrovano nel riquadro stretto di un sagomatore. Nei loro contatti, amplessi/contenzioni tra due cristi, emaciati, come quelli di certe grandi croci dipinte gotiche, Girolami e Leal sfondano il confine della non-danza, facendo dei propri corpi geometrie valghe o lordotiche. Intanto le coppette cadono con un insopportabile acciottolio plastico, lasciando sui corpi lividi circolari, in pattern stavolta irregolari che trasferiscono con gli strumenti della body art la paranoia sulla carne, in bolli plumbei come marchi, o amputazioni. Eppure, in quella che sembrava presentarsi come una performance site-specific, lo scomodo spazio all’interno dell’installazione è stato presto abbandonato, pur tra convulsioni, e il gigantesco oggetto non riesce a incombere sul discorso che segue, anzi ne disturba quasi la visione. 

Foto di Sofia Giuntini

II.
Perché queste infiltrazioni dell’imprevisto, questi sfasamenti di attese e realtà, questi scivolamenti di luoghi, queste piccole vertigini nel buio su un torrione o nel silenzio di un breve black-out sono così importanti? Cosa ci dicono, cosa aggiungono o segnalano alla lettura di una compilazione di un programma di rassegna?
Il privilegio e obbligo del critico è quello di dover capire, pungere e scarnificare ciò che vede, in tutta la sua profondità e durata, sfidando la sconfitta, il rischio di andarsene a mani vuote. Così nella programmazione di una rassegna o di un festival, il suo privilegio e obbligo è girare per le strade, avere occhi per i palchi e per le piazze, per chi gli siede accanto e per chi passa via; considerare i lavori come membra di un unico organismo che respira non nel vuoto, ma tra negozi, mezzi che passano, ragazzi che escono la sera con l’odore dello shampoo tra i capelli, accalcando o sfiorando appena le sale deputate.
Solo quando si spacca, del frutto possiamo vedere la polpa; le rotture, le lacerazioni sono altrettante fessure. Così quel rapido abbandonare l’installazione di Gormley, mostra la questione degli spazi, la necessità della fuga, il nucleo tematico della specificità dei luoghi, cercata ma non sempre raggiunta. Ancora: nel silenzio piombato in mezzo a La Danza della Realtà, nel continuare a tenersi per gli occhi dei due danzatori (sono Nicholas Baffoni e Camilla Perugini) noi vediamo il vero corpo di quel lavoro. Benché appaia ingeneroso trascurare il compiuto per dar spazio all’imperfetto, è attraverso questi momenti di non-corrispondenza che la lettura può ispessirsi. Ecco dunque che il lavoro di Atacama, al di là di qualche asperità di passaggi, al di là della ricerca sul linguaggio, in cui al rifiuto dell’accademismo, all’ironia, segue, nei momenti di lirismo più acceso, il ricorso a forme più tradizionali, come se il gergo della danza continuasse a essere l’unica metrica capace di dare fondo all’espressione della bellezza (sopra un canto di violoncello), mostra di questa danza la qualità più strenua e preziosa: l’umanità. Altrettanto, nei saliscendi tra Sottomondo e Rocca, tra giardini (privati) e raffinati spazi espositivi, nonostante l’apertura che Orizzonti Verticali tenta proprio di quegli spazi solitamente laterali rispetto al corso principale, il festival scorre su una quota che ne sfiora appena, non ne incrocia mai il flusso.
Vi sono festival (sempre meno) che ruotano attorno a un proprio asse concettuale, estetico, e potrebbero essere costruiti ovunque; altri che si fanno nella pasta degli spazi che occupano. Così erano le prime edizioni di Orizzonti Verticali – ci raccontano, lo leggiamo, lo vediamo nel video commemorativo #DIECIANNIDIOV: appuntamenti quotidiani nella piazza del duomo, esplorazioni di quelle erte e discese che attraevano particelle, come elettroni fuggiti dalla corrente del turismo di massa. Poi è venuto il Covid, il bisogno di protezione, la parentesi degli Horti Conclusi, rintanata in luoghi contenuti, per un pubblico contenuto.
L’incoraggiamento, l’auspicio da presentare agli organizzatori e programmatori sangimignanesi è di tornare, con il patrimonio della capacità di impaginare un discorso coerente dimostrata in questa edizione, a sfidare quel flusso poderoso e mosso da un eros troppo più epidermico, quello del consumo, a insegnargli l’arte della deviazione, appunto dello smarrimento, come insegna Marco Lisi, oltre i percorsi segnati da TripAdvisor e le logore autostrade dell’alienazione turistica.

Foto di Enrico Coviello

Orizzonti Verticali, San Gimignano (SI), dal 25 al 27 agosto 2022.