Non c’è arte senza dignità: l’Africa come ponte per l’Europa di Katia Ippaso

Foto di Filippo Manzini

Firenze. «I poeti dichiarano che andare e venire e deviare dalle rive del mondo è un diritto poetico: una dignità che si eleva al di sopra di tutti i diritti conosciuti per proteggere la più preziosa delle nostre umanità». Sono versi contenuti nella Dichiarazione dei poeti di Patrick Chamoiseau, al numero 5 di un manifesto che detta 16 regole fondamentali del vivere, «onorando la terra intera con i propri slanci e sogni». È un appello radicale e doloroso scritto nel 2017 dal poeta della Martinica che ci ricorda l’impeto amoroso e rivoluzionario di Majakovskij: «Che posso farci/ se io/ con tutta, / l’intera portata del cuore, / in questa vita, /, in questo/ mondo/ credetti/ e credo». Siamo nel regno delle anime sororali, in quella zona dell’esistere che non può fare a meno di vedere l’altro, di combattere al suo fianco. Tutto questo è già potente sulla carta. Ma se una sera di maggio questi versi diventano parte e strumento di una partitura corale composta sui corpi diseguali e ugualmente magnetici di attori francesi, italiani, africani, senza che ci sia bisogno di altro (scenografie, costumi) se non dei loro sguardi complici, di uno “stare” in ascolto, in posizione disarmata e vigile, ecco, allora tutto può cambiare da un momento all’altro. Liminateatri ha già documentato le precedenti stazioni del progetto volto alla “creazione dell’attrice e dell’attore europei”, che porta la firma congiunta di Marco Giorgetti, direttore del Teatro della Pergola di Firenze, e di Emmanuel Demarcy-Mota, direttore a Parigi del Théâtre de la Ville. Stavolta, ai due tradizionali partner si è aggiunto Vincent Mambachaka, artista della Repubblica Centrafricana esperto di tecniche rituali, consulente per L’Africa non solo di Demarcy-Mota ma anche del presidente francese Emmanuel Macron.

Foto di Filippo Manzini

Dopo il viaggio in Africa di alcuni registi e pedagoghi francesi e italiani, a Firenze è arrivata una piccola delegazione composta da artisti che si sono spostati dal Mali, dal Camerun, dalla Repubblica Centrafricana e dal Rwanda. A margine di una tavola rotonda internazionale che ha  coinvolto anche Demarcy-Mota e i suoi attori per la Francia, Jeton Neziraj per il Kosovo, Pier Paolo Pacini e Marco Giorgetti (Teatro della Pergola), Giacomo Pedini (Mittelfest), Brunella Fusco (Campania Teatro Festival), Paolo Valerio (Stabile del Friuli), Mario Biagini (Accademia dell’Incompiuto), Valeria Marcolin e Giuseppina Di Gesaro per l’Italia, abbiamo assistito ad una performance inedita, chiamata Tenir Paroles che, oltre ai versi di Chamoiseau già citati, ha fatto risuonare le poesie di Pessoa, Baudelaire, Erri De Luca, Andrée Chedid,  Édouard Glissant, Abdellatif Laabi.

Foto di Filippo Manzini

La performance in sé, coinvolgendo diciotto artisti impegnati a recitare in otto lingue diverse (italiano, francese, portoghese, spagnolo, inglese, yiddish, bafia e fulfulde – idiomi parlati in Camerun), ha portato plasticamente in primo piano, con ferma dolcezza, una verità inoppugnabile: è molto più naturale lavorare per la pace e la bellezza piuttosto che per la guerra e la distruzione. Tutto questo non ha avuto bisogno di nulla se non del corpo e della voce di questo corpo plurale parzialmente sperimentato già con le Consultazioni poetiche (create durante la pandemia) e composto anche da storici attori del Théâtre de la Ville che si sono messi a disposizione dell’esperimento, confondendosi con gli attori-allievi (molti dei quali provenienti dal Centro all’Avviamento all’Espressione Orazio Costa). Mentre Todo cambia di Mercedes Sosa, cantata dal vivo, ha fatto da collante tra le varie parti del discorso poetico.
Tutto cambia. Un’utopia? Certamente. Ma non è proprio di grandi utopie che ha vissuto il teatro? Ascoltare parole di rivolta e compassione nei luoghi storici di Firenze (oggi ex cinema Goldoni e Cantieri Goldonetta) in cui maestri della scena come Jacques Copeau, Gordon Craig e Tadeusz Kantor hanno messo radici, puntellando con le loro visioni la mappa di un’Europa artistica senza confini, disegna una nuova mappatura della creazione teatrale, vincolata alle questioni dell’esistere e alle condizioni di vita dei più fragili.
«Il progetto è incentrato sulla volontà di costruire un nuovo modello di teatro aperto alla società e impegnato nelle sfide del presente» spiega Marco Giorgetti. «Oggi guardiamo all’Africa, alla ricerca di nuove forme di cooperazione, per superare gli stereotipi del passato».
«Voglio immaginare che tutto questo sia soltanto un punto di partenza per un grande progetto che può durare anche 10, 20 anni» ha dichiarato Vincent Mambachaka, ribattezzando tutto quello che è accaduto dal 6 all’8 maggio “l’atto di Firenze”: «Sono stati posti i fondamenti di un lavoro determinante per l’Europa unita che non può non passare anche per l’Africa. Non si può procedere se non partiamo dalla memoria. E dobbiamo essere tutti consapevoli del fatto che l’arte, il teatro, possono intervenire per negoziare la pace».
«Una pace che ci chiede», conclude Demarcy-Mota, «un processo di autoriforma: se non siamo disposti a farlo, non riusciremo a proseguire questo cammino. Dobbiamo insegnare ai più giovani a rinunciare a parti di sé. Perché, come dice Pessoa, ci dirigiamo vero l’indicibile, verso un orizzonte che non ci mette al riparo da niente».

Foto di Filippo Manzini