Bastano pochi minuti di spettacolo per far sentire al pubblico l’ineludibile esigenza di dare fiducia alle emozioni. Di lasciarsi andare – con lentezza, calore e struggimento – al flusso di parole e note, suoni ed effetti acustici, pause e respiri, voci e immagini sussurrate che arrivano dal palcoscenico. D’altronde sul palcoscenico – quello del teatro Argentina di Roma – ci sono tre giganti, tre grandi nomi della creatività internazionale, Mariangela Gualtieri, Paolo Fresu e Uri Caine, artefici di una “improvvisazione a tre voci” che traduce la parola poetica e la musica jazz in un corpo unico di vibrazioni e sensazioni ancestrali. Bello Mondo si intitola questa performance sonora, in programma nell’ambito del Romaeuropa Festival 2024, capace di arrivare a tutti, di tenere gli animi sospesi, inchiodati ad un nutrimento “extra-ordinario” e quasi miracoloso che mescola sapientemente pianoforte, tromba e poesia per raccontare ciò che ancora oggi – e malgrado l’oggi – ci accomuna, ci fa sentire vivi, compassionevoli, desiderosi e bisognosi di amore.
Bello Mondo è anche – e non a caso – il titolo dell’ultima raccolta antologica pubblicata dalla Gualtieri, tra le maggiori poetesse italiane contemporanee oltre che drammaturga del Teatro Valdoca, e di un suo celebre poemetto edito la prima volta nel 2015 all’interno della silloge Le giovani parole (entrambi i volumi si trovano nel catalogo Einaudi). Poemetto che tesse in chiave moderna e laica una preghiera di ringraziamento al Creato, un atto umanissimo di gratitudine per ciò che la Vita e la Terra ci donano, dove si fanno espliciti i richiami a Borges, Whitman, Francesco d’Assisi, Hopkins, Herbert «(…) perché già scrissero questi versi/ per il fatto che questa poesia è inesauribile/ e non arriverà mai all’ultimo verso / e cambia secondo gli uomini (…)», e dove la voce poetica perlustra con pietosa accoglienza ogni piccolo angolo del reale e dei sentimenti, conferendo loro un significato immenso. Poiché immensa è la resilienza dell’Uomo di fronte al dolore, alla morte, alla guerra, alla distruzione. Così come immensa è la sua possibilità di stupirsi, di essere felice e grato: «(…) ringraziare desidero/ perché sono tornate le lucciole / e per noi / per quando siamo ardenti e leggeri/ per quando siamo allegri e grati (…)».
Proprio questa poemetto rappresenta qui il cuore pulsante della serata. Ma arriva quasi in chiusura. Dopo una serie di duetti jazzistici di straordinaria potenza espressiva. Dopo le virtuosistiche acrobazie pianistiche di Caine e le altrettanto geniali variazioni trombettistiche di Fresu (complici i timbri chiari e decisi del flicorno e l’uso di un distorsore del suono che trasforma le note in lamenti e pianti e grida): due mostri sacri della musica jazz chiamati a creare insieme – non senza qualche assolo avvolgente – un tappeto sonoro che ora accompagna il dire, ora domina assoluto mentre il linguaggio tace. Nella loro musica c’è la stessa energia che vibra nella poesia. Lo stesso afflato universale. La stessa esortazione vitale. Lo stesso richiamo all’umano che è in noi.
E se i primi versi recitati dalla poetessa romagnola partono rudi e drammatici evocando corpicini straziati e una Natura inaridita dall’odio, ecco che poi si fa strada con sempre maggiore insistenza una lingua della pietà, dell’amore (destino ultimo di ogni donna e di ogni uomo), delle cose semplici, della bellezza caparbia della vita, dell’infanzia. Una lingua che incanta e dà speranza. Una lingua ariosa, nella cui levità risuona, ad un certo punto, la dolcezza struggente di una delle composizioni più celebri della Gualtieri: «Sii dolce con me. Sii gentile. È breve il tempo che resta. Poi/ Saremo scie luminosissime / E quanta nostalgia avremo / dell’umano. Come ora ne / abbiamo dell’infinità. / Ma non avremo le mani. Non potremo/ fare carezze con le mani. / E nemmeno guance da sfiorare/ leggere. / (…)» (dalla raccolta Bestia di gioia, Einaudi 2010).
Nella sala dell’Argentina abita una crescente compostezza come fossimo tutti assorti, avvolti in un silenzio senza tempo. Numerosi gli applausi a scena aperta. Il trio si avvicina più volte al proscenio. Per qualche minuto lo spettacolo si interrompe. Poi le tre voci tornano nelle loro postazioni e la Gualtieri, sobria e raffinata nei movimenti, generosa nello sguardo e nelle tonalità vocali, “dice” il suo Bello mondo. L’atmosfera si riempie allora di una sacralità antica: «In quest’ora della sera /da questo punto del mondo/ ringraziare desidero il divino/ labirinto delle cause e degli effetti /per la diversità delle creature / che compongono questo universo singolare /ringraziare desidero /per l’amore, che ti fa vedere gli altri / come li vede la divinità, / per il pane e per il sale / per il mistero della rosa / che prodiga colore e non lo vede / per l’arte dell’amicizia (…)».
Il ritmo di questo dire/sussurrare è pacato, distillato, discreto e la sua forza è una forza semplice, che scaturisce dalla naturalezza di una partitura orale imparentata più con la musica e con il teatro che con la letteratura. Da tempo, infatti, la Gualtieri ci regala “riti sonori” e concerti in cui i versi sposano la voce, le note, l’ascolto collettivo, il rito. Tanto più che la poesia che “si dice”, al centro pure dell’interessante saggio L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia pubblicato nel 2022 (sempre per Einaudi), ha rappresentato negli anni il prezioso materiale drammaturgico di eventi teatrali che hanno visto la poetessa sia recitare i suoi versi da sola in scena (era il 2016 quando al festival Kilowatt presentò proprio Bello Mondo) sia prestare la sua lingua ad altri artisti e musicisti di pregio. Basti pensare ad un lavoro come La delicatezza del poco e del niente di Roberto Latini (2018), ai felici esiti delle collaborazioni con Silvia Colasanti (Requiem), Stefano Battaglia (Porpora), Mario Brunello (Acqua Rotta), all’inedito connubio artistico con un cantautore pop molto amato dal grande pubblico quale Jovanotti.
Il sodalizio con Fresu e Caine risale a tempi recenti: due anni fa il trio ha dato vita al lavoro Selvatico Sacro, pensato per il Salone del Libro di Torino; l’anno successivo erano di nuovo insieme sul palco del Teatro Bonci di Cesena ad inaugurare la rassegna Ciò che ci rende umani proprio con l’improvvisazione a tre voci ripresa nei giorni scorsi per il REF 2024 e sugellata da un rinnovato e meritatissimo successo, cui contribuiscono senza dubbio anche le luci e l’impianto scenico firmato dal regista storico della Valdoca, Cesare Ronconi. Colori caldi, che virano volentieri sui toni del blu, avvolgono un pianoforte, una pedana, un microfono ad asta, una sedia per la presenza femminile e una, di lato, per Fresu. Alcuni passaggi della pièce sembrano emergere dalla penombra, mai troppo scura però e l’apparente staticità dei corpi e degli oggetti non risulta affatto tale. Anzi, al contrario, essa restituisce l’immagine di un movimento continuo, di un andare insieme, di una vibrazione condivisa, di una staffetta ben orchestrata. In definitiva, di un rito danzante (parole e musica, musica e parole) cui – appunto – affidarsi. Abbandonarsi. Per uscirne più vivi.
Bello Mondo. Improvvisazione a tre voci
pianoforte Uri Caine
tromba, flicorno ed effetti Paolo Fresu
versi e voce recitante Mariangela Gualtieri
allestimento scenico e luci Cesare Ronconi
direzione tecnica Stefano Cortesi
ingegnere del suono Fabrizio Dall’Oca
tecnico audio Andrea Zanella
light designer e direzione palco Luca Devito
produzione Emilia-Romagna Teatro ERT/ Teatro Nazionale
in collaborazione con Teatro Valdoca.
Romaeuropa Festival, Teatro Argentina, Roma, 24 settembre 2024.