“L’Oreste” di Niccolini: ancora sulla follia di Carlo Lei

Foto di Tommaso Le Pera

Alcune locandine hanno tutto ciò che serve per essere complete. Poi, alla prova dei fatti, in sala, è come se alla bella disposizione su carta dei dati indispensabili alla riuscita di uno spettacolo, non corrispondessero, dimenticate o sfumate inavvertitamente in qualche momento della lavorazione, le qualità per eccellenza del teatro vivo: l’efficacia e l’urgenza.
L’Oreste, lavoro in scena a Roma nel Teatro Due, spazio prezioso, resistente, nascosto dalle parti di Piazza di Spagna, sulla carta ha appunto tutto: un testo originale di un autore prolifico e affermato, Francesco Niccolini, un’organizzazione produttiva efficiente, quella della faentina Accademia Perduta, un attore esperto come Claudio Casadio, mezzi tecnici e artistici garantiti dalla regia di Giuseppe Marini, dalle illustrazioni di Andrea Bruno e dalle animazioni di Imaginarium Creative Studio, e persino un’idea drammaturgica che punta a essere innovativa, quella che, sotto la voce di “Graphic Novel Theatre”, tenta di unire le due espressioni artistiche in una formula specifica, con il notevole patrocinio di Lucca Comics and Games e del suo direttore. La bidimensionalità fumettistica, proiettata sullo sfondo del teatro, dialoga infatti con l’attore in carne e ossa, producendo qualcosa che, con altri nomi e con sviluppi diversi, calca e ha calcato frequentemente le scene dei teatri occidentali nell’ultimo secolo. Ma per L’Oreste non manca nemmeno l’appiglio a un testo cardine del teatro occidentale, l’Orestea, fonte “strutturale” dichiarata dall’autore – anche se la progressiva scoperta dei delitti del protagonista sembra alludere anche alla catena di funeste agnizioni edipiche.
Il testo, accompagnato da una pubblicazione disponibile in sala, è un lavoro per il quale Niccolini racconta, nella dettagliata prefazione, di aver atteso l’innesco per quindici anni; la genesi è stata di conseguenza lunga, passata attraverso la visita a diversi ex manicomi del nostro paese, e, ultimamente, anche la dolorosa stagione Covid – chi ne è stato esente?
Ma scendiamo pure nel vivo del testo: il centro gravitazionale, che ne fa un dramma a personaggio, è un uomo veramente esistito, tale Fernando Nannetti, da sé stesso detto Oreste, internato nei manicomi di Roma e Volterra fin da giovane età, autore di una enorme incisione sul muro esterno dell’istituto toscano, graffiata con il solo ausilio di una fibbia da gilet. A questa figura mitica e affascinante, Niccolini attribuisce un passato tragico, violento, la morte spaventosa della sorella, divorata dai porci della fattoria di famiglia, e poi del padre per mano di una madre fedifraga (ecco Eschilo). Colloca, inoltre, il punto di arrivo della vicenda, il presente del testo, nel momento dell’apertura dei manicomi a seguito della legge Basaglia, spostando geograficamente la vicenda in area imolese.

Foto di Tommaso Le Pera

Come si vede sono molte le tematiche in gioco, gran parte delle quali figlie del macro-tema della malattia mentale, ora candida follia (Oreste sogna di partire per la luna come cosmonauta, facendo convergere su di sé la memoria dei lunatici di Cavazzoni e certo vintage post-caduta del Muro), ora violenza nascosta e minacciosa. Vi è poi il ricorso, a dirla tutta più rispondente a un automatismo esornativo o tutt’al più a una generica richiesta di regionalizzazione, che a una vera necessità di sviluppo drammaturgico, a un immaginario pop di memorie balneari adriatiche (bomboloni e costumi da bagno, l’unica uscita di Oreste al mare). Non manca l’arte come rivelazione della vera anima, il tema dell’incesto (tra fratelli, forse solo immaginato, emerso nel finale ma già reso scenicamente con un amplesso mimato dal protagonista, che indossa un velo nuziale) e il tradimento (tra moglie e marito), la brutalità e l’arretratezza campagnola con le sue conseguenze (la sorella sbranata, novella Clitemnestra, e la catena di ammazzamenti), e la rassicurante ma in fondo impotente mano dello psichiatra, mediatore inefficace tra la follia e il mondo fuori, al quale il recluso vorrebbe ma non è più in grado di far ritorno, fino alla non imprevedibile fuga definitiva dalla vita.
Tutte queste tematiche, ripescate con sapienza archivistica da un repertorio ricco e frequentato, tendono a convergere in un’idea precisa: la malattia mentale è costruzione di un mondo alternativo rispetto a quello reale, che ha precipitato il bambino nell’abisso della dissociazione, l’uscita dal quale è impossibile se non con fatali conseguenze. A tale emersione della realtà (o “alla” realtà), agevolata dal paziente lavoro dello psichiatra e di altre figure secondarie, corrisponde una presa di coscienza del protagonista, che lo spinge, finalmente lucido e conscio dell’impossibilità di tornare al mondo “normale”, ad ammazzarsi con le pillole sottratte di sera in sera alla razione dei sonniferi – meccanismo narrativo che si autodenuncia ben prima della drammatica catastrofe finale.
La mancanza di urgenza con cui si aprivano queste righe non è questione esclusivamente di un testo che si snoda pago di una sua logica autoriferita, quasi a voler colmare un centone di punti affettivi cari al suo autore e comunque riconoscibili come “profondi” al primo fiuto all’esterno, un testo che procede per rimandi e riuso di formule costruttive e tematiche già ampiamente sperimentate. Il problema di questo Oreste è anche nel suo stare in scena. Il corpo enorme e magnifico del “matto” Claudio Casadio, così come le sue doti vocali, non trova spazio per emergere – e non si tratta di spazio fisico, non solo, almeno, ma di spazio interpretativo. Egli non trova insomma nella regia il pungolo sufficiente a far emergere colori, sfumature, blocchi e sblocchi di consapevolezza nel corso della storia, una storia che proprio nell’evento, nel nucleo dell’emersione ha il suo orizzonte e il suo meccanismo. Così i ritmi invariati strangolano una dinamica della scena, e non aiuta la mancanza di una spalla reale, costretto com’è Casadio a dialogare solo con le figure proiettate sul fondo. Tale interazione con i “fumetti”, poi, è quasi sempre farraginosa e difficile da collocare: l’agogica delle battute dei personaggi “virtuali” e la qualità della loro presenza vocale, del loro meccanico ondeggiare sullo sfondo, non si lasciano decodificare né, ovviamente, come tentativo di realismo, né come una eventuale scelta di flemmatico, austero distacco da figure oltremondane, o interiori, o solipsistiche.
Il risultato è, a esser brutali, che le battute nervose di Oreste lasciano sempre dietro di sé quel mezzo secondo di troppo e quello iato non riempito, come l’impressione di una macchina che tardi a rispondere alla sollecitazione del manovratore, al di là di ogni intenzione. La scelta dei tempi dell’animazione, poi, costringe i doppiatori a trascinare le battute in spazi ingiustificabili, a tenderle fra mura distantissime, tra le quali il senso si perde, e il puro significante rimane sospeso come un macigno sul corpo del povero Casadio, sul suo ritmo interno, costantemente sabotato.
Come sempre, l’abilità tecnica, l’uso di formule e tematiche sperimentate ha questa doppia faccia: si mostra efficace a un primo sguardo e fila, arriva alla fine con onore (e chissà che, riviste alcune tempistiche, in uno spazio più grande in cui le luci multicolori di Michele Lavagna abbiano maggior agio di distendersi in scena, di fronte a un pubblico più aperto all’esperienza di un racconto in fondo consolatorio, questo lavoro non colga un incontro più felice); ma la presa vera, intima, che scuote e problematizza, che riapre con arnesi non consunti dall’uso, anzi più affilati, le vecchie ferite umane della follia, della verità, della colpa, del dolore – quella è ben altra cosa.

L’Oreste
quando i morti uccidono i vivi

di Francesco Niccolini
con Claudio Casadio
illustrazioni Andrea Bruno
scenografie e animazioni Imaginarium Creative Studio
costumi Helga Williams
light design Michele Lavanga
musiche originali Paolo Coletta
aiuto regia Gaia Gastaldello – direttore di scena Sammy Salerno
tecnico video Marco Schiavoni
collaborazione alla drammaturgia Claudio Casadio
voci Cecilia D’Amico (sorella), Andrea Paolotti (Ermes), Giuseppe Marini (dottore) e Andrea Monno (infermiere)
regia Giuseppe Marini.
Uno spettacolo co-prodotto da Accademia Perduta/Romagna Teatri e Società per Attori
in collaborazione con Lucca Comics & Games.

Prima nazionale: Teatro del Giglio, Lucca, 29 ottobre 2021, nell’ambito di Lucca Comics&Games.
Teatro Due, Roma, dal 16 al 28 novembre 2021.
Teatro Mentore, Santa Sofia (FC), 8 gennaio 2022.
Teatro Rossetti, Trieste, dall’11 al 16 gennaio 2022.
Teatro Walter Chiari, Cervia (RA), dal 18 al 19 gennaio 2022.
Teatro Sannazaro, Napoli, dal 21 al 23 gennaio 2022.
Teatro Koreja, Lecce, 28 gennaio 2022.
Teatro Kismet, Bari, dal 29 al 30 gennaio 2022.