Laurea ad honorem a un grande maestro Intervista a Mimmo Cuticchio di Emanuela Bauco

Foto di Alessandro D'Amico

Mercoledì 16 novembre vi sarà la cerimonia per il conferimento della Laurea honoris causa a Mimmo Cuticchio presso il DAMS dell’Università degli Studi Roma Tre. Il titolo si aggiunge alle altre “medaglie” ottenute nel corso del suo gigantesco lavoro che dura da oltre sessant’anni.
Il conferimento è frutto di un grande lavoro che è stato sostenuto da prestigiosi nomi del mondo accademico. Fortemente voluto anzitutto dalla professoressa Valentina Venturini che ne è l’Alma Mater. Questa la motivazione della laurea: «Mimmo Cuticchio, coniugando mestiere e creazione, ha dato nuova vita ad antiche e nobili tradizioni, affermandosi quale maestro del teatro contemporaneo».
Incontrare il maestro Cuticchio anche solo a distanza, (la riunione è avvenuta su Skype) avere l’opportunità di ascoltarlo vale dieci vite. Un auspicio è che – i pupi – dichiarati patrimonio dell’umanità dell’Unesco dal 2001 e con loro il maestro Cuticchio possano avere uno spazio fisico adeguato che possa ospitarli, dove il mondo intero possa ancora raggiungerli nei tempi che verranno.

(…) «Il suo è un percorso che ha riplasmato – prima in pratica e poi in teoria, un significativo settore del teatro italiano (…) Non ha legato il suo lavoro artistico alle arti classiche dello spettacolo d’Occidente, ma all’alto livello del teatro uscito dalla Grande Riforma novecentesca: la ricerca della vita d’un teatro a venire (…). Anomalo per formazione e mestiere, Mimmo Cuticchio è un vero e proprio intellettuale, nel senso di colui che sa riformulare le conoscenze ereditate, individuando prospettive nuove, adatte alle circostanze e fedeli al meglio delle proprie radici. Un intellettuale organico, che agisce non solo con le parole, ma con l’esempio e l’azione». 

Scrive così Ferdinando Taviani in un parere allegato alla proposta di conferimento della laurea honoris causa in Teatro, Musica, Danza a Mimmo Cuticchio, la cui cerimonia è in programma il prossimo 16 novembre presso l’Università Roma Tre.

In che modo il dialogo con Taviani ha influenzato il suo percorso di oprante, cuntista, drammaturgo, attore e studioso ricercatore? 

Ferdinando Taviani è stata probabilmente la persona più importante che abbia incontrato in ambito accademico. Ascoltava e sapeva indicare la via, pur senza dare suggerimenti espliciti o mettere in discussione il pensiero altrui. Mi capitava di dirgli: «Sai Nando l’altra volta ti ho detto questo, però, forse non ne sono più tanto convinto». E lui mi rispondeva: «I maestri o sbagliano o indovinano, se sono maestri sanno dove devono andare».

Dialogavamo, passeggiando, incrociando i pensieri di un giovane teatrante e di un importante intellettuale. Io, artigiano dello spettacolo, nato e cresciuto tra i pupi, tra le maschere e tra i fili, da lui considerato intellettuale, perché capace di cambiare e inventare dopo aver guardato e studiato. Come il ricercatore che legge, studia, osserva prima di scrivere, per proporre consapevolmente una nuova prospettiva di analisi. Un pescatore, anche se gli togli la rete e la barca, rimane sempre pescatore. Fino a quando c’è il mare, il pescatore non può che pensare al suo mare. Lo stesso posso dire di me: fino a quando avrò un alito di vita non potrò che pensare ai pupi e al loro mondo.
Il nostro è stato l’incontro tra un uomo di libri e un uomo di scena, tra la paglia e la scintilla. L’occasione fu lo spettacolo Il Milione dell’Odin Teatret nella tenuta di Danilo Dolci a Trappeto nel 1980. Fui invitato da Beno Mazzone, professore di Palermo e direttore del Teatro Libero, il quale mi disse: «Perché non vieni qui? C’è tutta l’avanguardia italiana». Fu Mazzone a presentarmi Ferdinando Taviani ed Eugenio Barba.
Mi era stato chiesto di far vedere come si muoveva un pupo. Non ero affatto entusiasta. E allora, dopo aver mostrato alcuni movimenti, presi la spada e feci il cunto entrando come il Don Chisciotte che spacca lo schermo nel film di Orson Wells. È stato bello. Nando allora mi chiese se con quella tecnica ero in grado di raccontare anche storie di attualità: «leggi il giornale domani mattina e poi, nel pomeriggio, ci fai un esempio di come si può creare una storia». Non era difficile per me. Ma quel giorno mancavano notizie significative e non riuscivo a trovare la storia giusta da raccontare. Si avvicinava l’ora e tornai a Trappeto per seguire la parata dell’Odin. Terminata la parata e tornati alla tenuta di Dolci mi venne detto: «inizia tu con il cunto». Non ebbi il coraggio di dire: «Guardate che non sono pronto, non ho preparato nulla». Salito sul palco chiesi di togliere le bottiglie dal tavolo e di spingere lo stesso sulla parete, invitando i presenti a prendere le sedie per mettersi di fronte a me. Raccontai, con le tecniche del cunto, la parata dell’Odin, dando voce agli attori che nello spettacolo non parlavano, costruendo una microstoria a partire da quello che avevo visto durante lo spettacolo di strada. Mi ero buttato dal trampolino nel mare, senza sapere se avrei incontrato o meno uno scoglio. Alla fine, Nando mi disse: «Ma come fai? Hai tradotto tutto? Hai costruito un testo da un’immagine muta…». Non potevo dirgli «non ho letto niente, non avevo nessuna storia». Lui, però, aveva capito che il mio era stato un gesto di coraggio e che la determinazione avrebbe continuato a guidarmi.
Due anni dopo, a Livorno, Nando mi invitò a partecipare al progetto “Le pratiche del narrare”. Erano presenti Luca Ronconi, Marisa Fabbri, Ugo Pirro, Andrej Tarkovskij, Vincenzo Cerami, Andre Gregory. C’era l’odore del grande teatro, delle grandi personalità. Nando presentò tutti e quando si trattò di me disse: «Mimmo Cuticchio è l’ispiratore di questo mio progetto, di questo mio viaggio, ed è qui come maestro». Ero molto emozionato, perché non mi sentivo Maestro, né volevo esserlo. Ero un allievo che si stava costruendo le ali per volare.
Nando lo aveva capito, sapeva leggere dentro l’altro, vedere in me le cose che io stesso non riuscivo a vedere. Aveva rafforzato le mie ali e mi indicava la via del volo. 

Foto di Alessandro D’Amico

Ci sono stati e ci sono altri maestri di teatro che hanno accompagnato il suo apprendistato e influito sul suo modo di fare teatro? 

Mio padre è stato il primo e il più grande maestro, perché per salire a qualsiasi altezza bisogna mettere il piede su un primo gradino e il primo gradino io l’ho messo dove indicato da mio padre.
Vengo da una famiglia di teatranti girovaghi, che andavano di paese in paese. Era difficile seguire la scuola e mia madre, che aveva studiato poco, cominciò ad imparare per aiutare noi figli durante le scuole elementari. La sera suonavo il piano a cilindro e guardavo lo spettacolo, l’indomani, tornato da scuola, mio padre mi faceva sedere sullo sgabellino, mi consegnava un’armatura da pulire, poi ogni tanto mi dava un quaderno e mi diceva: «Ricopia questo canovaccio che è tutto macchiato di anelino rosso!». Io e mia sorella Teresa trascrivevamo tutti i copioni, i canovacci. Dalla trascrizione dei canovacci ho imparato a capire la sintesi dello spettacolo che mio padre faceva la sera. «Carlo Magno, riunisce il consiglio perché sente che in Africa rullano i tamburi di guerra e lui parla con i suoi paladini». Ma cosa dice Carlo Magno ai suoi paladini? Avevo capito che mio padre improvvisava i dialoghi.
A tre anni facevo già la voce dell’angioletto poi, intorno ai dieci anni, la voce delle donne e di qualche soldatino. Un oprante fa tutte le voci. Mio padre ci spiegava come fare: le voci delle donne non si dovevano recitare in falsetto ma dovevano esprimere il sentimento della donna e cambiare in relazione al ruolo (serva, damigella, guerriera). Ognuna aveva una sua caratteristica vocale e una gestualità. Verso i quattordici anni, cominciai a fare la voce dei pagani per poi essere sempre più coinvolto, fino ad arrivare al mio primo intero spettacolo, nel quale davo la voce a tutti i personaggi. Era il 1966 ed avevo diciotto anni. Eravamo a Porticello, vicino Palermo, in una specie di dammuso nei pressi della rimessa delle barche. Quella sera mio padre non stava bene, il pubblico era entrato, la sala era piena. Fu mia madre a chiedermi se me la sentissi. Così feci il mio primo spettacolo, tratto da un episodio della Storia dei Paladini di Francia. Orlando uccide Almonte d’Asia vendica il padre Milone e conquista le armi di Almonte con la spada Durlindana e il cavallo Brigliadoro che lui chiamerà Vegliandino. Era una storia piena di intrecci, ma, una volta salito sul palco, cominciai a recitare non preoccupandomi più del copione. Alla fine, ho ricevuto tanti applausi.
Il mio secondo maestro è stato Aldo Rendine, il direttore dell’Accademia Pietro Sharoff. L’ho seguito per circa due anni. Durante le lezioni di dizione mi diceva: «Tu fai le cose e non sai chiamarle, altri le scrivono». Quando leggevo le poesie avevo qualche problema. Con lui ho studiato il metodo Stanislavskij. Mi sono poi dedicato alla lettura di Bertolt Brecht, perché in tanti mi dicevano che il cunto era molto brechtiano.
In Stanislavskij e in Brecht avevo trovato cose che mi convincevano. Pensavo: «si tratta di acque di due fiumi. Io sono un ruscello che arriva e vi si mescola».
Altra mia grande passione era Italo Calvino: quando lui immaginava Le città invisibili io ero con lui, se lui si fosse perso in mezzo alla nebbia, io sarei stato in mezzo alla nebbia.
Tra il 1969 e il 1970 i rapporti con mio padre si fecero difficili. Lui voleva lavorare per i turisti, io no: «tu ci hai insegnato che la tradizione non è una cosa ferma, ma una cosa in movimento». Ma lui ripeteva: «non c’è bisogno di cambiare spettacolo, perché i turisti cambiano ogni sera». E qui cominciarono i conflitti con mio padre, conflitti solo per il mestiere, naturalmente.
Mi avvicinai al cunto, che conoscevo sin da bambino. Volevo impararne le tecniche, essere capace di raccontare le storie dei pupi anche senza pupi. Cominciai a seguire Celano, grande cuntista, divenendone allievo. Durante i tre anni di apprendistato seguivo il mio maestro quando lo chiamavano per una serata e piano piano, senza forzature, imparai la tecnica, forte delle storie che già conoscevo per averle lette e viste rappresentare a mio padre. Tuttavia, non osai mai fare il cunto mentre Celano era in vita.
Quando nel 1973 Celano morì, avevo da poco aperto il mio teatrino, mi ero costruito dei pupi, e formai la compagnia Figli d’arte Cuticchio con mio fratello Guido.
L’altro maestro che ho incontrato nel mio cammino è stato Carlo Quartucci della Zattera di Babele. Quartucci si fermò a Trapani con la sua Zattera per diversi anni ed io diventai uno dei suoi attori, con lui ho cominciato ad affrontare Shakespeare e Marlowe. Quartucci mi stimolava, mi guidava, mi faceva capire cosa io potessi fare. E una volta mi disse una frase che non posso dimenticare: «Tu sei grande e grosso e quando ti muovi sulla scena ti muovi sempre all’uso dell’oprante». L’oprante sta fermo dietro al boccascena e muove il pupo allungando le braccia. Mi diceva: «tu ormai sei uscito dal boccascena, ti devi prendere tutto il palcoscenico». Queste sue parole mi hanno liberato perché era vero, quando mi muovevo dietro il boccascena, qualsiasi personaggio facessi, mi trovavo in uno spazio di quattro metri per due. Carlo mi disse: «Muoviti, vola, prenditi il palcoscenico, apri le ali!».

Mi ha profondamente colpito il racconto di quando suo padre le affidava il compito di “raddrizzare i chiodi”, di come lei trascorresse pomeriggi interi a restituirgli nuova vita. Mi ha commosso quell’immagine che trovo perdutamente romantica e allo stesso tempo emblematica del suo rigore, della sua necessità di fare del teatro un tempio.

Sono convinto che la nostra formazione, nel bene e nel male, inizi dalla famiglia e dall’infanzia.
Quando ero bambino giocavo con le galline, le pecore e gli asinelli per strada. Nei paesi di montagna, per mesi non arrivava una macchina, le giornate passavano con gli uccellini che cinguettavano, le strade erano piene di donne che lavoravano, facevano il pane o la salsa di pomodoro.

Mio padre ci ha insegnato che noi eravamo dei lavoratori dello spettacolo, non degli artisti. Le armature dovevano essere sempre lucidate, i pupi spogliati per ritoccare le stoffe e controllare che non ci fossero tarli.
Era bello vedere mio padre che batteva e piegava i ferri; il rumore che si produceva era simile a quello che si ascoltava durante le battaglie, quanto le armature in scena sbattevano, cozzavano con gli scudi, con gli elmi. Avrei voluto farlo anch’io, ma ero piccolo. Poi un bel giorno mio padre mi diede una piccola incudine poggiata su un tronco di legno, per poterlo aiutare.
Quando montavamo il teatrino nei paesi, le assi di legno si inchiodavano; poi, quando si smontava per passare in un altro paese, i chiodi si toglievano, si mettevano in una latta, si drizzavano e si riutilizzavano non perché ci fosse povertà, ma perché si conservava tutto ciò che poteva essere riutilizzato. Così si mettevano in una latta pronti per essere raddrizzati. Ricordo che chiedevo a mia madre: «Mamma, li devo drizzare tutti?». Lei rispondeva: «a poco a poco». E così capivo che in famiglia ognuno di noi aveva un compito, ai più piccoli competeva pulire uno scudo, una corazza e anche raddrizzare i chiodi. Il nostro era e rimane un lavoro artigianale. Per fare i ferri dei pupi si comincia dai chiodi.

Foto di Alessandro D’Amico

Lei ripete sempre di essere un viaggiatore. Il suo teatro, le sue tradizioni, viaggiano con lei. Dove siete oggi? E dove, al momento, pensate di dirigervi? Quale è, oggi, l’ago che orienta la sua bussola? 

Ho finito da poco lo spettacolo sull’Inferno di Dante. Questa volta ho voluto utilizzare anche il cinema. Le riprese sono state fatte da Daniele Ciprì, mentre Chiara Andrich, una giovane regista veneta che mi segue da anni (ha fatto la tesi di laurea sul mio lavoro), ha fatto il montaggio.
Volevo realizzare l’Inferno di Dante ma non nel modo tradizionale, che sarebbe stato più facile. In fondo il teatrino dei pupi è pieno di diavoli, di facce strane che potevano essere utilizzate per fare i dannati. Invece ho voluto fare il mio Inferno seguendo i passi di Dante e Virgilio, rileggendo la prima cantica della Divina Commedia, ambientando le scene in alcuni siti delle nove province siciliane. Nello schermo non ci sono attori, ma pupi, pupi ripresi come attori, con gli sfondi dei luoghi siciliani meno conosciuti. Mi piaceva riaffermare il concetto che i pupi hanno da sempre raccontato e possono continuare a farlo. Per quanto riguarda i nuovi progetti, nella prossima primavera monteremo l’Histoire du soldat di Stravinskij che debutterà a Boston.

Dove vivono i pupi dei Figli d’Arte Cuticchio?

A Palermo, in via Bara all’Olivella, c’è il teatrino, di fronte ci sono il laboratorio, l’ufficio, lo studio, che è la casa/teatro. Il mio teatro e i luoghi che lo circondano sono come una nave che viaggia in cui i pupi sono dappertutto. Questa sarà per sempre la loro casa. Noi invecchiamo e moriamo. Loro diventano antichi e vivranno in eterno, per continuare a raccontare.

Info:
La cerimonia di conferimento della Laurea honoris causa a Mimmo Cuticchio avverrà il 16 novembre 2022 presso l’Aula Magna di Lettere sita in via Ostiense 234/236. In tale occasione, al termine della cerimonia, verrà inaugurata presso il foyer dell’Aula Magna la mostra fotografica dal titolo: “Fare i Pupi – il Maestro Mimmo Cuticchio all’opera” immagini di Dilio Lambertini. La mostra resterà esposta sino al 25 novembre 2022.