L’arte come forma di resistenza : il T* Danse Festival di Aosta Intervista di Carolina Germini

In questi giorni, dal 19 ottobre al primo novembre, era previsto ad Aosta il T* Danse, Danse et Technologie – Festival Internazionale della Nuova Danza di Aosta. Avevamo intervistato i direttori artistici Marco Chenevier e Francesca Fini in occasione dell’inizio, li abbiamo rincontrati nuovamente dopo il decreto dello scorso 25 ottobre, che ha sancito la chiusura dei teatri e quindi inevitabilmente ha interrotto anche il Festival. La parola resistenza, che aveva ispirato l’edizione di quest’anno, assume adesso un significato ancora più forte.

La decisione del governo di chiudere i teatri arriva nel vivo del vostro Festival, iniziato il 19 ottobre. Gli spettacoli previsti fino al 1 novembre sono stati annullati. Cosa pensate di questa decisione e qual è l’effetto di un festival interrotto a metà? 

Eravamo pronti ad un eventuale lockdown, anche se in ogni caso la ricezione del DPCM ci ha molto intristito. Grazie al sostegno di tutti i nostri finanziatori, siamo in grado di mantenere i flussi finanziari ed onorare i contratti anche se gli spettacoli della seconda settimana non sono stati effettuati: un minimo di ossigeno in una situazione asfissiante. Sulla decisione del governo non ci esprimiamo, prendiamo atto del DPCM e dell’assenza di un ministro della Cultura.

Il Festival è giunto alla quinta edizione. L’idea con cui è nato è stata quella di creare e portare avanti un lavoro artistico fortemente legato al territorio di Aosta. Oggi potete dire di essere riusciti in quest’impresa? 

In realtà l’idea era quella di creare un’occasione, per il territorio, per avere uno sguardo sulla sperimentazione internazionale in campo performativo. Il legame con il territorio, più che con il lavoro artistico, lo abbiamo cercato e costruito attraverso l’ospitalità e i vari dispositivi di coinvolgimento. Ci siamo certamente riusciti, a giudicare dalla generosa risposta dei cittadini! Certamente quest’anno, in queste settimane soprattutto, la questione diventa ben più complessa…

Avete definito l’edizione di quest’anno un Festival della Resistenza. Qual è il segnale che volete trasmettere continuando a portare avanti il vostro lavoro nonostante l’emergenza Covid? E perché il teatro e la danza possono definirsi atti di resistenza?

L’arte in generale è certamente un atto di resistenza. Il segnale che vogliamo trasmettere è che non siamo disposti a rinunciare a ciò che amiamo a causa della pandemia; tutto è più complesso ma possibile. Certamente sarebbe più semplice virtualizzare tutto, oppure rinunciare e aspettare che il tutto sia passato. Ma non sappiamo quando la pandemia sarà superata: nell’attesa ci adattiamo, prendiamo tutte le precauzioni con rigidi protocolli sanitari e offriamo, nel ruolo di struttura pubblica, un’offerta culturale che è ossigeno fondamentale per i nostri cuori. 

Gli spettacoli si svolgeranno nel Teatro della Cittadella dei Giovani, i cui spazi sono stati rimodulati per fare fronte all’emergenza. Cosa significa per una disciplina come la danza, che dialoga continuamente con lo spazio, questa rimodulazione? 

Significa tanto. Lo spazio scenico però resta invariato, piuttosto si torna un po’ indietro, ritornando ad una forma ed una struttura più consueta, con una rigida separazione tra scena e pubblico. A T*Danse abbiamo spesso invitato progetti che, invece, mettono in discussione le convenzioni teatrali: pensiamo a lavori come M2 della compagnia Dynamis, o a Melting Pot di Marco Torrice. Ora, però, dobbiamo limitarci a proposte che rispettano il distanziamento, quindi significa limitare, e non di poco, le possibilità di programmazione. Inoltre le incertezze relative alla mobilità internazionale e l’aumento delle possibilità di cancellazione a causa di eventuali contagi, sono delle nuove variabili che fragilizzano non poco le organizzazioni.  Per gli artisti però è possibile danzare come sempre.

La pandemia ha completamente cambiato la nostra percezione delle distanze. Siamo stati costretti a ripensare il concetto di frontiera. Potremmo dire che assistere oggi a un Festival in una città come Aosta, in una regione al confine con la Svizzera e la Francia, è un modo per familiarizzare di nuovo con la nostra appartenenza all’Europa? Il vostro Festival, essendo internazionale, sembra andare proprio in questa direzione.

Assolutamente sì. Per quanto a tutti i livelli crediamo sia doveroso ripensare la mobilità e le catene di produzione e distribuzione, nell’agroalimentare come nell’arte, siamo convinti che l’arte sia uno strumento per entrare in contatto con l’altro, con il diverso da sé. La dimensione internazionale è fondamentale proprio per questa ragione.

Il legame con la comunità di Aosta è da sempre al centro di questo Festival, tanto che i cittadini in questi anni hanno aperto le loro case per ospitarvi. Quest’anno l’emergenza non lo ha permesso ma, per ringraziarli della loro generosità, avete organizzato esclusivamente per loro il T* Danse Staff Show. In cosa consiste questo lavoro?

Sarà una vera e propria festa! Un regalo che come staff vogliamo fare ai membri del club degli host! Una caratteristica di T*Danse è che oltre che organizzatori siamo anche artisti: in quest’occasione vogliamo donare una performance appositamente costruita per questi generosi cittadini che, quest’anno, non abbiamo ovviamente sollecitato per l’ospitalità. Ma questo non ci vieta di nutrire il legame che abbiamo costruito con loro: in questo T*Danse 20 è un festival di resistenza: ci attrezziamo per tempi migliori ma, nel frattempo, continuiamo a vivere, esistere e danzare!