L’amicizia è come un morso della taranta di Carolina Germini

foto di Enrico Fedrigoli

<<Chi è l’amica geniale se non colei capace di raccontarci meglio di come noi stesse faremmo?>>. È questa una delle frasi pronunciate da Lenù nella seconda parte dello spettacolo Storia di un’amicizia. Essa ben riassume il senso della tetralogia della Ferrante e di questo adattamento teatrale che la compagnia Fanny & Alexander ci propone. Elena, detta Lenù, e Lila sono cresciute insieme a Napoli nello stesso rione. Dell’infanzia condividono tutto: la classe, i compagni, ma soprattutto la paura per Don Achille, uomo temuto da tutti. Lenù e Lila sono diverse sia nell’aspetto che nel carattere, eppure sono legate da un filo indissolubile. È come se, soltanto insieme, potessero difendersi dal mondo. La loro amicizia è un antidoto a ogni paura, soprattutto a quella della morte, di cui sentono parlare continuamente. Nella prima parte, intitolata Le due bambole, Lenù e Lila vivono quella che per loro sarà per tutta la vita ricordata come un’esperienza drammatica e, responsabile di questa vicenda, è come sempre Lila. Ma a doversi salvare questa volta sono entrambe. Un giorno un po’ per dispetto, un po’ perché Lila deve sempre far sì che qualcosa accada e ferire il mondo attraverso azioni ribelli, tiene in mano la bambola di Lenù e Lenù la sua. Un atto di grande fiducia quello di cedere all’altra la propria creatura. Come a dire: ti affido il mio mondo perché so che lo custodirai. E invece Lila non ci pensa due volte a tradire l’amica e lancia la sua bambola giù per la grata della cantina. Lenù si dispera. Non può credere che Lila l’abbia fatto davvero e reagisce d’istinto, scaraventando nello scantinato anche la sua bambola.

foto di Enrico Fedrigoli

Ormai le bambole sono state gettate e andarle a recuperare è una sfida troppo difficile per entrambe. Eppure insieme sono capaci di tutto, anche di affrontare Don Achille, sospettato di averle rubate, poiché scomparse dal piano sotterraneo. Suggestiva la scelta registica di far scendere le attrici dal palco per cercare le bambole in platea. Lo spettatore si trova così chiamato in causa. Anche lui è sospettato di quel furto. In fondo, ciascuno di noi, un giorno, ha lanciato la “propria bambola”, il cui salto nel vuoto simboleggia l’addio all’infanzia, a quel meraviglioso passeggiare a bordo dell’abisso, di cui abbiamo sempre sentito parlare, ma in cui, forse, non avevamo l’intenzione di sprofondare. E, invece, Lila desidera farlo, portando con sé in questa discesa anche Lenù. È così che entrambe sono cresciute, ritrovandosi donne. È Lila la vera “iniziata” a un’età adulta. Lenù non può fare a meno di seguirla. Ma, proprio perché crescere non è stata una sua iniziativa bensì quella di Lila, Lenù resta fortemente aggrappata all’infanzia e assiste incredula al modo in cui Lila invece è cresciuta. Però, quando entrambe aspettano un figlio, è Lila quella più a disagio nel portare avanti la gravidanza e, lamentandosi, dice all’amica: <<Il corpo soffre, non gli va di sformarsi>>.

foto di Enrico Fedrigoli

Se Lila è coraggiosa nel suo percorso iniziatico, è meno capace di Lenù di adattarsi a questa trasformazione. Lei è libera e non vuole nessun impedimento e nessuno sa meglio di Lenù quanto questo sia vero. Raccontando del matrimonio di Lila con Stefano, Lenù riassume il loro rapporto: <<Lila era per Stefano come un fluido in un contenitore>>. Ed è evidente che una come Lila non possa sopravvivere dentro un contenitore. La regia di Luigi De Angelis rivela tutta la sua forza nella scelta di tenere le attrici sempre in movimento. Questo perché il regista ha rivisto nell’opera della Ferrante alcuni elementi della tradizione della taranta. Stringere un legame, diventare amico di qualcuno, è come essere morsi da un animale velenoso. E, come la lingua greca ci insegna, il farmaco ha un duplice significato: è veleno e cura. È così anche l’amicizia tra Lila e Lenù. Del veleno che si sono iniettate a vicenda, attraverso il gesto di lanciare la bambola, non si libereranno mai. Ed è questa la loro salvezza. Le due attrici, Fiorenza Menni e Chiara Lagani, assomigliano entrambe a due donne “pizzicate” dal ragno sebbene, tra le due, sia la prima quella più colpita dal veleno. I suoi movimenti fluidi e ripetitivi ci ipnotizzano. Vederla muoversi sul palco è come assistere a un rito tribale. Ha qualcosa di ancestrale. Chiara Lagani invece, esattamente come Lenù, è più controllata. Il suo temperamento è totalmente diverso da quello dell’amica, malgrado l’incontro con lei si rivelerà fatale. È la forza dell’amicizia che resiste il centro dello spettacolo, esattamente come il veleno che resta nel corpo. Il mondo ci ferisce e noi possiamo salvarci soltanto procurando un’altra ferita a qualcuno, che però reagirà in modo del tutto inaspettato: salvandoci.

foto di Enrico Fedrigoli

Storia di un’amicizia, tratto dalla tetralogia L’amica geniale di Elena Ferrante (Edizioni e/o)

compagnia Fanny&Alexander
ideazione Chiara Lagani e Luigi De Angelis
con Chiara Lagani e Fiorenza Menni
drammaturgia Chiara Lagani
regia, light design, spazio scenico Luigi De Angelis
musiche Luigi De Angelis
sound design Tempo Reale/Damiano Meacci
video Sara Fgaier
ricerca e allenamento coreografico Fiorenza Menni
progetto sonoro Luigi De Angelis
vocals Emanuele Wiltsch
percussioni Cristiano De Fabritiis
supervisione tecnica e cura del suono Vincenzo Scorza
tecnico di palcoscenico Giovanni Cavalcovi
costumi Chiara Lagani collezione Midinette
fotografia e riprese video Alessandra Beltrame e Stefano P. Testa
postproduzione Davide Minotti
sviluppo Super 8 Alessandra Beltrame presso Cinescatti
materiali di archivio Associazione Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia e Bruno Belfiore

Teatro di Villa Torlonia, Roma, dal 20 al 24 febbraio 2019.