“La gatta sul tetto che scotta”: la grande menzogna lenta a morire di Alessandra Bernocco

Foto di Luigi De Palma

Una risata vi seppellirà. Quale più congruo epitaffio si potrebbe scrivere sulla tomba di famiglia di questo agglomerato di rapaci biliosi che Tennessee Williams ritrae ne La gatta sul tetto che scotta, la commedia resa celebre dal film di Richard Brooks del 1958 con Elizabeth Taylor e Paul Newman?

Viene da chiederselo dopo avere assistito allo spettacolo diretto da Leonardo Lidi che ha debuttato il 29 aprile scorso al Teatro Carignano di Torino dove sarà in scena fino a domenica 11 maggio, con Valentina Picello e Fausto Cabra, una versione che con il film non ha nulla a che vedere, se non nell’intento dichiarato di liberare il testo dalle imposture a cui era stato sottoposto, a causa della censura imperante (e sempre in agguato) nell’America bigotta degli anni Cinquanta.
Nessun riferimento all’omosessualità, no parolacce, no imprecazioni, linguaggio indolore e maleodoranti umori dissimulati dalla bellezza incorruttibile dei due protagonisti.
D’altra parte, nemmeno il teatro coevo di Williams gli rese giustizia, al punto che l’autore si vide costretto a scrivere una seconda versione immune da travisamenti, dura e cruda, difficile da digerire.

A questa seconda versione si rifà la regia di Lidi che ha affidato la traduzione a Monica Capuani, una garanzia. Il risultato infatti è una scrittura leale e impudica, che rende perfettamente l’humus ruspante di questa famiglia dominata da un patriarca arricchito, ignorante e volgare, circuito senza successo da una progenie viziata eppure famelica, desiderosa soltanto di assicurarsi l’eredità alla sua morte imminente.

Foto di Luigi De Palma

Tutti, a parte il figlio prediletto Brick, inclusa la di lui sposa Maggie, che non ce la fa a sfornargli l’erede, l’unico per cui Papà (Big Daddy nella versione originale) potrebbe capitolare. Ma Brick la respinge, Brick non la ama, Brick ama un altro. Brick ama un uomo, Brick ama Skipper, Skipper è morto, Brick ama un morto.
La storia è nota e questo è il punto. Che Brick ama un morto. Ecco, la morte diventa qui la metafora viva di tutto ciò che quella vita non è, la negazione della vita degli altri fatta di ipocrisia, inganno, avidità spudorata, sentimenti misconosciuti o semplicemente ignorati, castigo dei sensi, lustrini, case, terreni e dollari, tanti dollari tirati su per fare altri dollari.
Brick invece ama un morto, e si dà anche il caso che si tratti di un uomo, l’amico con il quale avrebbe potuto salvarsi, suicidatosi per la vergogna, sorta di martire sacrificale di un sistema ferreo di disvalori che esclude e perseguita chi non si conforma, un sistema arcaico e mai definitivamente sepolto, denunciato da Williams e messo in evidenza da questa lettura che non arriva per caso, viste le derive sulle quali non mi soffermo.

Foto di Luigi De Palma

Non importa quanto giochi la sua omosessualità, vera, presunta, vissuta, negata o rivendicata: quello che conta e che emerge in questo lavoro è il contrasto tra due mondi lontani, incapaci di comunicare, ciascuno con i suoi codici e le sue priorità.
Il mondo fasullo e stagnante di una famiglia di sepolcri imbiancati, ridicoli e tristi, insopportabili macchiette che soltanto un sistema altrettanto macchiettistico può neutralizzare, uno sciame di murati vivi che qui si dimenano in una claustrofobica scena di marmo bianco pensata come una tomba postmoderna, e il mondo straziato e sbilenco di chi sta fuori, ai margini, nascosto dietro a un paravento o arreso tra il pavimento e il muro, barcollante su un piede solo perché non ce la fa a conformarsi.
Il mondo della vita negata da un manipolo di morti viventi, moribondi non meno del padre malato di cancro che sta per spirare. Il mondo di Brick sta tutto nel ricordo di quello che sarebbe stato possibile e che non è stato, da rivivere o dimenticare nelle nebbie dell’alcol.

La scelta di dare corpo al ricordo attraverso una figura maschile, statuaria e silenziosa, che interagisce con Brick, è parte fondamentale della scrittura scenica e genera una sequenza di immagini plastiche che restano impresse: gli sguardi pieni di nostalgia e sofferenza, la prossimità ricercata negli occhi anche a distanza, gli abbracci sfiorati, il distacco che cerca una rimonta impossibile nel lanciarsi la palla da rugby, sono invenzioni sceniche che creano un piano altro rispetto alla logorrea frenetica e greve che sincronicamente agita i dialoghi degli altri personaggi, e la gestualità onirica e lieve di Skipper che pare camminare sollevato dal suolo, è quasi un ossimoro rispetto alla compulsività con cui Brick chiede e riceve da bere in quella bottiglia trasparente che pare rigenerarsi come la sua dipendenza, di cui l’alcol non è altro che sintomo.
Ininterrottamente porte come dono e forse proprio pegno d’amore, senza censure e limitazioni, le bottiglie sono un segno fortissimo, ossessivo, che permette di raccontare l’ubriachezza senza cedere alla mimesi facile. Brick è alcolizzato ma non è un ubriacone, è uno spirito vergine, un’anima lucida che maledettamente soffre e paga il fio dei pregiudizi altrui.

Foto di Luigi De Palma

Fausto Cabra, con i capelli arruffati, il volto bagnato forse di sudore forse di lacrime, il pigiama che pare essersi appena alzato dal letto, trova in sé delle corde sommerse che fa risuonare con un lirismo che strazia e commuove, lo sguardo vitreo, assente, perduto come quello di un cieco che medita la sua personale vendetta. Finché il grumo di dolore congelato in un silenzio quasi straniato non si fa quotidiano e diventa grido e accusa, inutilmente rivolta a chi non capisce.  “Come fate a parlare in modo così volgare di una cosa così speciale?”.
Siamo al testa a testa tra Brick e il padre, uno dei momenti apicali, in cui la verità esonda al di là delle intenzioni e ti costringe a guardarti allo specchio.
Lo specchio. Il solo elemento dialettico di una scena spoglia che dilata e moltiplica, divide e nasconde, raramente protegge, più spesso ferisce.

Foto di Luigi De Palma

Nicola Pannelli è perfetto nel dare al padre la brutalità che gli spetta, gestendo la stazza e sostenendo il linguaggio, con quella scorza ruvida con cui si difende dagli avvoltoi, ma che riesce a incrinarsi di fronte al figlio che ama. A modo suo, d’accordo, ma forse Papà è anche il solo che non mente, nemmeno a sé stesso.
Lo fa la madre di Orietta Notari, generosa sempre nel mettersi al servizio di qualsiasi cosa il personaggio le chieda: come questa donna sgraziata ricoperta di lustrini che si trincera in un ostinato diniego di tutto quello che non è funzionale alla sua sancta simplicitas. Colei che più di tutti vive nella menzogna, se la porta addosso, la alimenta di altre menzogne e quando le mettono di fronte la verità dei fatti e cioè che Papà sta per morire, va in mille pezzi anche l’involucro che la conteneva. E tutto perché quell’essere immondo che la detesta disprezza insulta e mortifica, è lì lì per tirare le cuoia.

Foto di Luigi De Palma

Diversissima la menzogna che avvolge Maggie la Gatta, la stratega senza scrupoli di Valentina Picello, che per la terza volta nel giro di pochi mesi mi ha fatto dire che è tra le migliori interpreti della sua generazione. Di una sicurezza non esibita, priva di sfrontatezza e autocompiacimento, entra in scena come un cavallo da corsa e travasa sul palco la rabbia e il livore troppo a lungo represso. Sembra che abbia fatto tre rampe di scale due gradini alla volta per la necessità di svuotarsi, finalmente, di un peso insopportabile e soprattutto ingiusto, il non avere figliato e scontarne le conseguenze.
Un’emergenza, la sua, a cui dà sfogo in un forsennato monologo che è anche il racconto di una rivalsa, personale e sociale, che tutto permette e tutto giustifica. Come un acerbo felino che non ha consumato, ancora in calore, questua l’amore che non potrà mai ricevere, rivendica, inveisce, detesta la prole che le starnazza intorno, ma invidia la cognata che sta per sfornare l’ennesimo figlio visto che soltanto la continuità della stirpe assicura l’eredità del capostipite.

Nel ruolo Giuliana Vigogna, adeguatamente caricaturale nei toni e nella postura, come il di lei marito di Giordano Agrusta, figlio negletto e fratello maggiore di Brick, un goffo avvocato di provincia, non particolarmente brillante, anzi un po’ tontolone, che a modo suo prova a fare valere le sue vili ragioni, e mentre ci prova pare quasi intelligente.

I costumi di Aurora Damanti sono un altro segno preciso dello spettacolo, coloratissimi, pacchiani, sbrilluccicanti, citano espressamente lo stile da Trump Tower dei nostri giorni peggiori.
Ai quali si cerca di rispondere (e di resistere) con il sommesso biancore del pigiama di Brick, degli slip di Skipper e del marmo bianco che tutto si inghiotte.
Dopotutto non è proprio il bianco la somma e l’annullamento di tutti i colori?

Foto di Luigi De Palma

La gatta sul tetto che scotta

di Tennessee Williams
traduzione Monica Capuani
regia Leonardo Lidi
con Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna, Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo, Nicolò Tomassini
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Claudio Tortorici
assistente alla regia Alba Maria Porto
seconda assistente Letizia Bosi
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale.

Spettacolo visto il 3 maggio 2025 al Teatro Carignano di Torino dove sarà in scena fino all’11 maggio 2025.

Prossime date:
Teatro Mercadante, Napoli, dal 13 al 18 maggio 2025.
Teatro Vascello, Roma, dal 20 al 25 maggio 2025.

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