La danza come aggregazione sociale. Conversazione con Danila Blasi di Laura Novelli

Foto di Maria Cristina Valeri

Inclusione. Memoria. Ruolo attivo della popolazione. Dialogo serrato con il territorio. Ricerca di quei valori condivisi che da sempre rappresentano le fondamenta della comunità umana e che oggi rischiamo di smarrire, confondere, dimenticare. Temi, insomma, di portata universale che, tradotti in pratiche artistiche aperte all’incontro con l’Altro, rappresentano il cuore pulsante della rassegna FuturaMemoria, inauguratasi il 31 ottobre in diversi spazi del V Municipio di Roma e quest’anno alla sua prima edizione. Colpisce, nel ricco bouquet di proposte messe in campo (danza, teatro, mostre, incontri, installazioni sonore e video), l’energia con cui l’Arte si fa qui veicolo di attivazione sociale nell’intento di coinvolgere la cittadinanza ad assumere un ruolo attivo, partecipativo. Di travasare esperienze e testimonianze (umane prima che storiche) di generazione in generazione. Di guardare al diverso, all’estraneo con gli occhi illuminati di chi guarda una ricchezza, un valore aggiunto.
Diretta da Valentina Marini e inserita nel più vasto progetto Contemporaneamente Roma 2019, la vetrina adotta come filo rosso degli eventi in programma il confronto dialettico tra la cultura africana a la cultura occidentale, ma lo declina secondo prospettive allargate che, tenendo conto anche dei numerosi luoghi coinvolti (dal Teatro Biblioteca Quarticciolo al ristorante La cantina di Dante, dal Mercato Iris a quello di Villa Gordiani) disegnano una geografia creativa capace di connettere presente, passato e futuro, anziani e giovani, memoria e attualità, forme espressive tradizionali e nuovi linguaggi. E se, nei giorni scorsi, il pubblico ha potuto assistere, per esempio, a lavori come Mbira di Roberto Castello e Acqua di colonia di Daniele Timpano ed Elvira Frosini e all’inaugurazione della mostra fotografica Nobody – Odysseo is my name, realizzata da alcuni studenti e docenti dell’Accademia di Belle Arti di Catania e curata da Ivan Terranova e Gilda Raiti, lunedì 18 sarà la volta di un spettacolo di danza partecipata, Europa Vecchia Madre l’evocativo titolo, proposto dall’Associazione Pin Doc (www.pindoc.it).
Frutto di un laboratorio di danza sociale condotto con sedici cittadine anziane del territorio, lo spettacolo porta in scena il racconto corale di donne che erano bambine o ragazze durante il secondo conflitto mondiale: memorie personali e memoria collettiva diventano dunque la linfa di una coreografia votata a raccontare il femminile nella guerra. Che è poi un’altra guerra (come non citare la splendida tragedia di Euripide Le Troiane?). Un’altra trincea. Troppo spesso taciuta o trascurata. Ne abbiamo parlato con Danila Blasi, curatrice del lavoro insieme con la danzatrice Enrica Felici, e assistente ventennale del coreografo Theodor Rawyler, grande esperto di Danza di comunità venuto meno lo scorso settembre.

Come e quando nasce questo progetto di danza sociale?

Nasce dieci anni fa, con l’inizio di un laboratorio permanente di danza sociale condotto da Theodor Rawyler presso la cooperativa sociale Meta che si occupa di servizi per gli anziani. Cinque anni fa la giornalista Francesca De Sanctis, che dirigeva un festival di teatro sociale a Cassino, ci chiese uno spettacolo da fare il 25 aprile in occasione della Festa della Liberazione. E così prese vita il progetto di fare uno spettacolo e rendere pubblico il percorso intrapreso cinque anni prima.

Perché questo titolo?

Perché le protagoniste sono tre anziane signore che, madri o meno, portano così profondamente in sé il concetto di maternità da rendere impossibile il non citarlo. E perché lo spettacolo è ambientato alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e l’Europa che noi conosciamo oggi nasce proprio da quella riconciliazione.

Questo lavoro vuole essere – anche – un omaggio al coreografo Theodor Rawyler, scomparso recentemente e maestro riconosciuto del teatro partecipato: qual è l’eredità che il suo lavoro e il suo impegno ci lasciano?

Io personalmente ho lavorato con Theo per quasi vent’anni ed ho imparato ad amare il suo approccio alla danza partecipata o di comunità. Un approccio capace di essere completamente inclusivo con chiunque. La danza vista come unione, oltre anche la barriera linguistica del teatro. La danza come forma di aggregazione sociale. La danza per tutti. Per chiunque voglia praticarla. Un progetto di integrazione reale che elimina qualsiasi distanza tra umani, veramente al di là di ogni possibile differenza di sesso, razza, età, condizione sociale e possibilità fisica. Dopo la morte di Theo, mi sono ripromessa e ho promesso che il suo lavoro non sarebbe stato perso e così, in accordo con Carla Malatesta, che è la responsabile della cooperativa Meta, abbiamo cercato di capire come proseguire il lavoro. Abbiamo chiesto a Enrica Felici, danzatrice della compagnia Excursus (l’ensemble che Theo dirigeva insieme al suo compagno nell’arte e nella vita Ricky Bonavita), oltre che allieva e poi collaboratrice di Theo stesso nei suoi laboratori di community dance, di continuare il percorso con le anziane della Meta. E così anche per quanto riguarda lo spettacolo: Theo faceva una piccola parte nella performance. Il suo posto è stato ora preso da Giordano Novielli, anche lui collaboratore di Theo nel suo percorso di sperimentazione della danza partecipata.

Foto di Maria Cristina Valeri

Quali aspetti della memoria personale e collettiva delle donne protagoniste emerge più vividamente nel lavoro?

Essendo le partecipanti al laboratorio e allo spettacolo bambine all’epoca che viene raccontata, l’aspetto che è prevalso maggiormente è quello del ricordo. In particolare, il ricordo legato all’ambito familiare e all’assenza dei padri, che erano tutti via come soldati e che, tornando dopo la guerra, rimettevano in discussione gli equilibri familiari. Alcune erano così piccole quando i padri erano andati via che hanno fatto fatica a riconoscerli. Questi sono quegli aspetti legati all’infanzia e al femminile che raramente vengono affrontati quando si parla di guerra, ma che sono parte integrante di quello che la guerra mette in discussione, anche quando non fa direttamente vittime.

In che modo crede abbiano esse vissuto questa esperienza artistica così particolare e così carica di risvolti umani?

L’hanno amata e continuano ad amarla. L’hanno vissuta con ardore e passione, di cui sono piene. Se si pensa che sono tutte donne di età compresa tra i settanta e i novanta anni, è facile immaginare quanta forza mettano nel partecipare a un progetto del genere. Sono delle entusiaste, così piene di vita che a volte facciamo fatica a star loro dietro. Non si sono mai tirate indietro di fronte a nulla e affrontano le fatiche delle date in trasferta con gioia. Ma la cosa veramente fantastica è che questo ha fatto di loro un gruppo, un vero gruppo di amiche, che si frequenta anche fuori delle attività della cooperativa. Che esce, va al cinema, a teatro. Un gruppo di donne che si supporta e si aiuta, che fa la spesa a chi sta male, fa compagnia a chi è sola. Un gruppo che si vuole bene. Una cosa che mi ha fatto felice e contemporaneamente mi ha straziato è stato sapere che, dopo la morte di Theo, in attesa di capire cosa sarebbe successo, hanno deciso di continuare a vedersi e di portare comunque avanti il laboratorio da sole, facendo le cose che si ricordavano. E facendo insieme merenda, che era il modo in cui tutte le settimane chiudevano l’incontro. Dopo la danza, ci si metteva tutti intorno a un tavolo e ci si divideva il cibo che “le danzatrici” puntualmente portavano: meravigliose torte dolci e salate, crostate, biscotti fatti da loro. E poi ovviamente tante chiacchiere, racconti e storie. È questo il cuore di tutto ciò. La condivisione. Quella vera.

Come si svolge scenicamente la performance?

La performance è divisa in due parti: nella prima si fa una dimostrazione su come si svolge il laboratorio, invitando a partecipare quanti nel pubblico ne abbiano voglia. La seconda parte è lo spettacolo vero e proprio, che è una performance di teatro fisico con dei fondamenti di danza contemporanea. C’è un gran lavoro sonoro, fatto da Concetta Cucchiarelli, che ha lavorato sulla rielaborazione di musiche della Resistenza e sulle registrazioni dei ricordi delle partecipanti al laboratorio. Da questo materiale è nato un tappeto sonoro che costituisce la parte uditiva dello spettacolo, sulla quale le tre protagoniste agiscono.

L’associazione Pin Doc, oltre a promuovere la danza contemporanea, si adopera da sempre nel sociale e sul territorio: quali energie si scambiano e si intercettano attraverso un’operatività così attenta al luogo e ai suoi abitanti?

È un’esperienza artistica e umana incredibile. Ricordo ancora l’emozione di Theo quando fece una presentazione pubblica del laboratorio fatto con un’associazione di Verona che lavora con donne immigrate. Era riuscito a far esibire insieme donne provenienti da tre differenti continenti, che parlavano otto lingue diverse e che avevano messo in comune le loro storie, così diverse eppure così simili. Quando si fa un lavoro di questo tipo, quello che torna è tantissimo. Per me è una fonte di forza. Mi dà motivo di pensare che l’umanità ce la può fare. È una luce nei momenti di sconforto.

Foto di Maria Cristina Valeri

Al di là della portata storica e antropologica di operazioni come queste, è in atto una tendenza sempre più diffusa a mescolare artisti professionisti e non professionisti, ad abbattere la quarta parete, a creare forme aperte di partecipazione diffusa (relativamente alla danza, penso a Virginio Sieni, Jérôm Bel, Alessandro Sciarroni, solo per fare qualche nome). Una riflessione in merito a questa nuova estetica, che poi nuova non è. Oggi a quale bisogno risponde, secondo lei?

Non si tratta di un’estetica nuova, sicuramente no. In fondo l’Italia è la patria del Neorealismo cinematografico, che del mescolare professionisti con attori presi dalla strada ha fatto il suo punto di forza. Forse la differenza sta nel fatto che ora abbiamo spostato questo tipo di estetica in teatro (anche se ne abbiamo esempi già negli anni Sessanta con la nascita del concetto di performance). Personalmente credo che il bisogno a cui risponde questa modalità artistica sia quello di sentirsi più coinvolti. Il pubblico non ci sta più a essere solo soggetto passivo e vuole essere parte in causa e quindi gli artisti lo tirano in causa. Penso che in un momento storico profondamente individualista come quello in cui stiamo vivendo e in cui si fa fatica a trovare un gruppo di appartenenza, in realtà le persone abbiano un gran bisogno di comunità. Abbiano desiderio di sentirsi parte di qualcosa. E sentono più vicino uno spettacolo che li coinvolge o che comunque coinvolge gente comune. Uno spettacolo non solo da guardare ma da vivere. A volte, come ad esempio nei lavori di Milo Rau, questa modalità raggiunge vette di immensa bellezza e profondità.

Il municipio in cui si svolge la rassegna FuturaMemoria, nell’ambito della quale è in cartellone Europa Vecchia Madre, è stato in queste ultime settimane teatro di terribili incendi dolosi che hanno colpito luoghi e simboli di aggregazione e pensiero libero: cosa pensa a riguardo?

Io ho vissuto i primi tre anni della mia vita in via dell’Acqua Bullicante, tra Torpignattara, la Maranella e quello che all’epoca si chiamava il Borghetto Prenestino, proprio accanto a Centocelle e al Quarticciolo. E quando mi sono finalmente potuta comprare una casa, sono tornata a vivere nella stessa zona. Questa parte di Roma è casa mia, da sempre. È come se avessero incendiato un pezzo di casa mia. Io ricordo bene come era questa zona quando non c’erano locali, librerie, niente di niente. Una zona deserta, triste. Alle nove di sera era tutto chiuso. Era la periferia, quella dove si rientrava a casa e basta. Più pericolosa di ora, con le sue strade deserte e le serrande abbassate. Trovo bello adesso uscire la sera e vedere luci accese, ragazzi che chiacchierano, sentire la musica che proviene dai locali. Ho vissuto quegli incendi come un tentativo di tornare ad altri tempi, quelli in cui potevi solo stare in casa. Ma questa è una zona che resiste da sempre, so che non ci lasceremo intimidire. Non torneremo ad avere paura di uscire la sera, continueremo a uscire e a frequentare bar, pizzerie, librerie, club. Perché ci piace uscire, ci piace parlare, ci piace stare insieme. E perché, parafrasando un motto femminista, «le strade sicure le fanno le persone che le attraversano».

Dopo questo appuntamento romano, quali sono gli spettacoli che Pin Doc proporrà al pubblico della Penisola?

Il 23 novembre porteremo Alma Tadema, la nuova produzione di Ricky Bonavita all’auditorium Costa di Sezze. Poi avremo Giuseppe Muscarello a Cagliari con il suo Kalsa. Giuseppe si sposterà poi a Milano, al festival Più che danza dove presenterà l’anteprima del suo nuovo lavoro Reverse e un primo studio della produzione che debutterà il prossimo anno. Il 7 e l’8 dicembre di nuovo Alma Tadema a Napoli e a Capua. In seguito saremo qui a Roma, al festival Teatri di Vetro, con quattro lavori di Paola Bianchi (Esti, Ekphrasis, Energheia e The undanced dance) e con due lavori di Giovanna Velardi, Viaggio nel cuore articolare e I broke the ice and saw the eclipse.

 

Europa Vecchia Madre

coreografia Theodor Rawyler
assistenza e supporto Danila Blasi, Enrica Felici
costumi Daniele Amenta e Yari Molinari
realizzazione musicale Concetta Cucchiarelli in collaborazione con CRM – Centro di Ricerche Musicali
interpreti Vilma Galli, Verena Marzuoli, Renata Strozzi, Giordano Novielli
Rassegna FuturaMemoria, Teatro Biblioteca Quarticciolo, Roma, 18 novembre ore 18.30.

Informazioni e prenotazioni: futuramemoria.romamail.com; cell. 347/8312141.