Inquadrature di danza: seconda edizione del progetto “Buffalo” di Paolo Ruffini

“Mars”. Foto di Rodolfo Cammarata

Il corpo all’aperto è il “segno” marcante che evidenzia l’edizione di quest’anno del format Buffalo, apertura (appunto) sulla danza che Michele Di Stefano torna a proporre a Roma nella speciale congiunzione di lessici del contemporaneo tra il Teatro di Roma e l’Azienda Speciale Palexpo. E gli appuntamenti si rincorrono in un lungo fine settimana, distribuiti prevalentemente al Macro (Museo di arte contemporanea di Roma) con una puntata all’Istituto Svizzero di Roma; ogni spazio caratterizza il gesto che sarà danzato o performato, responsabilizza lo spettacolo che lì, nella cornice apparentemente “inadatta” fatta di corridoi e aree interconnesse, si configura nella sua veste di “pezzo” ulteriore rispetto all’originale, anzi ne scontorna l’evidenza per cui è nato. Stando al quadro generale della “piattaforma” offerta, molte sono le strade che il rovello coreografico cerca di indagare, e non potrebbe che essere così. Le spazialità delle attitudini e dei pensieri che governano il cruccio creativo degli autori e delle autrici presenti (o almeno di coloro che siamo riusciti a seguire) sembrerebbe mostrarci problematiche, interrogativi sulle questioni formali non di poco conto. Per formale intendiamo quella ricerca organica alla drammaturgia dei segni esposti e interni ai lavori, coerenti nella struttura ma allo stesso tempo sfuggenti allo spazio emozionale dello spettatore. Nella pura forma spesso la ricerca non si preoccupa di innescare digressioni o creare fratture tra visione d’insieme e spostamento di senso del particolare, non definisce l’oltremodo di un punctum, per rubare l’intuizione di Roland Barthes, ma si preoccupa di gravare il peso su una idealità del rimosso estetico. La frattura, invece, misura la temperatura di una mancanza, un vuoto nell’auto-conservazione linguistica di una immagine, e dunque della sua percezione. Se è della danza oggi, certa danza nelle sue amplificate sfumature, l’esperienza scenica più “politica”, ragioniamo inevitabilmente allora di un processo che non si basta della sola definizione di danza, non trattiene cioè matrici o certe vividezze del movimento in quanto corpus del codice, ma si lascia “defluire” in una resilienza dell’immagine, persino in un “nascondimento” del gesto, una eclissi del “bello” che fa dello spettatore un suo complice, una sponda critica in reazione alle confezioni ortodosse. Cosa ci sta raccontando questa danza, cosa ci dicono gli spettacoli di Buffalo (al di là dei proclami nei programmi di sala)? Dove si situano questi autori e queste autrici rispetto ai propri discorsi e più in generale al discorso sulla danza adesso? Nicola Galli, per esempio, con Mars perlustra un sistema di pianeti declinato per tappe di cui questo, geometrico e “siderale”, ci riporta a una misura di sé nello spazio che ha l’eco di un espressionismo tedesco alla Gerhard Bohner degli anni Settanta, quasi uno svuotamento del presente nell’effige della forma pura in quella gestione di un tempo reiterato con azioni apparentemente “tattili”, come a sondare lo spazio circostante dato, azioni che ripetono uno stilema, lo ri-percuotono. In quella perfezione stilistica ritroviamo una scuola, un tratto deciso, una appartenenza. Intemperie dello stile, dunque, che per Cristina Kristal Rizzo ha l’andamento di entrate e uscite dallo sconfinamento, dall’ipertrofia coreologica, laddove il suo movimento espressivo situa la gestualità in un emisfero rarefatto, quasi metalinguistico. La coreografa-performer toscana fa spettacoli e poi li smonta, orchestra “opere” compiute e s’ingegna nel destrutturarne, a latere di queste, complesse letture sceniche in assoli o epigrammi situazionisti e concettuali; balla e danza, fa il verso alla forma ma ne sussume il significato, è eversiva e accademica, è opposizione e rivendicazione di ascolto al sistema, classica e iper-avanguardistica, insomma difficile da collocare se proprio abbiamo ancora il bisogno di collocare qualcuno da qualche parte. Per questo unica (come poche altre della sua generazione). Non è mai chiaro qual è il punto, se nella sua danza o nelle metafore e nei raccordi teorici che nutrono e definiscono quella danza, se nella scapigliatura romantica di cui sembra rivendicare a suo modo una primogenitura o nella essenzialità del rigore quasi ascetico che post Kinkaleri l’ha contraddistinta. E infine, se riconoscersi nel paradosso (nello smottamento dei significati) della danza o rivendicarne per la sua di danza un ruolo e una storia in continuità con la Storia della danza stessa. Probabilmente entrambe le “urgenze”. Rizzo presenta a Buffalo un lavoro che è emblematico proprio per le domande che suscita, per un verso proprie alla sua biografia artistica ma poi anche per quello che rappresentano al di là della sua figura, più propriamente uno spettacolo lessicalmente articolato su diversi piani di lettura con una “evidente” narrazione espressa (se per evidente intendiamo ciò che si vede e si ascolta e non il contro-canto critico che sottende); scopriremo un lavoro pieno, quasi straripante di contenuti, per certi versi un ulteriore tassello di sperimentazione sulla traccia di altri sui lavori di “rimediazione” e interazione con l’oggetto investigato. Ultras sleeping dances in questa versione ricorda altre azioni coreografiche della Rizzo, nella sua quadratura decentrata e orgogliosamente anaffettiva: i performer si posizionano lungo lo spazio rettangolare preventivamente “arredato” da chiazze colorate di materiale sintetico con gli spettatori ai lati, indossano parrucche quasi a evidenziare una figurazione posticcia nell’esperire un tema e un tempo, nel “crescendo” che restituirà più avanti calcolate dosi di dolore “interpretativo”; si muovono a terra, definiscono lo spazio attraverso spostamenti sempre apparentemente casuali, la musica ha l’andamento di un folk denaturato, uno spleen che bene chioserebbe una scena di David Lynch. Il gruppo mostra un finto sangue fuoriuscire dalla bocca, ancora uno smottamento che in quel fiotto di sangue esprime pathos trasfigurato, un quadro fuori fuoco nel paradosso simbolico. Si giunge poi al primo “taglio” quando un cambio vede i performer tornare in scena con le loro naturali fattezze, senza parrucche, e il sentimento esposto cambia registro scenico come la musica, che alza il ritmo vorticosamente, nonostante l’effetto di un pianto indotto da sostanze urticanti – un carducciano pianto antico di un tempo perduto – muova un effetto uguale e contrario di surrealtà, mentre è la stessa Rizzo ad accennare dei piccoli développes falliti sul nascere accompagnata dal flebile suono del suo telefono cellulare di una Gymnopédie di Erik Satie che rimanda a una trasfigurata ballerina di Degas.

“Shirtology”. Foto di Herman Sorgeloos

E se Shirtology di Jérôme Bel appare come un intermezzo tra uno lavoro scenico e l’altro, in quel feroce e divertente de-potenziamento della spettacolarità (il performer in momenti diversi attua immobile il gesto di togliersi le proprie tante t-shirt indossate una sull’altra con rabdomantico accumulo di significati paventando un surround percettivo), il duo Ginevra Panzetti/Enrico Ticconi con A e R e A sembrano definire un’arena del conflitto, uno spessore della retorica, dove il concetto stesso di potere si mostra lì con una grazia disinvolta e inaspettata di azioni esacerbate, compiute con puntigliosa regolarità come una coreografia spaziale, quasi un incedere marziale delle due figure in nero con le rispettive bandiere cromaticamente in tono minore; questa danza ch’è tutta nella testa di chi guarda è un gesto d’ordine, una figurazione d’archivio, mentre le posture richiamano la trasparenza di un corpo ch’è ordito e ragione, lex e ferocia, richiamano uno spazio geometrico svelando un misterico e affascinante disegno di combinazioni probabili che riportano alla memoria le trame dei balli della castellucciana Stoa. Esperienza folgorante è Private song di Alexandra Bachzetsis all’Istituto Svizzero, profondamente incuneato nello spazio linguistico del tempo che viviamo per la sua dose di scivolamenti dall’ovvio.

“Private song”. Foto di Otobong Nkanga e Nikolas Giakoumakis

Ogni carattere danzato e cantato in quell’abuso della tradizione rovesciata del ballo da festa greco, una sorta di nouvelle vague di un sirtaki ancestrale e ultra contemporaneo, sfoggia il non detto della cultura, i livelli nascosti (ancora un nascondimento) delle relazioni tra le persone al di là del genere e dell’orientamento sessuale; Private song ha la conturbante felicità del gioco e la delicata possibilità che tutti e tutte possano riconoscervisi, una condizione di esistenza pop surreale tra il “vero” e il suo opposto, tra smascheramento e occultamento. I tre performer (tra i quali la stessa Bachzetsis) sono straordinari, commoventi in quel paradossale eufemismo malinconico e neomelodico, per trasformarsi in durezze anche estreme nel ridisegnare la caricatura di corpi decisamente a disposizione drammaturgica, che sanno essere altro da sé in quel circo felliniano.