Imperfezioni di Mario Gelardi: oltre la scorza dell’apparenza di Carolina Germini

La scrittura teatrale è nella sua natura mancante, bucata al suo interno e costruita attorno al vuoto della parola pronunciata: nasce già in funzione di un’azione e non basta mai a sé stessa. È sulla scia di questa riflessione che nasce Imperfezioni (Editoria&Spettacolo, 2019), antologia di sei drammaturgie di Mario Gelardi, autore e regista da sempre impegnato nel teatro civile. Ma, come Milena Cozzolino spiega nell’introduzione al volume, la drammaturgia di Gelardi non si esaurisce in questa definizione, spaziando sempre oltre. Si tratta di un insieme di testi messi in scena tra il 2004 e il 2019. Come lo stesso Gelardi spiega in una nota introduttiva: «Ho voluto fare un percorso nei miei venti anni di teatro, nella mia esigenza di raccontare la prossimità della vita e degli esseri umani che mi hanno accompagnato, ma soprattutto della città e del Paese in cui sono nato e vissuto».

Limoni, andato in scena per la prima volta nel 2004 al Théâtre de Poche di Napoli, è il primo testo in cui ci imbattiamo. Siamo da subito introdotti in una scena di vita quotidiana: Giulia entra in casa carica di buste della spesa, tutte contenenti limoni e comincia a preparare il limoncello. Del limone questo testo ha anche la struttura: una scorza protegge il suo interno, la casa, la stanza in cui il marito è allettato. Lo spettatore in un primo momento crede a questo involucro così come a tutto il resto. È su questa fiducia iniziale che si regge tutto il dramma. Quando Mattia, l’assicuratore, viene a verificare le condizioni del malato, l’equilibrio iniziale con tutta la sua scorza si rompe. Ci sono due battute in particolare, apparentemente banali, che preannunciano questa catastrofe. Giulia, rivolgendosi a Mattia, pronuncia le parole che contengono tutta la sua ostinazione: «Io continuo il mio lavoro. Sto facendo macerare le bucce di limone. Il limoncello si fa con le bucce, sa?».
Anche ne Le regole del giuoco del tennis  (2005) tutto si muove su un rapporto di falsità e apparenza, che tiene lo spettatore con il fiato sospeso fino all’ultimo secondo, esattamente come accade durante una partita. Matteo e Guido, due ragazzi, amici da sei anni, si preparano a giocare contro i Fratelli De Gregorio e sono determinati a vincere. Come accade spesso tra amici, una partita si dimostra l’occasione perfetta per aggiornarsi un po’ sulla propria vita e sfottersi. Ma in questo scambio c’è una tensione innaturale, un sentimento di rivalità e fastidio, che inizialmente sembrava rivolto verso i fratelli De Gregorio e che improvvisamente riempie la loro parte di campo. Il match non è più dall’altra parte della rete, ora si gioca solo tra loro due, che colpiscono la palla, mentre i loro dialoghi si fanno sempre più serrati finché la parola scompare per fare posto alla verità.

12 baci sulla bocca, (2009), legato a Le regole del giuoco del tennis dal tema dell’omosessualità, mette in scena l’amore clandestino tra Massimo ed Emilio, un ragazzo che lavora nel ristorante di Antonio, fratello di Massimo. Emilio viene assunto in un momento delicato, proprio quando Antonio è indaffarato con i preparativi del matrimonio del fratello. Sconvolge così un apparente ordine famigliare, suscitando la rabbia di Antonio, che risponde con la violenza. L’occhio fotografico di Gelardi, dopo essersi dapprima posato sull’interno di una casa di Napoli, per poi allargarsi su un campo da tennis e poi nell’interno di un ristorante, si restringe di nuovo in una dimensione più intima, come quella di Limoni: una Chiesa. È qui che viene ambientata La terza comunione: storia di una bambina che per ben tre volte non riesce a deglutire l’ostia, rischiando così di dover rinunciare al sacramento. Ma le vere protagoniste sono tre donne, Mary, Eva e Ida, che commentano l’accaduto, a cui attribuiscono le ragioni più strane. Tra loro, è soprattutto Eva a pensar male: «Io volevo solo dire che si vede che nostro Signore non voleva entrare in quel corpo». A questa malignità viene data una bella lezione in un finale inaspettato.

Foto di Carmine Luino

Alle scene quotidiane che incontriamo nei primi quattro testi, segue lo sfondo politico di Brucia l’Europa (2017) e Quattro uomini chiusi in una stanza (2019). Il primo è un lavoro corale, scritto insieme a Alessandro Palladino e Davide Pascarella, che nasce dall’incontro con i giovani allievi di drammaturgia del Nuovo Teatro Sanità, al cui centro vi è il tema del terrorismo. Si apre così: «La domanda è, come si sconfigge il terrorismo? È chiaro che il terrorismo non può essere sconfitto con le armi, perché si nutre proprio dei metodi che l’Occidente usa per cercare di annientarlo». A questo interrogativo segue un insieme di fotografie legate al ricordo di diversi attentati, da quello avvenuto nella metropolitana di Bruxelles fino al caso Breivik. Se Brucia l’Europa vede protagonisti numerosi personaggi, in Quattro uomini chiusi in una stanza il dramma è interamente affidato a quattro attori, poliziotti responsabili di un pestaggio, che devono accordarsi sulla versione da dare al processo. Ispirato alle vicende di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e Carlo Giuliani, questo testo ha il potere e la forza di restituire, attraverso la parola, giustizia alle vittime. Questa sesta drammaturgia ha in comune con le altre che la precedono una precisa idea: rompere la scorza dell’apparenza e mostrare la sostanza della verità.