Il traditore di Alice Bertini

Da più di due mesi, nelle sale cinematografiche di tutta Italia è ancora in programmazione Il traditore, il nuovo film di Marco Bellocchio che narra le vicende di Tommaso Buscetta – primo pentito di Mafia – che, collaborando con i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – mise in ginocchio con le sue rivelazioni l’intero sistema mafioso di Cosa Nostra.
Su un argomento così spinoso, il regista riesce a eludere gli stereotipi più comuni, trattando le cronache mafiose con grande cura. Le più losche e cruente vicende vengono poste con estrema attenzione e consegnate allo spettatore con paradossale delicatezza. Nella fedeltà dei fatti e nella ricerca dei dettagli, la pellicola potrebbe essere quasi definita un docu-film, anche se in realtà il profilo interiore del protagonista la rendono molto più di un film documentario. Nessuna omissione, nessun dettaglio celato, nessuna data, nessun omicidio risparmiato: a nascondere gli aspetti apparentemente divulgativi ci pensa l’eccelsa arte cinematografica. Inquadrature eleganti, forse azzardando, addirittura “classiche”, nessuno sfarzo inutile produttivo né colpi di scena, una trama e una linearità evidenziate dallo scorrere, semplice, degli eventi. Lo stupore degli spettatori è risvegliato dal trucco di Lorenzo Tamburini, dai costumi di Daria Calvelli, dalla scenografia di Andrea Castorina, ma soprattutto dalle interpretazioni sorprendenti degli attori.
Nella parte di Tommaso Buscetta, Pierfrancesco Favino. Magistrale interpretazione. Le sfumature più sottili di un uomo pieno di contraddizioni e, proprio per questo, estremamente interessante. Un’esecuzione di stampo quasi teatrale quella di Favino, ricca di evidenti ricerche e di studi storico – artistici che rendono la sua versione di Buscetta più reale del reale, romantica.
Accanto a Favino, un Luigi Lo Cascio nei panni di Totuccio Contorno, il secondo pentito di Mafia. L’attore ci mostra la follia di un criminale che dà il meglio di sé durante l’interrogatorio al Maxiprocesso: un momento incredibile di cinema e un’interpretazione ficcante e incisiva.
È proprio la contaminazione continua tra cinema e teatro a rendere questo film avvincente, emozionante e di grande valore artistico. Si raccontano fatti di cronaca, eppure sempre con poesia, che invece spesse volte viene tralasciata in questo genere di operazioni cinematografiche.


Due ore e venticinque che passano in un batter d’occhio. Non c’è mai il rischio di annoiarsi, di sentire la “pesantezza” degli argomenti trattati, grazie ai dialoghi ben costruiti, alla forte suspense di alcuni passaggi, al continuo alternarsi, equilibrato, di momenti segnati da una forte malinconia.
Memorabili i dialoghi tra Tommaso Buscetta (Pierfrancesco Favino) e Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi) curati con una straordinaria sensibilità che mette a confronto due personalità opposte, due uomini profondamente diversi, che tuttavia a un certo punto saranno in grado di capirsi e di collaborare sinceramente pur non rinnegando mai i loro rispettivi valori.
Il Maxiprocesso, che durò dal 1986 al 1992 nei suoi diversi gradi di giudizio e nelle derivazioni successive, è riprodotto davvero magistralmente: fedele all’originale, esso non manca di un percepito e subliminale alone felliniano con i suoi protagonisti “patetici” e clownistici. I mafiosi dietro le sbarre, i loro insulti, la loro volgarità morale diventano “paradossi”, “maschere” esagerate, sebbene estremamente credibili.
Da fiato sospeso il confronto tra Buscetta e Pippo Calò. Uno dei momenti più profondi del film. Riprodotto anch’esso in modo fedele, lascia spazio alle interpretazioni di Favino e di Fabrizio Ferracane (Pippo Calò). Quindici minuti intensissimi, per i dialoghi incredibili, per gli scambi di parole e di sguardi, per il malcelato e voluto “divertimento” che si percepisce nascosto sotto l’interpretazione dei due attori che, con grande capacità, indossano i panni di due tra le più malate ed istrioniche personalità della criminalità organizzata.
Un Buscetta uomo, padre e marito. Tenero a tratti. A mitigare il rischio di generare nello spettatore un interiore ed inconsapevole mito positivo del criminale aiuta poi il finale, che ci mostra come quest’uomo – ad un certo punto della sua vita quasi idolatrato o percepito come un uomo onesto, al punto di aver instaurato nel tempo un rapporto personale con molti uomini di stato – non fosse affatto un santo, bensì, un efferato criminale, sebbene avesse contribuito a mettere in ginocchio la Mafia.
Un film di realtà. Una realtà che non ha bisogno di essere spettacolarizzata essendo, essa stessa, difficilmente immaginabile. Teatro, cinema e interpretazioni contribuiscono ad un mixaggio perfetto. Il traditore è un lavoro calibrato, senza presunzione e con tocchi raffinati. La predominanza dei colori scuri, il grigio del cemento, è uno degli elementi preferiti dalla Mafia per uccidere: non è mai mostrato, ma sempre evocato con i colori che si accompagnano alle musiche di Nicola Piovani, con poetico romanticismo. Quello di Bellocchio non è, insomma, un film sulla criminalità. È un film che sarà consegnato alla Storia.