Il teatro, un atto di esistenza e di resistenza Intervista ad Andrea Cosentino di Renata Savo

Foto di Tommaso Abbalesciani

Quindici anni di carriera di uno dei più intelligenti, umoristici e anticonvenzionali autori e attori comici italiani, Andrea Cosentino, sintetizzati in quattro giorni di programmazione, dal 31 marzo al 3 aprile, sul palco del TeatroBasilica a Roma. Una vera e propria maratona: la Maratona Cosentino. Dopo Telemomò (31 marzo), spettacolo esilarante che prende di mira un certo tipo di televisione, e Primi passi sulla luna (1 aprile), capolavoro divertente e malinconico, storico e antistorico, critico e autocritico, seguono Not here not now (2 aprile), anti-apologia di una forma d’arte, la performance art, portata a un successo mai visto prima da Marina Abramović, di cui mette in scena una colossale parodia, e Kotekino Riff (3 aprile), che, nelle parole del suo autore, è «un coito caotico di sketch interrotti, una roulette russa di gag sull’idiozia, un fluire sincopato di danze scomposte, monologhi surreali e musica». Abbiamo colto l’occasione di questa “maratona” per fare qualche domanda ad Andrea Cosentino, provando a scandagliare il suo teatro attraverso la sua caleidoscopica personalità.

Con la Maratona Cosentino al TeatroBasilica si celebrano quindici anni di carriera: perché sembrano molti di più, da quando parte il conto? 

Sì, la mia carriera è un po’ più lunga, infatti in questa Maratona sono rimasti fuori alcuni spettacoli con i quali sono “emerso” a suo tempo, come L’asino albino o Angelica. Gli spettacoli della Maratona sono quelli degli ultimi quindici anni e, soprattutto, sono quelli che ho ancora in repertorio. Non è una vera retrospettiva, che solitamente è la commemorazione del “defunto”, in cui si fanno “resuscitare” le opere, ma sono spettacoli che continuano a girare, alcuni di più altri meno. Telemomò e Primi passi sulla luna sono i più vecchi, eppure girano ancora tantissimo. Per me più che una retrospettiva o un modo per autocelebrarmi in maniera implausibile, se vogliamo dare un significato a questa piccola manifestazione, è un modo per protestare, contro un teatro costretto dai meccanismi ministeriali a produrre in continuazione spettacoli che nascono e muoiono nel giro di tre mesi. Sono in qualche modo orgoglioso di avere il mio repertorio che, più o meno faticosamente e felicemente, continua a girare l’Italia da quindici anni. Per tornare alla domanda, quindi, non sono quindici anni di teatro: magari lo fossero, vorrebbe dire che a quest’ora avrei 35 anni.

Ancora oggi si fa appello ad Andrea Cosentino con le seguenti parole: «attore, autore, comico e studioso di teatro». Credo che molte più persone si iscriverebbero al DAMS se tra i docenti ci fossero anche dei comici, come te. In che direzione si è lanciato questo aspetto della tua personalità, quello di studioso? In che direzione si è sviluppata la tua ricerca accademica? 

Mi occupavo nella fattispecie, a livello teorico, di improvvisazione, di maschere, di teatro comico. La definizione di studioso ha a che fare con un tentativo di essere consapevole delle cose che porto in scena, per essere responsabile a livello poetico ed etico-politico del modo in cui abito la scena; è più un retaggio degli anni successivi alla mia laurea. Parliamo del periodo intorno alla metà dei Novanta, per tre o quattro anni insegnavo all’Università La Sapienza da collaboratore, in particolare del Prof. Roberto Ciancarelli. Anche successivamente mi è capitato di pubblicare degli interventi all’interno di alcuni volumi, ma sono diventati sempre meno astrattamente teorici e sempre più collegati, in qualche modo, al teatro come stile di vita e come forma di comunicazione sociale.

Foto di Lucia Baldini

La prima volta che ho visto Telemomò era il 2011. Lo spettacolo tenta di spiegare il medium televisivo destrutturandolo e facendone una parodia intelligente. In dieci anni nuovi media sono sorti e sono entrati inevitabilmente a far parte del nostro vissuto quotidiano: WhatsApp, Zoom, e moltissimi altri ancora hanno implementato la loro incidenza. Hai sempre avuto un debole per questo approccio analitico verso i media, e me lo hai appena confermato. Un po’ come Samuel Beckett (che hai anche citato nella scheda artistica di Kotekino Riff). Angelica volge lo sguardo al cinema, Not here not now sbeffeggia la performance art, che è un altro strumento di comunicazione, anche se non di massa (anzi). Pensi che nelle tue indagini future ci sarà posto per le nuove forme di comunicazione degli ultimi anni oppure non ne sei attratto? 

Una domanda complessa merita una risposta complessa. Per quanto mi riguarda, tutto parte da un’idea di teatro. Il mio teatro è il tentativo di destrutturare i linguaggi egemoni della contemporaneità, che quando è nato Telemomò era la televisione. Erano infatti gli anni in cui imperversava Berlusconi nella politica italiana. Il teatro è per me l’atto di esistenza e di resistenza dello spettacolo dal vivo rispetto a forme di comunicazione che pretendono di raccontarti il reale. L’unico punto di forza reale del teatro è il fatto di essere vivo e di riunire una comunità viva; per dirla in altre parole, lo specifico del teatro non è tanto quello di essere un’arte che viene guardata, quanto di essere un’arte dove chi guarda è contemporaneamente guardato. Da qui il fatto che i miei spettacoli siano quasi sempre parzialmente improvvisati e aperti alla relazione con il pubblico, e da qui il fatto che sì, in qualche modo, abbiano a che fare con l’evoluzione dei media. Una riflessione giocosa come Kotekino Riff è la mia risposta, sotto certi aspetti, ai mezzi di comunicazione del web, quelli che tu prima citavi. Nel suo “spezzettamento”, nella sua assurda follia, cerca di mimare e ri-raccontare, decostruire, una comunicazione come quella del web che è già di per sé una decostruzione totale, un carnevale di informazioni, vere, false, ecc… Diciamo che cerco di tenermi al passo coi tempi, ma non per un vezzo intellettuale, ma perché semplicemente in quel tempo ci vivo. E il teatro è sempre un’arte del presente. Non può, quindi, che parlare del presente.

Primi passi sulla luna è un capolavoro, molto “lunare”, non a caso: ha una doppia anima, comica e malinconica al tempo stesso. È anche molto legato al periodo della tua vita in cui lo hai composto. Com’è portarlo in scena dopo tanti anni dalla prima volta? Hai mai rimesso mano al testo? 

Credo che sia come dici, Primi passi sulla luna è il mio spettacolo più complesso a livello drammaturgico, ma al tempo stesso è uno spettacolo di cui non possiedo un testo. Nel senso che è uno spettacolo che nasceva programmaticamente attraverso delle improvvisazioni. Quindi sì, è cambiato negli anni, ma poi alla fine, ha assunto una forma che è abbastanza uguale a se stessa. Ed è vero, è nato legato a un momento specifico, ha un suo substrato biografico, come sempre accade nei miei spettacoli, ma in questo caso, come si usa dire, ce n’era una vera e propria “urgenza”. Paradossalmente, però, direi che è “invecchiato” peggio Telemomò, perché è legato a una televisione generalista che non esiste più. Primi passi sulla luna parte da un evento personale, ma costruisce tutt’ora un legame molto forte con gli spettatori. Non a caso, probabilmente, è lo spettacolo che replico di più. Quindi “nì”, è un po’ il mio classico, se posso definirlo così, e vedo che invecchia, o meglio che cresce, proprio come cresce mia figlia di cui si parla nello spettacolo. Lo ha visto per la prima volta quando aveva quattro anni. Ora ne ha sedici e continua a essere piuttosto orgogliosa di avere questa testimonianza strana e buffa della sua infanzia.