Il linguaggio che possiamo diventare di Enrico Piergiacomi

Foto di Luca del Pia

I festival teatrali non sono semplici vetrine dove esporre al “mercato” culturale gli spettacoli della scena contemporanea. Essi offrono spazi e tempi con l’agio di fermarsi a pensare sulla teoria e la prassi del teatro che artisti, critici, organizzatori elaborano col loro lavoro. Un luogo e una data confortevoli sono stati offerti dal Kilowatt Festival 2019 da Lucia Franchi e Luca Ricci, con l’incontro Il linguaggio che siamo diventati. L’iniziativa ha previsto tre sessioni di discussione intorno a tre temi fondamentali (Dialogo interconnesso, Precarietà e comunità, Questioni di genere) che trovano un filo conduttore nell’auto-rappresentazione linguistica. Il linguaggio viene presentato, infatti, come il grande mediatore tra i soggetti dialoganti che entrano in relazioni comunicative.
L’incontro pubblico – come legge Lucia Franchi nella sua relazione introduttiva – nasce in realtà da un «fallimento». Ciascuno dei temi delle sessioni è stato ispirato da tre accuse mosse alla direzione artistica di Kilowatt, che lanciò una call per alcune danzatrici da coinvolgere, a titolo gratuito, nello spettacolo di apertura del festival di Romeo Castellucci, poi ritirato dallo stesso artista: (A) uso di un linguaggio povero e irrispettoso; (B) scelta di una politica di sfruttamento dei lavoratori dello spettacolo; (C) sessismo e maschilismo. Il linguaggio che siamo diventati costituirebbe così una reazione costruttiva a queste critiche e l’occasione per riflettere meglio su temi che la vicenda ha messo in rilievo. Questo articolo intende riassumere i contenuti delle tre sessioni e il loro portato positivo.
La prima delle tre sessioni (Cadere nella rete, coordinata da Laura Gemini) ha visto la partecipazione di tre relatori (Bruno Mastroianni, Vera Gheno, Antonio Pavolini), esperti di comunicazione social e del linguaggio che adottiamo su internet. I concetti principali emersi coinvolgono la natura della comunicazione in senso lato, che non è buona né cattiva in sé, bensì ambivalente. Il linguaggio può tanto aprire nuovi mondi, quanto complicare o persino distruggere le relazioni: è un “puro neutro” capace indifferentemente di spalancare paradisi e bassezze. Il punto emerge nell’intervento di Mastroianni, che ricorda, oltre al noto incipit del vangelo di Giovanni («In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio»), anche il cap. 3.10 dell’epistola di Giacomo: «Dalla stessa bocca escono benedizione e maledizione». La rete che ospita un brulicare di opinioni a volte poco argomentate non avrebbe allora introdotto una “barbarizzazione” o disumanizzazione della comunicazione. Avrebbe amplificato l’ambivalenza insita nel linguaggio stesso. Ogni atto comunicativo è reso dalla rete pubblico, criticabile da tutti e ovunque, incontrollabile, decontestualizzabile e permanente – poiché la rete può conservare per anni le affermazioni scritte o pronunciate. Posto allora che la comunicazione porta sia il bene che il male, lo scopo di una relazione comunicativa felice consisterebbe non tanto nella ricerca del consenso, resa impossibile proprio dell’ambivalenza del linguaggio. Lo scopo è semmai calarsi nelle prospettive altrui e costruire relazioni comunicative che tengano conto delle differenze. La comprensione dell’ambivalenza della parola dovrebbe così indurre a un’assunzione di responsabilità nell’uso del linguaggio collettivo e a pensare l’inevitabile dissenso come qualcosa che è di per sé costruttivo. Dissentire significa affinare la nostra comprensione e la nostra sensibilità verso i problemi di cui si parla.
La seconda sessione (Precarie prove di comunità) è stata l’unica che ha discusso in modo diretto del teatro. Il coordinatore Sergio Lo Gatto e Laura Gemini hanno isolato, nelle loro introduzioni, le parole che legano gli operatori del sistema teatrale italiano in rapporti di precarietà strutturale. Il primo ha sottolineato l’importanza del termine «performatività», che nel senso più neutrale o “ingegneristico” del termine indica una qualunque dinamica relazionale che ha un inizio, uno sviluppo, una fine e dove tutti i soggetti coinvolti si posizionano intorno a un dato intervento. Nel corso di uno spettacolo, ad esempio, gli attori contribuiscono all’evento “performativo” costruendo un percorso di parole e azioni, mentre gli spettatori si mettono in ascolto attivo e riflettono sull’oggetto della rappresentazione. Gemini insiste invece sul termine «comunità» – grande contenitore semantico che indica un gruppo di persone legate dalla condivisione di regole, logiche, valori, forme di consenso che le inducono ad accettare determinate condizioni di trattamento lavorativo. Dal dibattito che ne è seguito, è emerso con evidenza il seguente punto. La comunità è il risultato di un rapporto di performatività, dove molti membri accettano di posizionarsi verso il precario sistema teatrale in modo da mantenerlo. Ne segue una conclusione non lontana da quella già raggiunta nella prima sessione. Se nel sistema italiano la crisi o la precarietà è diventata sistemica, lo scopo della comunità del teatro consisterebbe nel rendersi conto che i loro comportamenti mantengono lo status quo e, dunque, che possono instaurare dinamiche relazionali alternative che mettono in discussione l’apparato teatrale. La società della performance è solo uno degli scenari possibili, perché siamo sempre in tempo ad attuare idee e proposte di carattere trasformativo dell’esistente.

Foto di Luca del Pia

La terza e ultima sessione (Rinnovare l’immaginario: genere e linguaggio, coordinato da Maddalena Giovannelli) ha sottolineato che le parole oggi imperanti sviliscono sia donne che uomini, legittimando come naturali, scontati, inevitabili comportamenti e ruoli che sono frutto di una costruzione sociale violenta. Gli interventi di Graziella Priulla ed Elisa Virgili hanno argomentato, in particolare, quanto sia erronea la confusione di “natura” e “cultura”, che sancisce che il sesso femminile sia meno intelligente e forte del maschile, o che il sesso maschile esprima la sua virilità esclusivamente con il dominio e la sopraffazione dell’altro. Lo studio del comportamento infantile e numerose evidenze empiriche dimostrano, al contrario, che non ci sono differenze cognitive marcate tra uomini e donne, sicché il presunto divario dipenderebbe dal pregiudizio e dall’ignoranza. Come da titolo della sessione, si dichiara così la necessità di lavorare a fondo sul linguaggio per “rinnovare” questo falso immaginario. Se ci si rende conto che è per un’immagine sociale che si pensa alla donna debole/sciocca di natura e all’uomo dominatore di natura, diventa possibile modificare lo stato di cose e abbattere il rigido modello binario, avendo una visione più complessa della sessualità e delle capacità umane.
Possiamo concludere che tutti i relatori tornano in modo diverso a presentare due antidoti al caos linguistico e sociale in cui ci troviamo immersi. Da un lato, occorre diffondere una maggiore educazione della parola, sia dentro che fuori dalla rete. Dall’altro lato, bisogna rendersi conto che le parole che usiamo non sono innocue, perché costruiscono o mantengono relazioni di potere tra parlanti. Chi parla si assume enormi responsabilità, in quanto può sia rinvigorire ideologie o pregiudizi, sia emancipare da tutto questo, ossia aprire a una maggiore giustizia sociale e a livelli più alti di libertà espressiva/cognitiva. Il linguaggio che siamo diventati evidenzia, in sintesi, il potenziale trasformativo della parola e della comunicazione depurate dai loro elementi negativi. Noi siamo le parole che usiamo, e assumerci l’impegno a trovarne di superiori, di più efficaci, di meno violente è un’attività che deve tenere impegnate la nostra generazione e quelle a venire.
La proposta teorico-pratica che emerge dall’incontro è senz’altro importante e ispirata a un’etica della responsabilità che non si può non condividere. L’unica nota di dissenso riguarda dunque una questione di accento. Il titolo Il linguaggio che siamo diventati ha messo al centro la realtà presente, dunque la diagnosi dei processi che ci hanno condotto ai mali attuali. In altri termini, l’incontro ha insistito più sulla descrizione dell’esistente che sulle azioni che bisognerebbe adottare per raggiungere la trasformazione futura. Il contesto di Kilowatt mostra, tuttavia, che uno dei medium più promettenti potrebbe essere proprio il teatro. Il linguaggio teatrale è infatti un linguaggio poetico, che cerca di pensare, immaginare e costruire una lingua, una società, un’umanità più belle, libere, vive, autentiche rispetto a quelle che conosciamo. Si tratta di un’arte che crea visioni che orientano l’oggi verso un domani migliore. L’analisi dell’esistente compiuta durante l’incontro è allora solo il primo passo di un’indagine più ampia. Il tema del linguaggio che «siamo diventati» deve essere approfondito per giungere a un’ipotesi del linguaggio che «possiamo diventare».
Nanni Moretti pronunciò in Palombella Rossa la sua battuta divenuta giustamente famosa: «chi parla male, pensa male e vive male, bisogna trovare le parole giuste». Si tratta di una formula che, nondimeno, va superata per cercare di andare ancora più oltre. Non sono solo le parole “giuste” che occorre cercare. Si ha bisogno anche di trovarne di belle e di vive. Chi parla in modo brutto/morto pensa e vive in modo orrendo/mortale, vale a dire si nega in partenza la bellezza e la vitalità superiori che forse dovremmo cominciare a pretendere.

Il linguaggio che siamo diventati, Kilowatt Festival, Biblioteca Comunale, Sansepolcro, Arezzo, 20 luglio 2019.