In occasione della recente scomparsa del grande scrittore statunitense Philip Roth, ho voluto rileggere, dopo molti anni, uno dei suoi capolavori, Lamento di Portnoy (Portnoy’s Complaint, New York 1969), in traduzione italiana rinnovata, di Roberto C. Sonaglia, grazie all’edizione voluta dalla Rizzoli proprio quest’anno. Cambiando il tempo della lettura, intendo il tempo di vita del lettore, con tutte le esperienze intraprese, credo di poter considerare il testo di Roth anche da un punto di vista senz’altro legato alla teatralità.
Come sopra afferma il titolo possiamo parlare di questa opera come di “teatro in forma di libro”, e aggiungo, libro naturalmente narrativo-letterario. Essendo convinto che nella interpretazione delle opere letterarie, e artistiche in generale, non si deve ridurre il “testo” a pretesto, mi sembra davvero di aver intuito un’intrinseca e connaturale ispirazione teatrale implicita nel testo di Roth.
L’autore ha inserito nel titolo del suo scritto un termine che si riferisce senza dubbio anche a una forma di genere, presente lungo diversi secoli nelle tradizioni occidentali, quello di complaint. Una forma che è stata espressa sia in versi, specie nel Medioevo, su temi amorosi, e sia in prosa, con intenti di ricostruzione storica e biografica, anche semiseria, in secoli più vicini a noi. La parola la possiamo tradurre come “lamento”, (anche antico Lai provenzale, che ci ricorda sia Dante, sia, all’oggi, un drammaturgo come Testori), pianto, compianto: in ogni caso impegna una voce poetica o narrante che vuol tirar fuori il suo dolore, la sua sofferenza, il suo destino gonfio di crudeltà, e così via: insomma l’io scrivente si mostra da subito come protagonista di quanto va esprimendo, di fatto, dunque, come un teatral monologante!
Non vi è nel testo di Roth alcun elemento formale di marca che si riferisca alla forma drammaturgica per finalità teatrali, ma comunque il protagonista, Alex Portnoy, parla al suo psicanalista, che tra l’altro come personaggio appare solo nelle ultimissime pagine del romanzo, che è appunto di fatto un lungo monologo.
Alex, inoltre, parla anche per gli altri personaggi, impersonandoli, di certo, nei racconti che riversa sull’analista. Precorrendo di poco scelte postmoderniste, il nostro ha saputo transferire una forma di genere letterario canonico e tradizionale, in una veste monologale (implicitamente dialogale) tipica del parlato americano quotidiano, contestualizzato situazionalmente in un rapporto fra analista e paziente, tipico del setting psicoterapeutico.
Il <<lamento>>, scrive l’autore in una sorte di breve prefazione, con sensibilità novecentesca, è un <<disturbo>> che rivela il conflitto tra impulsi fortemente etici e una <<violenta tensione sessuale, spesso di natura perversa>>. Da ciò, afferma, un conseguente senso di colpa con fantasie espiatorie di castrazione. Il tutto conseguenza di un rapporto conflittuale tra madre e figlio: una madre soverchiante, dominante, ansiogena, affiancata da un padre tutto d’un pezzo e legato ad un modello paternalistico tutto interno alla tradizione ebraica più ortodossa, nonostante la sua capacità di integrarsi nel contesto della vita e del costume statunitensi, dai quali l’autore prende comunque le distanze, come ben sappiamo.
La cura del disturbo, ovviamente, consiste per la “persona” Philip Roth nel narrare il suo compianto rivolgendosi ai lettori.
Dunque siamo in presenza di una struttura fortemente monodrammatica, in quanto la voce narrante è anche fortemente monologante e mimeticamente ripetente le parole degli altri personaggi: spesso descritti, quest’ultimi, come nelle didascalie che leggeremmo in un testo drammatico.
Le stesse “descrizioni”, anche di ambienti, specie quelli di “interni”, in cui il protagonista Alex narra i suoi incontri sessuali, come pure quelli autoerotici, si presentano spesso asciutte, per scorci sintetici, vicine al décor tipico della scena teatrale.
La struttura generale diegetica (e implicitamente, ripeto, mimetica) è semplice, e, nei suoi sette capitoli (in realtà dovrei dire sei, essendo l’ultimo un “Clou”, in cui interviene il dottore, proponendo l’inizio del dialogo analitico), rispetta la dinamica tipica di un tradizionale testo teatrale, con una fase preparatoria, poi con l’esplosione dei conflitti, infine con una sorta di breve ma intensa catarsi (un lunghissimo urlo, o forse una risata grottesca e ironica e autoironica?), dopo la quale, appunto, si ricomincia, come propone il dottore analista.
Quanto ho fin qui scritto ha una semplice finalità: spingere un qualche autore, bravo, attento, appassionato, a confezionare un copione per attore solo, portando così sulla scena un testo letterario di grande impatto, attuale, vitalissimo, tra i capolavori della letteratura nordamericana e, se vogliamo, mondiale del Secondo (e Terzo) Novecento. Sono certo che sulla scena è possibile creare attrazioni sullo spettatore grazie anche alla verve ironica dell’autore primario, al suo passare da registro a registro: dall’umoristico all’ironico, dal patetico al satirico, dall’humour noir, all’intimistico, da un elegiaco molto smorzato fino al sentimentalismo più vuoto. Comunque un’impresa non facile: qualcuno ci provi! Me lo auguro davvero!
Philip Roth, Lamento di Portnoy, Einaudi, Torino, 2005, pp. 219, euro 8,60.