I sogni umani e la loro voce in programma alla Biennale Son Intervista a Eva Frapiccini di Laura Novelli

Foto di Amedeo Benestante

Terza tappa di un complesso progetto avviato dodici anni fa, l’installazione sonora interattiva Dreamscape che l’artista Eva Frapiccini presenterà in Svizzera, alla prima edizione della Biennale Son, dopo le fortunate esposizioni di Torino, Napoli e Genova, potrebbe essere definita come un “incontro”. Un viaggio acustisco ed emotivo in cui il corpo di chi ascolta intercetta, attraverso dispositivi studiati ad hoc, la voce di alcune persone sconosciute – e spesso geograficamente lontane – intente a raccontare un proprio sogno. Un incontro, dunque, di umanità diverse accomunate però da visioni, paure, speranze, tremori che sembrano disegnare i contorni di un inconscio collettivo in cui tutti possiamo riconoscerci. Dopo Dreams’ Time Capsule, il progetto di registrazione di ben 2300 sogni archiviati tra il 2011 e il 2022 in svariati Paesi del mondo, e dopo il successivo Dust of Dreams, rielaborazione performativa della ricca materia onirica raccolta, l‘estro creativo di Frapiccini (tra le più apprezzate artiste contemporanee italiane, ha esposto in vari musei internazionali e alcuni suoi lavori sono conservati in prestigiose collezioni permanenti quali il Castello di Rivoli Museo di Arte Contemporanea, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, il MAXXI di Roma) approda dunque ad un’opera che stimola le reazioni percettive del pubblico e che attiva una sorta di azione in presenza, in base alla quale è proprio la fisicità del fruitore a rendere possibile – e interessante – l’impatto con l’universo sonoro di cui egli si appropria.

Possiamo dire che alla base di Dreamscape ci sia, per semplificare, quel senso di appartenenza all’Umano che, ieri come oggi, qui come altrove, accomuna individui e popoli e dal quale trasuda un nocciolo fortemente teatrale?

Direi di sì. Infatti, parliamo di una vera e propria drammaturgia. Il progetto nasce perché nella performance Dust of Dreams (su musiche di Sara Berts e coreografie di Daniele Ninarello, ndr) c’era una visione di schermi, foto, corpi danzanti che creavano una visualizzazione dei sogni ma non un contatto diretto con essi. Così ho ideato Dreamscape dove le persone incontrano proprio la vocalità dei sogni archiviati precedentemente: le pause, i sospiri, la materia viva che li animano. Anche qui, inoltre, il corpo svolge un ruolo importante in quanto l’archivio dei sogni viene attivato dal pubblico attraverso dei sensori di movimento. Dunque, ogni esperienza percettiva può essere differente dall’altra.

Foto di Eva Frapiccini

Come avviene, all’interno dell’installazione, tale contatto sensoriale?

Ho pensato di posizionare sei stazioni audio con uno speaker all’interno e una parabola che dirige il suono. Ognuna di queste sei unità è diversa perché, dopo aver archiviato i 2300 sogni, li abbiamo trascritti con l’aiuto di un data analyst e, grazie ad uno specifico software, abbiamo rintracciato le parole ricorrenti. Tra queste sicuramente le più presenti sono: nave, barca, acqua, venti, volare, cadere. Ogni postazione concentra sogni che trattano uno di questi temi: chi prenderà la postazione del volare, sentirà tutti sogni legati all’immagine del volo e della caduta, ovviamente in lingue e dialetti diversi. In pratica l’installazione è studiata per cercare di trovare l’anello di congiunzione tra le persone.

Il suono vi agisce dunque come dimensione percettiva e insieme contemplativa?

Il suono è una dimensione che travalica i confini, che si presta a sperimentazioni in svariati campi. Il mio progetto (prodotto da AlbumArte e curato da Paola Ugolini) si prefigge essenzialmente due obiettivi. Innanzitutto, valorizzare la fisicità nella sua valenza “politica”: nell’era del digitale, il solo fatto di “essere qui” rappresenta già di per sé un’esperienza. Non vedere nulla ma concentrarsi sul sentire e calibrare il proprio sentire con il proprio movimento credo sia, per lo spettatore, un’occasione di incontro non solo con i sogni e la loro voce ma con se stessi. Non a caso, un altro aspetto che mi interessa indagare con Dreamscape è proprio l’assenza di immagini. Rispetto alla performance Dust of Dreams, l’immagine qui non c’è e tale mancanza si acutizza nell’oscurità dell’installazione. In tal modo ci si concentra sull’audio e sulla drammaturgia sonora composta da Sara Berts, una musicista che ha lavorato molto in Amazzonia dove ha registrato suoni di ogni genere.

Eppure, lei insegna proprio Fotografia all’Accademia di Brera. Come entrano in relazione il suo percorso di ricerca artistica e la sua docenza?  

Io nasco proprio come fotografa e ho tenuto varie mostre fotografiche in passato su temi politici e sociali come, ad esempio, il terrorismo o il movimento antimafia (www.evafrapiccini.it). Dalla fotografia mi sono tuttavia spostata subito verso la videoarte, la performance e i progetti installativi. Credo infatti che l’immagine bidimensionale della fotografia, intesa sic et simpliciter, abbia delle problematicità in termini di engagement del pubblico. All’inizio parlavo di teatro, di drammaturgia. Ecco: in Dreams’ Time Capsule gli spettatori entravano in una specie di tenda indiana per registrare il loro sogno, dovevano compiere un atto, un’azione, un rito: la fisicità diventava pensiero. Non è stato sempre semplice ma sono molto soddisfatta dei risultati perché con questo progetto “crisalide” cerco proprio di superare la fotografia (che pur resta un’arte importantissima), di definire dei veri e propri spazi di interazione tra gli attori e i fruitori dell’opera.

Foto di Silvia Aresca

 

Cosa le ha ispirato originariamente questo progetto che lei ben definisce “crisalide”?
Ricordo che la prima suggestione la ebbi pensando alla profezia della fine del mondo dei Maya. Era appunto il 2011. Certamente poi il lavoro ha assunto declinazioni più complesse. Ma il punto di partenza è stato quello. Ho iniziato a chiedermi cosa avrebbe trovato degli uomini un alieno che fosse arrivato sul nostro pianeta dopo la sua distruzione; cosa avrebbe capito realmente di noi, delle nostre paure. Così mi è venuta in mente l’idea di raccogliere i sogni della gente in Paesi e continenti diversi. Semplicemente perché nei sogni c’è l’Uomo. L’ho fatto per più di dieci anni incontrando tutti i “sognatori” coinvolti. E il filo della comunicazione con loro non si è fermato al momento del racconto perché di solito rimando indietro i sogni ai loro protagonisti. Credo sia bello ascoltarsi dopo anni. È un modo per conoscersi meglio. Inoltre, ciò sposa bene la prospettiva di tempo proiettata verso il futuro che sorregge Dreams’ Time Capsule.

Quale approccio interpretativo ha adottato rispetto al ricco materiale onirico raccolto?

Certamente non mi interessava un approccio freudiano. Non era intento mio né dei miei collaboratori fare una raccolta di sogni per analizzarli psicanaliticamente. Innanzitutto, perché questo tipo di analisi richiede una relazione uno ad uno e poi perché i miei interessi sono essenzialmente sociali, antropologici. Dunque, posso dire di aver avuto un approccio junghiano, con uno sguardo trasversale tra culture diverse. Questo mi interessa molto. La domanda che mi sono posta è: esiste un inconscio collettivo? Alla luce di quanto emerso da Dreams’ Time Capsule, la risposta non potrebbe che essere affermativa. Ovviamente i sogni dipendono molto dal periodo in cui sono stati registrati, dal contesto storico che fa da sfondo alle vite dei “sognatori”, dal clima in cui essi vivono. La natura è sempre presente come sfondo, una natura ancestrale, fatta di elementi semplici, iconizzata: ruscelli, mare, spiaggia. Gli scandinavi, ad esempio, sognano molto spesso elementi come il ghiaccio, l’acqua ghiacciata. C’è poi da dire che noi siamo abituati ad adottare chiavi di lettura occidentali, anzi europee, su ogni fenomeno, sogni compresi. In realtà nel mondo esistono culture che presentano canali di approccio al sogno molto diversi dai nostri. Durante i lunghi anni del progetto di registrazione, ho lavorato sempre con accademici originari del luogo in cui andavo a raccogliere i sogni. Grazie a questi collaboratori ho potuto capire come posizionare lo sguardo, come entrare nella mentalità, nel folklore, nella cultura del posto. Al Cairo, per fare ancora un esempio, c’è una massiccia presenza di popolazione Sufi per la quale i sogni vanno interpretati come segnali connessi alla vita. Viceversa, in alcuni Paesi del Medio Oriente i sogni vengono soppressi e vengono visti come un tabù perché possono essere sovversivi rispetto al Corano.

Quanto le vicende storiche, i cambiamenti politici, le sciagure mondiali (pensiamo solo al Covid) trovano riverbero nei sogni che lei ha raccolto?

Come ho detto prima, il mio lavoro di archiviazione è iniziato nel 2011 ed è terminato nel 2022. Anni incredibilmente fitti di cambiamenti epocali. Già prima del Covid c’era stata, ad esempio, tutta l’ondata rivoluzionaria della Primavera araba, che ha provocato un forte ribaltamento delle certezze pregresse nell’intera area interessata dal fenomeno. E in seguito la Brexit. Mi trovavo in Inghilterra in quel periodo e ho vissuto tutta la campagna politica che ha portato a quella decisione. Un decennio, poi, in cui gli USA sono stati sempre meno presenti nello scenario internazionale e in cui si è verificata una progressiva chiusura dei singoli stati su stessi. Dopo la grande apertura cui avevamo assistito nei primi anni del terzo millennio, dopo la globalizzazione e il livellamento dei confini, abbiamo vissuto una vera e propria inversione di tendenza, che a sua volta il Covid ha solo accentuato e nella quale ci troviamo tuttora.

Un’ultima domanda: quali impegni professionali la aspettano nell’imminente futuro?

Innanzitutto, mi onora davvero molto essere presente con Dreamscape alla Biennale Son svizzera che si aprirà il 16 settembre. Ci sono grandi nomi della sperimentazione sul suono, da musicisti di fama internazionale a videoartisti altrettanto noti, e ciò mi rende molto felice. Poi spero di poter promuovere ancora la circuitazione del mio progetto, che nasce per essere itinerante. Si tratta infatti di tre momenti concepiti tutti in modo molto agile che si adattano a spazi molto diversi. Ci tengo a dirlo perché il fine ultimo dell’intera operazione è incontrare persone e accrescere sempre di più questa possibilità di incontro. Anche Dust of Dreams (che sarà nel cartellone di Torino Danza ad ottobre) è una performance adattabile a luoghi diversi, anche molto piccoli. Tuttavia, attualmente le mie energie maggiori sono impegnate nella cura del volume che la casa editrice Bruno, di Venezia, pubblicherà a breve sull’intero progetto. Un impegno per me notevole ma bellissimo, di cui non posso che essere estremamente felice.

Biennale Son, prima edizione, Valais, Svizzera, dal 16 settembre al 12 novembre 2023.

Per tutte le info: www.biennaleson.ch; www.dreamsarchive.eu