Ginesio Fest 2025: l’arte dell’attore tra premio e scena di Alessandra Bernocco

Foto di Ester Rieti

Dalla solitudine al furore, dal monologo come auspicata risorsa post pandemica all’ensemble. Se l’edizione 2024 del Ginesio Fest era incentrata sul tema della solitudine e trovava nella performance da attore solista la sua congrua espressione, questa recente, avviata il 20 agosto e conclusasi il 25 con il Premio all’Arte dell’Attore consegnato a Mariangela Granelli e Davide Enia, vede invece il succedersi, con poche eccezioni, (forse soltanto due), di spettacoli corali, che non significa innanzitutto compagnie numerose, ma lavori nati e pensati senza protagonisti (e protagonismi).

Lavori dove il collettivo è il tratto distintivo, prevalentemente declinato al femminile. Che si tratti di linee guida o di esiti collaterali di una scelta artistica pura, la presenza femminile è risultata preponderante.
Sia per quanto riguarda il cast dei singoli spettacoli, sia lo staff organizzativo, reclutato in larga parte sul territorio. D’altra parte, la mente ideatrice di questo festival che da sei anni anima gli ultimi scampoli di estate di San Ginesio, borgo marchigiano di tremila abitanti, è una ginesina fortemente legata alla sua terra, Isabella Parrucci, ben intesa a fare di quella che è un’occasione culturale sporadica, una costante sempre più radicata e interlocutoria con la comunità. Insomma, un’operatrice persuasa che con la cultura si possa persino mangiare. Grazie.

Tant’è che al Ginesio Fest sta guardando con interesse la Fondazione Piemonte dal Vivo con cui, a partire da questa sesta edizione, è stata avviata una sinergia annunciata nei dettagli in un focus dedicato.
Ma tutto è cominciato quattro anni fa quando Parrucci andò a Torino, di sua iniziativa, a prendersi il direttore in carica, Leonardo Lidi, regista e direttore della Scuola del Teatro Stabile.
Bene, Lidi è alla guida del Ginesio Fest da quattro edizioni e da buon direttore di allievi attori, ha dedicato alla formazione, nel suo farsi e nei suoi risultati, una parte importante del festival.
Non solo debutti o spettacoli rodati, ma laboratori, residenze, occasioni di rappresentare di fronte al pubblico, studi di progetti ancora embrionali.

Foto di Ester Rieti

Come i lavori portati in scena dagli allievi del primo anno della scuola del Teatro Stabile, da lui diretti, ispirati a due film di Rainer Werner Fassbinder (Katzelmacher e Un anno con tredici lune), scelti come leva per inoltrarsi nella dissoluzione del nostro tempo presente. Diciotto allievi distribuiti nelle due differenti performance che hanno mostrato di possedere una buona familiarizzazione con lo spazio scenico e una sorvegliata gestione delle relazioni. (Forse non dovrei ma mi fa piacere segnalare la timbrica vocale di una minuta biondina nel secondo studio, che già vedrei spuntare dalla montagna di terra che ben conosciamo, con tanto di ombrellino).

Foto di Ester Rieti

Un primo momento di verifica, grazie anche a un pubblico disparato per età, lo ha trovato il Primo Studio su Io uccido i giganti, con Greta Petronillo, anche regista e autrice dell’adattamento, insieme a Diego Pleuteri, del testo di Joe Kelly e J.M. Ken Niimura, pubblicato in Italia da BAO Publishing. Si tratta di uno studio preparatorio rivolto (anche) a bambini e adolescenti reso con indubbia perizia recitativa ma che forse necessita di una individuazione di target più specifica. Chi sono davvero i destinatari che devono sconfiggere i giganti e le loro paure, chi deve imparare a conviverci?

Foto di Ester Rieti

La residenza per attori guidata da Alessio Maria Romano, ricercatore di arti sceniche e pedagogo, per la seconda volta al festival, ha prodotto ISLAND 2 Il furore, una “restituzione” al pubblico che ha preso le mosse da un non vincolante riferimento al furore, in cui quattordici giovani performer hanno proposto una loro personale elaborazione del tema, confluita nella costruzione di una propria “casa” di cartone che racconta di scelte individuali, figure elette della poesia, della letteratura e dell’arte, di adesione alla storia e alla contemporaneità.

Entrando invece nel merito dei singoli spettacoli ai quali ho assistito, due, in particolare, mi sono rimasti nel cuore: Stuporosa e SdisOrè.

Foto di Ester Rieti

Il primo, arrivato a San Ginesio forte di un Ubu e di un consenso trasversale di pubblico dal teatro alla danza, è una accordatissima fusione di voci e di corpi a creare una sorta di diorama che si disfa e si ricompone. A cercare sulla Treccani “stuporoso” troviamo «che induce stupore, che determina smarrimento dei sensi e dell’intelletto». Pensiamo dunque se a essere stuporose sono sei splendide fanciulle che danzano, cantano, bisbigliano, emettono suoni, anche ancestrali, e piangono, piangono da Dio, come se si passassero il testimone di un dolore antico che le accomuna. Donne che avanzano da uno sfondo neutro a disegnare figure che non sono soltanto di donna ma di creature arcaiche, attinte a un immaginario collettivo, a ricordi evaporati o depositati sul fondo della memoria che tornano alla luce, in filigrana. Diretto e coreografato da Francesco Marilungo, con Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini, Vera Di Lecce e Martina Di Prato, Stuporosa è il frutto di una meticolosa ricerca sul rito collettivo, sulle figure archetipiche del pathos, sui simboli della sofferenza di fronte alla morte e alla mancanza, che si perpetuano sempre uguali perché «da quando è stato creato, l’essere umano ha sempre sofferto nello stesso modo».

Foto di Ester Rieti

Il secondo è una vera e propria performance solista a cui dà vita la giovanissima Evelina Rosselli, per la sottoscritta una magnifica sorpresa. SdisOrè è il capovolgimento della vicenda narrata nell’Orestea, per mano e per lingua di Giovanni Testori. Lingua impervia e bellissima, la sua, piena di invenzioni e trabocchetti, suoni duri e dialettali, che la nostra domina con impressionante padronanza, rivestendo lei stessa i quattro ruoli di Oreste, Clitemnestra, Elettra ed Egisto.
Con il supporto di maschere indossate a vista e marionette create ad hoc da Caterina Rossi, l’attrice si impossessa della natura esasperata dei singoli personaggi e ce li rende con un acrobatico espressionismo vocale, accompagnando i dialoghi serrati in modo controllatissimo, senza sbavature né slittamenti o contaminazioni di colori e di toni, che potrebbero alterare la percezione. Uno spettacolo poetico, che fa ripensare alle possibilità del teatro di fronte a una lingua così complessa e impegnativa, quando riesce a farsi corpo, immagine e suono. Importante il disegno luce di Camilla Piccioni e i suoni di Franco Visioli. La supervisione è di Antonio Latella, presente al festival con la regia di Wonder Woman, scritto insieme a Federico Bellini, con Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti. Spettacolo in tournée da qualche mese ispirato a un fatto di cronaca nera riguardante uno stupro di gruppo e alla sentenza che ne seguì, di cui diremo in altra sede (o prossimamente).

Foto di Ester Rieti

Il festival si è chiuso con il Premio all’Arte dell’Attore ideato da Remo Girone, che ha ribadito con sommo piacere dei teatranti e di chi li ama, che il teatro è fatto da attrici e attori e non da specchietti per allodole che fanno cassa.  Corre d’obbligo precisare che lo sto riferendo con parole mie, ma il senso è questo e il San Ginesio lo ha dimostrato.
Assegnando il premio a Mariangela Granelli, che ha interpretato in modo superlativo un estratto di Furore di John Steinbeck e a Davide Enia, tenacemente legato alla terra e ai nostri tempi, con visionaria passione.

La chiusa è stata dei Perturbazione, gruppo torinese che ha omaggiato Fabrizio De André con un concerto interamente dedicato a La buona novella, l’album del 1970 basato sui vangeli apocrifi.

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