“Every Brilliant Thing”, puro teatro essenziale di Paolo Ruffini

Foto di Daniele Fona

Ne è passato di tempo da quell’esercizio gestuale ch’è stato Dati: 1) Il Bianco; 2) Il Silenzio; 3) √2, uno dei primi lavori di Fabrizio Arcuri incardinato nella compagnia Accademia degli Artefatti a ridosso della fine degli anni Novanta, esperienza di traghettamento ante litteram per una compagine allora giovanissima verso la scrittura tutta fisica di una partitura beckettiana, parola coreografata che apriva dal punto di vista del teatro al movimento iconico, alla danza, sempre tanto “corteggiata” dal regista romano; e ne è passato anche dal successivo approdo alla piena parola di Attempts on Her Life attraverso la scrittura di Martin Crimp, dove il disegno di ciò che sarebbe avvenuto nella sua composizione registica appariva chiaro come un rocambolesco smottamento generativo di amplificati riposizionamenti del senso del portare il testo, usarlo per deviarne gli “accenti” depistandone i significati, da lì in poi irreversibile. Oggi, almeno nell’ultimo decennio e più, i suoi lavori hanno disseminato comportamenti scenici diventati un modus caratterizzante per l’attore, hanno definito una precisa condizione e affinato una matrice riconoscibile nel giocare col testo, quasi come uno stile ma che stile non è, rigoroso all’idea che Eduardo ne aveva, ovvero che lo stile fine a se stesso in qualche modo rappresenti la morte dell’arte. Per Arcuri l’impaginazione dello spettacolo vuole essere una sfida continua, per certi versi uno spaesamento in progress, raggiungendo un preciso crinale recitativo del tutto originale e, ancora una volta, evocativo di significati che non risiedono soltanto nelle cose dette (lì, sul palcoscenico) ma in una particolare affezione che l’attore mette a disposizione nella relazione col pubblico, nel darsi una ulteriore possibilità creativa proprio in quel disinnesco tra le parti, tra chi agisce e chi guarda. Di passaggio al Teatro India di Roma Every Brilliant Thing (Le cose per cui vale la pena vivere) di Duncan Macmillan con Jonny Donahoe è la nuova opera a firma del regista romano (ma nomade per attitudine produttiva), dopo aver attraversato la Penisola mietendo successi.

Foto di Daniele Fona

La struttura apparentemente semplice vede un Filippo Nigro in forma smagliante tenere le fila delle molte ramificazioni di un testo capace (anche lui) di muoversi per traiettorie spiazzanti, andate e ritorni tra passato e presente che raccontano in soggettiva lo sguardo sul mondo del protagonista e non possiamo che stare a quel gioco, commuoverci, ridere delle trovate insite nel testo e amplificate dalla regia, non possiamo che sentirci dentro quella parte di vita perché, anche se tangenzialmente, inevitabilmente abbiamo provato quegli stati d’animo, o comunque ci abbiamo affogato parte del nostro tempo interiore. Prima dell’inizio lo stesso regista distribuisce a caso (ma forse non proprio a caso) ad alcuni spettatori dei volantini con sopra scritte frasi che di primo acchito appaiono persino non logiche, ognuno la propria e contrassegnata da un numero. Filippo Nigro è solo, alcune scatole di cartone fanno da nécessaire scenografico dietro di lui e la scena è illuminata con “piazzati” che rendono tutti, lui e noi, appunto “dentro”, parte in causa del racconto. Solo pochi minuti e capiamo che quei piccoli tracciati fanno parte di un “discorso” più ampio, altro non sono che una lista di sopravvivenza, una lista di cose per cui vale la pena vivere come ci ricorda il titolo, e che il protagonista appunta fin dalla sua giovane età, mette in fila si direbbe a enucleare un documento a futura memoria per sé ma non solo.

Foto di Dario Bonazza

Un elenco, dunque, un mantra da ripetere a sé stesso e alla madre, che della vita trattiene solo una parvenza di esistenza ormai ingarbugliata da una depressione cronica che le fa tentare più volte il suicidio. E noi non siamo solo testimoni diretti ma anche “agenti” di questo racconto che porta il protagonista alla sua adultità, laddove la narrazione di Nigro trova sponda con le presenze delle molte voci degli spettatori chiamate a tratteggiare momenti esilaranti o malinconici direttamente sul palcoscenico, in un paradossale e riuscito esercizio di allontanamento dall’identificazione con i personaggi che vengono a configurarsi in una sorta di consapevolezza partecipativa, compresi coloro che sono chiamati ad assolvere la “parte”: «Non si tratta solamente di un allargamento del proprio campo percettivo, ma di una conoscenza che non si sviluppa più solo in termini cognitivi, quanto, come accade anche nell’esperienza analitica, oltre che in quella mistica e in quella erotica, attraverso una trasformazione più radicale che concerne l’essere stesso del soggetto» (1). Nei biglietti sono segnate frasi, indicati oggetti, riflessioni seppur brevi sulle cose del mondo vissute dal particolare filtro emozionale del bimbo o dell’adulto protagonista, riportate ad alta voce dagli spettatori quando viene chiesto loro – richiamando un numero a caso, a volte in successione – di leggere ciò ch’è scritto nel biglietto, cosicché l’attore tesse la rete di aneddoti e accadimenti, mette in fila i pezzi di una biografia segnata implacabilmente. In quel coinvolgimento accondiscendente gli spettatori si prestano ad essere il padre, la fidanzata o la psicoterapeuta in una serie di rovesciamenti percettivi gestiti con maestria da Filippo Nigro, che quando veste i panni del padre chiede allo spettatore (solitamente un adulto) mentre questi si ritrova in quelli del figlio, di domandare sempre: «Perché?». Parola conturbante, catartica, e che in quella ossessiva ripetizione (come i bambini fanno) crea uno spostamento nel pronunciamento infantile fatto dall’adulto, visivamente adulto, sovvertendo così i piani anche solo percettivi, e mettendo in crisi il concetto stesso di soggetto, di persona (attore, personaggio, ruolo, interprete, avventore occasionale della parola o dell’azione). Il dialogo che ne esce è potente e allo stesso tempo lacerante, in quella semplicità cognitiva di ciò che non si può spiegare se non per la evidente e fallace verità della vita. La scrittura è così splendida e disarmante come raramente troviamo sui palcoscenici italiani e Filippo Nigro ne trattiene tutte le sfumature di uno spessore algebrico, scomponibile, raccogliendo uno spazio prossimale e “reale”, tanto da consegnarci un grande spettacolo.

Nota
1) Massimo Recalcati, La legge della parola. Radici bibliche della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2022, p. 300.

Foto di Alessandro Calvi

Every Brilliant Thing (Le cose per cui vale la pena vivere) 

di Duncan Macmillan con Jonny Donahoe
traduzione Michele Panella
regia Fabrizio Arcuri
co-regia e interpretazione Filippo Nigro
aiuto regia Antonietta Bello
oggetti di scena Elisabetta Ferrandino
cura tecnica Mauro Fontana
una co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG / Sardegna Teatro.

Teatro India, Roma, dal 29 marzo al 2 aprile 2023.

Tournée:
Cinema Teatro Mac Mazzieri, Pavullo nel Frignano (MO), 6 aprile 2023
Teatro Nuovo, Napoli, 13-16 aprile 2023
Teatro Comunale Dino Crocco, Ovada (AL), 20 aprile 2023
Teatro Concordia, Venaria Reale (TO), 21 aprile 2023
Sala Il Ritrovo, Fiorentino, San Marino, 23 aprile 2023
Teatro Camploy, Verona, 26 aprile 2023
Teatro Municipale, Casale Monferrato (AL), 27-28 aprile 2023
Cinema Teatro Magda Olivero, Saluzzo (CN), 3 maggio 2023
Teatro Toselli, Cuneo, 4 maggio 2023.