ESERCIZI DI MEMORIA >Contagio di Emanuela Bauco e Andrea Scappa

Foto di Arianna Morganti

Un nuovo incontro di Esercizi di memoria. Questa volta a raccontarsi è l’attore e regista romano Massimo Verdastro. Nella prima tappa, dedicata al Contagio con il teatro, un album da disegno, una pelliccia di volpe ed un libro sul Pontormo rievocano l’accendersi di una passione.

La volpe bambina

Sono reduce da un recente trasloco, sono riapparsi una serie di oggetti che non ricordavo di avere. Alcuni sono lacerti di memoria, legati ai primissimi anni della mia infanzia e giovinezza.
C’è la pelliccia di volpe vera che da bambino mettevo spesso, poi l’ho utilizzata anche in teatro. Apparteneva alla mia adorata zia Gina, che per me è stata un po’ una seconda mamma. Questa volpe è degli anni Quaranta. In realtà erano due volpi e arrivavano fino ai piedi. Zia Gina, insieme alle sue sorelle, negli anni Trenta gestivano il bar del Teatro dell’Opera, in via Torino, frequentato da tutti i cantanti, i direttori d’orchestra, da tanti artisti. Zia Gina mi parlava continuamente di questo mondo, accendendo in me la passione per il teatro. Lei aveva un’infinità di vestiti da sera, aprivo questo armadio e li indossavo, mi mettevo anche i suoi gioielli. A mio padre non piaceva mentre mia madre mi lasciava fare. Ed io questa la chiamo la mia volpe bambina, come il personaggio che compare nel testo di Copi Il frigo (1).
Nella valigia c’è anche questo album da disegno della quarta elementare, risale ai primi anni Sessanta. Ero abbastanza bravo. Qui ce n’è uno che si intitola Canto di marzo. C’è un paesaggio con delle colline, c’è un fiume, un sole, delle case, degli alberi. Disegnavo spesso fiori e paesaggi campestri. Questo invece è un disegno “cittadino”, intitolato A Pasquetta, ci sono delle macchine sotto la pioggia. Evidentemente fu una Pasquetta sfortunata e piovosa. Sì, mi piaceva molto disegnare… I professori della scuola media consigliarono a me e ai miei genitori di scegliere il liceo artistico, ma mio padre è sempre stato contrario. Mi hanno iscritto infatti all’istituto tecnico commerciale, in cui di disegno proprio non si parlava. Sta di fatto che io mi sono fatto cinque anni di ragioneria al Maffeo Pantaleoni di Piazzale Flaminio. Ho avuto degli insegnanti straordinari, soprattutto la professoressa di lettere, Manuela Foderà, che ci ha fatto amare la poesia, la letteratura, l’arte e l’insegnante di religione, Don Paolo Gilet, che era un appassionato di teatro. Questa scuola l’ho fatta con una gran fatica perché le materie erano lontanissime dai miei desideri e dalle mie attitudini. Per fortuna avevo molte affinità con i compagni. Avevamo molti interessi: chi amava andare al cinema, chi andare ai concerti rock, chi andare alle mostre d’arte, nonostante noi facessimo una scuola che non contemplava queste discipline.

Foto di Arianna Morganti

Sin da ragazzino andavo molto a teatro. Ho un ricordo vivissimo di uno spettacolo di Squarzina, Il cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt Brecht, con Lea Massari, Lilla Brignone ed Eros Pagni. Ho visto tante volte in teatro Lilla Brignone, per me era un’attrice pazzesca, la sua voce mi incantava. Ne Il cerchio di gesso del Caucaso, tra l’altro, recitava con una maschera tutto il tempo, una maschera del teatro Nō… dove faceva l’imperatrice… Nella storia ci sono l’imperatore, l’imperatrice e la ragazza che era Lea Massari. Gli attori stavano in scena con queste maschere per tutto il tempo. Vidi Spettri di Ibsen, con la regia di Edmo Fenoglio, il fratello di Beppe, lo scrittore. Ho visto diversi suoi spettacoli. Da adolescente rimasi folgorato da La città morta di D’Annunzio, al Teatro Quirino, con la regia di Zeffirelli. Sarah Ferrati era straordinaria. Lo spettacolo era visivamente incredibile. Ricordo bene le luci e la scenografia. C’era questo pvc che mutava di colore, c’era l’alba e il tramonto, la notte, i ruderi della città morta. Ho visto diverse volte anche Rina Morelli e Paolo Stoppa. Solitamente andavo al Teatro Quirino, all’Argentina e al Valle. A scuola i professori domandavano: «Chi vuole andare a teatro? Se volete ci sono dei biglietti a metà prezzo…». Io li compravo e andavo sempre, non è che ci portassero tutta la classe, ci andava solo chi era interessato. E poi tutta l’avanguardia romana a cui sono legatissimo. Leo de Berardinis e Perla Peragallo in Chianto ‘e risate e risate ‘e chianto del 1975, al Teatro in Trastevere. Io ero pazzo degli spettacoli di Memè Perlini, ne ha fatti di bellissimi, Il risveglio di primavera al Teatro Piramide, Pirandello chi? o La partenza dell’argonauta all’Argentina. In quello spettacolo il golfo mistico era diventato una piscina, gli attori si tuffavano dal palcoscenico in delle vasche d’acqua e nuotavano, tutti nudi facevano la doccia, gli argonauti, i guerrieri, le attrici con la sola camicia da notte. La partenza dell’argonauta è nata da un testo di De Chirico. C’era Bettina Best, un’attrice che lavorava molto con Perlini, una tedesca trapiantata a Roma, interessantissima… Un’altra attrice che mi appassionava era Manuela Kustermann, così bella, con quel piglio un po’ ribelle, inquietante, androgina e con questa voce roca. Me la ricordo in Franziska di Wedekind, con la regia di Giancarlo Nanni. Ero giovanissimo e subivo molto il fascino di queste figure che ti consentivano di toccare territori immaginari. E poi Carmelo Bene di cui ho visto tantissimi spettacoli. Lo amavo. Più che lui amavo i suoi spettacoli. Per esempio, l’Amleto da Shakespeare a Laforgue visto al teatro Quirino, oppure il Riccardo III che fece con tutte quelle donne. Ne ho visti tanti di Bene, La cena delle beffe, l’Hommelette for Hamlet, e quel suo recital strepitoso Majakovskij, che ho visto a Palermo. Lì già frequentavo la scuola di teatro, avevo ventuno, ventidue anni. Quello spettacolo fu un’esperienza.

Foto di Arianna Morganti

Qui c’è un altro oggetto: un libro, si tratta di una vecchia pubblicazione, dove ci sono i disegni del Pontormo. Mi è stato donato da Filiberto Menna, il famoso storico dell’arte, che poi sarebbe diventato uno dei miei professori all’università, e da sua moglie, Bianca Pucciarelli, in arte Tomaso Binga (2). Loro gestivano il Lavatoio Contumaciale, uno spazio culturale tuttora attivo, situato nel quartiere Flaminio che mettevano a disposizione di giovani come me, dove ho mosso i primi passi teatrali. Nel 1975/6, l’anno della maturità mi iscrissi ad un laboratorio teatrale organizzato da Pierfranco Zappareddu, uno stretto collaboratore di Eugenio Barba, al Teatro Alberico. Fu un laboratorio sconvolgente. C’erano, come assistenti, due attori danesi dell’Odin Teatret. Si lavorava cinque, sei ore al giorno, il lavoro era molto fisico. L’ultimo giorno, un sabato, cominciammo dal pomeriggio e andammo avanti fino all’alba della domenica, concludendo con il training vocale a Villa Pamphili. Terminato il laboratorio, con alcuni dei partecipanti ci rivolgemmo a Filiberto Menna, che ci diede la possibilità di continuare a sperimentare tra di noi al Lavatoio Contumaciale, dove facemmo una dimostrazione di lavoro. Era ispirata al racconto La camera, contenuto nella raccolta Il muro di Jean-Paul Sartre. A vederci c’erano naturalmente Menna con la moglie, che mi regalarono questo libro, dicendomi «Massimo, tu devi fare teatro!». E il fatto che me l’abbia detto lui, il professore, mi incoraggiò molto. Così tutto ha avuto inizio.

Note
1) Copi (1939-1987), pseudonimo di Raúl Damonte Botana, è un disegnatore, drammaturgo, interprete dei suoi testi, spesso in travestimenti femminili. Argentino, di origini italiane, è costretto ad emigrare a Parigi nel 1962, a causa delle idee politiche dei suoi genitori, esplicitamente anarchici e antiperonisti. Le sue opere, provocatorie e insolenti, sono popolate da personaggi scandalosi e marginali. Verdastro vede Copi in scena, a Palermo nel 1980, interprete di Madame, nell’allestimento de Le serve di Mario Missiroli. La tragicommedia, Il frigo, è del 1983. Verdastro ne fa una lettura al Piccolo Eliseo di Roma l’11 febbraio 2008 e la mette in scena nel 2023, debuttando in prima assoluta al Teatro Mercadante di Napoli.
2) Bianca Pucciarelli, artista concettuale e performer, si firmava provocatoriamente Tomaso Binga perché sosteneva che la critica italiana, soprattutto maschile, non l’avrebbe presa in considerazione in quanto donna.