Elena Guerrini e il suo “Archivio sentimentale della casa di famiglia” al festival Inequilibrio Intervista di Letizia Bernazza

Foto di Samira Zuabi

In occasione della ventottesima edizione del festival Inequilibrio, a cura di Fondazione Armunia con il sostegno di Ministero della Cultura, Regione Toscana, Comune di Rosignano Marittimo e con la direzione artistica di Angela Fumarola, abbiamo incontrato l’attrice, narratrice e performer toscana Elena Guerrini.
Tra il fitto programma di appuntamenti da non perdere (la rassegna terminerà il prossimo 12 luglio) per esplorare i territori delle “scene” contemporanee, Elena Guerrini ha presentato in prima nazionale Può sempre servire non si sa mai. Archivio sentimentale della casa di famiglia nella cornice della Sala del Cielo del Castello Pasquini a Castiglioncello.

La performance, in scena fino al 5 luglio, è un lavoro sulla memoria, un invito a recuperare il nostro passato a partire da piccoli e grandi oggetti – macchine da scrivere, spazzole, specchi, pettini, foto, bottoni, giornali per i piccoli, astucci di colori, bambole di pezza, grembiuli della scuola – che sono il tramite per costruire ciascuno la propria storia, la propria “drammaturgia”.
Gli spettatori entrano in gruppi di otto alla volta. Li attende uno spazio “da abitare” per venti minuti. Una sorta di stanza delle “meraviglie” in grado di stupire, una wunderkammer dove fare un viaggio intimo ma, al tempo stesso, collettivo e dove è l’ascolto, il dono di darsi gli uni agli altri, a creare partecipazione e condivisione.
Lo spazio fluido dell’installazione si lascia attraversare. Elena Guerrini è la padrona di casa. Accoglie gli ospiti e li accompagna lungo un percorso “sensoriale” che rompe gli argini del tempo e riattiva la memoria con un autentico “atto di devozione” verso presenze vive o soltanto rievocate.

Come nasce Può sempre servire non si sa mai. Archivio sentimentale della casa di famiglia?

Archivio sentimentale della casa di famiglia, nasce dal reale. Mi sono trovata a svuotare la casa dei miei genitori quando sono andati nel mondo accanto, e quel gesto, apparentemente pratico, è diventato profondamente emotivo, pieno di domande, ricordi e resistenze. Ogni oggetto che toccavo parlava. Alcuni mi facevano piangere, altri ridere, altri ancora mi sembravano inutili eppure impossibili da buttare. “Le piccole cose di pessimo gusto” gozzaniane.  Mi sono chiesta se anche altri, come me, avessero provato quel senso di smarrimento e nostalgia: e così ho iniziato a scrivere. La prima forma è stata un monologo partecipato, in cui ponevo al pubblico un test sugli oggetti della memoria come in un gruppo di aiuto. Era Può sempre servire non si sa mai!

Poi ho iniziato a scrivere poesie: piccole preghiere laiche sul rapporto tra corpo, oggetti, luoghi e assenze. Una raccolta di 52 cose che erano casa: Accorgersene è miracolo.

L’idea della wunderkammer, della stanza emozionale in cui questi oggetti potessero vivere poeticamente, è nata grazie al bando Immersioni 2024, promosso da Mare Culturale Urbano e Piccolo Teatro di Milano. Essere selezionata mi ha permesso di lavorare a fondo su questa idea e di svilupparla in modo immersivo.

Una parte fondamentale del bando prevedeva due mesi di immersione in un quartiere periferico di Milano. Ho scelto il quartiere Barona. Ogni giorno mi sedevo in un parco, o davanti a una libreria con una macchina da scrivere Olivetti vintage. Ho incontrato passanti, anziani, giovani, famiglie. A ciascuno ponevo una domanda: «Cosa salvereste della vostra casa di famiglia?». Li invitavo a descrivere un oggetto.

Ho raccolto testimonianze poetiche, sincere, a volte spiazzanti. Tutto questo ha alimentato la performance e ha reso il progetto ancora più corale e universale a partire da una “cosa” intima. È stato un esercizio poetico collettivo. Il primo studio è stato presentato al Piccolo Teatro di Milano a settembre 2024. Ora il debutto in prima nazionale a Castiglioncello al festival Inequilibrio.

Foto di Samira Zuabi

Quale è il ruolo della memoria in un lavoro dove, a partire dagli oggetti che tu stessa hai ritrovato nell’abitazione della tua famiglia, sembra tu voglia “trattenere” il ricordo, la necessità di un legame profondo con il passato?

La memoria, per me, è materia viva. Non è nostalgia, non è un album ingiallito, ma una voce che ancora parla, se la si sa ascoltare. In Archivio sentimentale della casa di famiglia, ogni oggetto che ho ritrovato – un barattolo, una tenda, una foto, una tazzina – è diventato, un frammento di racconto che mi ha guardata negli occhi e mi ha chiesto: «Mi riconosci ancora?».

E anche al pubblico fa questo effetto. Ogni persona si crea la propria storia. Il mio gesto artistico nasce dal desiderio di trattenere, sì, ma non in senso possessivo. Trattenere come si trattiene un respiro, un abbraccio, un attimo prima che svanisca. Non per fermarlo, ma per comprenderlo. Per dire: «Tu sei parte di me, anche se ora siamo cambiati».

Questi oggetti mi hanno permesso di riattraversare la storia della mia famiglia, e insieme a quella, anche la storia di un’epoca, di un’Italia domestica, fragile, bellissima e piena di contraddizioni. Il mio legame con il passato non è mai stato una prigione, ma un ponte. E il teatro, in questo lavoro, è diventato il luogo in cui la memoria si fa presente, si fa carne, voce, scena. È un modo per restituire senso e dignità anche a ciò che sembrava perduto, messo da parte, e un tributo ai miei genitori, miei creatori adesso nel mondo accanto, ma presenti.

Ho capito che ogni gesto, ogni oggetto, ogni assenza può ancora insegnarci.
La memoria, per me, è quindi atto creativo e affettivo. In Archivio sentimentale della casa di famiglia, non ho semplicemente raccolto oggetti: ho ascoltato quello che avevano da dire. Ogni tenda, ogni vestito, ogni piccolo utensile domestico era carico di una presenza, come se trattenesse il respiro di chi li ha usati, amati, dimenticati. “Trattenere il ricordo” non significa cristallizzarlo. Significa renderlo fertile, dargli voce, fargli attraversare il presente.

Il mio bisogno di legame con il passato non è mai solo personale, è anche collettivo: riguarda un tempo condiviso, una cultura materiale, affettiva e politica che sta scomparendo e che sento il dovere di salvare, anche solo per un attimo, attraverso il teatro.
Il mio lavoro non è un’operazione nostalgica, ma un gesto di riconoscimento e di trasformazione.
La memoria diventa scena, diventa relazione con il pubblico, diventa cura. È un modo per restituire dignità al vissuto quotidiano, alle storie minuscole che spesso nessuno racconta, ma che contengono la sostanza della nostra identità.

Foto di Samira Zuabi

Gli oggetti che utilizzi in che modo concorrono a tracciare – poeticamente ed esteticamente – lo sviluppo narrativo della performance? E come hanno influenzato e influenzano il lavoro attoriale?

Ho ascoltato le tracce di vita che quegli oggetti ancora emanano. È un gesto simile a quello che Jerzy Grotowski chiamava “teatro povero”, dove l’essenziale – il corpo, la voce, il silenzio – diventa potente.

Ecco ho traslato il concetto sugli oggetti che diventano soggetti, anche un telefono grigio a rotella o una audio casetta, una segreteria telefonica o una macchina da scrivere diventano attori, cioè compiono l’azione.

Come ha affermato Grotowski durante una conferenza a Volterrateatro nel 1996 (di quell’incontro conservo ancora gli appunti) «L’arte non serve a dare risposte, ma a porre domande, a mettere l’uomo davanti a se stesso».

Io attraverso quegli oggetti, mi sono messa davanti a me stessa. Ho rivisto mia madre, mia nonna, mia zia Anna, i gesti quotidiani che sembrano piccoli ma sono l’ossatura del nostro essere.  Mia madre che cuciva alla macchina Singer e conservava tutti gli orli in una scatola verde a fiori. «Può sempre servire la stoffa per fare le toppe, non si sa mai!», era solita ripetere. La vedevo di schiena mentre facevo i compiti sul tavolo in salotto.

La memoria degli oggetti è per me un atto politico come lo era per Pasolini, che scriveva: «Io sono una forza del passato (…) Solo la rivoluzione può salvare la tradizione».

Foto di Samira Zuabi

“Trattenere” il ricordo, nel mio lavoro attoriale e drammaturgico, non è conservazione ma trasformazione.
È un modo per dare valore al vissuto, per ritessere un legame profondo tra generazioni e per raccontare l’intimità come qualcosa di universale.

In un tempo che consuma tutto, io scelgo di restare, di custodire, di ascoltare, di fare tesoro. È questo il mio piccolo atto rivoluzionario in scena.
Io sto in ascolto e in posizione di cura della scena, il pubblico si crea un’auto-drammaturgia a contatto con gli oggetti.
Con me, abita la scena Elena Piscitilli che ha grande esperienza in teatro sensoriale. Ha lavorato per molti anni in Spagna con Enrique Vargas. Elena si relaziona con me, con gli ospiti e con gli oggetti.
Ogni volta che allestiamo la “stanza emozionale” facciamo un trasloco vero e proprio.

Foto di Samira Zuabi

Hai dichiarato che chi partecipa a Può sempre servire non si sa mai diventa co-autore dell’“archivio sentimentale”. Ci puoi spiegare la relazione tra oggetto-drammaturgia-spettatore?

“Può sempre servire non si sa mai!”, la frase che dà il titolo alla mia performance, non è solo un invito, ma un riconoscimento.

Chi partecipa a questo rito intimo e condiviso non è mai soltanto uno spettatore: può diventare coautore, testimone attivo, parte viva della drammaturgia che si compone sotto i nostri occhi, azione dopo azione, ricordo dopo ricordo. In Archivio sentimentale della casa di famiglia, il confine tra oggetto, drammaturgia e spettatore svanisce.

Ogni oggetto ha un suo vissuto, un segno che porta dentro. Umberto Eco ci ha insegnato che il segno è qualcosa che sta per qualcos’altro, e in questo teatro degli oggetti minimi, sono proprio i piccoli segni – una lampada, una fotografia, un grembiule di scuola cucito a mano – a evocare storie minuscole che nessuno racconta. Ma che sono fondamentali. Perché sono vere. E sono nostre. La casa diventa teatro. Ma non teatro di intrattenimento: qui non si cerca il divertimento, ma l’emozione e l’azione, il movimento interiore che accade quando ci si riconosce in una storia non scritta, ma condivisa.

Una comunità effimera e potente si crea ogni volta: otto ospiti per venti minuti, una stanza, un tempo sospeso. In quei venti minuti siamo famiglia, siamo comunità. Non si assiste, si partecipa. Non si guarda, si vive. Questa è una forma di auto-drammaturgia: gli oggetti parlano, ma sono le azioni, i gesti, i ricordi evocati che costruiscono la narrazione.

Nell’ambito del festival, il 3 e il 4 luglio, farò anche un laboratorio di scrittura poetica creativa che si rivolge a chi vuole scrivere e ricordare. Mercoledì 2 luglio sarò, invece, con gli ospiti della RSA della Fondazione Casa Cardinale Maffi di Rosignano Solvay (LI) per custodire i loro ricordi come semi preziosi. Venerdì e sabato il laboratorio sarà aperto al pubblico: chiunque vorrà, potrà confrontarsi con la memoria e con le proprie radici a cuore aperto.
Non è solo teatro. È cura, ascolto, relazione.

Rispetto al tuo percorso artistico, come sei arrivata a concepire Archivio sentimentale della casa di famiglia?                                                                               

Sai tutto nasce da una trama invisibile siamo una rete. La rete di Indra è un’antica metafora orientale: ogni nodo della rete contiene un gioiello che riflette tutti gli altri. Nulla esiste da solo. Ogni storia è collegata, ogni vissuto si specchia e risuona in quello degli altri. È tale visione poetica che mi ha accompagnata nella creazione di questa stanza teatrale così intima, così essenziale, eppure tanto densa di relazioni.

Nel mio percorso artistico, sono stata attrice e autrice di monologhi – Orti insorti, Bella tutta!, Alluvioni, Archeologia del coraggio, Vie delle donne… Ho portato in scena corpi e storie, resistenze e memorie, ho lavorato spesso con la parola solitaria che però chiedeva ascolto collettivo. Eppure, tutto questo col tempo mi ha portato verso una nuova forma: una stanza abitata, condivisa, da creare insieme agli altri. Un teatro che non è più rappresentazione ma co-creazione, presenza, relazione, accoglienza.

Non è un caso che questo passaggio della mia poetica sia avvenuto anche grazie alla mia esperienza come educatrice nella scuola dell’infanzia che ho intrapreso dal 2020. Brecht diceva che per gli attori è importante fare anche altri lavori per vivere, per conoscere ed esperire. Stare con i bambini significa praticare l’ascolto, l’accoglienza vera. “Educare” da educere vuol dire “trarre fuori” ciò che è dentro, non riempire. E così anche in questa performance: non offro un copione, ma uno spazio. Una soglia. Un tempo per tirare fuori ciò che è dentro, ciò che spesso resta nascosto, dimenticato, non detto.

Nel mio Archivio sentimentale della casa di famiglia, gli oggetti non sono solo oggetti. Sono nodi della rete, sono quei gioielli della rete di Indra che riflettono le vite degli altri. E ogni spettatore, ogni ospite, entra nella rete. Otto persone alla volta, venti minuti di “atti di devozioni”.

Per tutte le informazioni su Può sempre servire non si sa mai. Archivio sentimentale della casa di famiglia e sul programma dettagliato del festival Inequilibrio rimandiamo al sito:
www.armunia.eu/it/inequilibrio.html

Foto di Samira Zuabi
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