David Lynch e il “cuore selvaggio” del suo cinema di Monia Manzo

A trentacinque anni dalla vittoria della Palma d’oro a Cannes, Wild at Heart (ispirato all’omonimo romanzo di Barry Gifford) rimane un riferimento indiscusso del cinema contemporaneo e continua sempre a stupire cinefili e meno esperti per l’intensità con cui David Lynch lo ha confezionato.

Il film ha rappresentato per il regista americano un momento di assoluta gratificazione artistica. Infatti, in quel periodo, oltre ad avere avuto un grande successo con Wild at Heart (Cuore selvaggio), aveva destato scalpore e suscitato ammirazione con la gothic serie Twin Peaks, una pietra miliare della televisione, dominata, già nel 1990, da sitcom tradizionali.
Entrambi i lavori esprimono l’atmosfera che si respirava nella società americana e che culminerà nella “sommossa di Rodney King” del 29 aprile del 1992 a Los Angeles dopo l’assoluzione di quattro agenti della LAPD (Dipartimento di polizia di Los Angeles) accusati del pestaggio del tassista Rodney King. Lynch era in perfetta sintonia con i tempi e, addirittura, aveva anticipato nelle sue opere il clima di violenza che serpeggiava nelle comunità statunitensi oltre l’apparente perbenismo conservatore dei loro abitanti.

Cuore selvaggio non solo vanta due protagonisti d’eccezione – Laura Dern e Nicolas Cage – ma appare nel panorama del cinema mondiale come una rivoluzione: un lavoro che fonde la realtà e l’immaginazione, la concretezza del mondo americano e la fantasia di “mondi misteriosi”.
Fondamentale per la cifra stilistica scelta dal regista è The Wizard of Oz – film fantasy musicale statunitense del 1939 diretto da Victor Fleming e ispirato al romanzo del 1900 Il meraviglioso mago di Oz di Lyman Frank Baum – che ha segnato molta della filmografia lynciana (un tema ben analizzato nell’opera-studio Lynch/Oz del regista Alexandre O. Philippe uscito nel 2022) e, in modo particolare, Cuore selvaggio dove la figura della piccola Dorothy viene trasformata nell’adulta, ma non troppo, Lula. La bellezza del suo personaggio risiede nell’ instancabile desiderio di affermare l’amore, nonostante la paura costante di perderlo e il susseguirsi di eventi violenti, che coinvolgono l’amato e la madre/strega dell’Est (una chiara citazione “oziana” quest’ultima, soprattutto nelle scene in cui la donna si cosparge la faccia di rossetto rosso).

Lynch riesce attraverso una sorta di “realismo magico” a individuare elementi simbolici ed evocativi e a scavare fin dentro le relazioni più invischianti e a tratti patologiche.

In Cuore selvaggio riecheggiano le teorie junghiane: gli archetipi femminili si risolvono nel rapporto di odio/amore materno e la madre non può essere che un riferimento alla donna/strega, sfatando in modo impietoso l’esempio occidentale della donna-Madonna, simbolo assoluto di una “maternità aprioristica”.
La visionaria immagine materna esplode in un close-up di grande impatto visivo, complice l’interpretazione dell’attrice Diane Ladd in grado di restituire tutti i sentimenti di follia, odio e amore.

Il mondo americano degli anni Novanta si sovrappone a quello di Oz dove sono già presenti i simboli dell’umanità e i loro ossimori: il gioco degli specchi nella mente del regista appaiono chiari, ben definiti e non danno spazio a nessun fraintendimento.
Le scarpette rosse di Dorothy sono indossate anche da Lula che a sua volta, come la bambina interpretata da Judy Garland, vorrebbe per magia sparire dallo squallore di un universo senza possibilità di redenzione.

Gli unici momenti di luce sono quelli procurati dall’accensione delle sigarette che determinano lo stacco tra una scena e l’altra con dissolvenze quasi sempre identiche, come a voler definire un tempo implacabile e identico a sé stesso.

Da sottolineare, poi, il ruolo della musica. Il maestro sceglie con rigore e sensibilità ogni brano per scandire il ritmo e il linguaggio del film. La colonna sonora del compositore italo-americano Angelo Badalamenti (vero alter- ego del regista) e, tra le altre, l’iconica Wicked Game di Chris Isaak, si sposano con le “visioni” di Lynch fino a portare la realtà a prendere i contorni del sogno.

Cuore selvaggio si distingue anche per un cast eccezionale di attori e di attrici, spesso valorizzati proprio da David Lynch: Isabella Rossellini e Willem Dafoe ne sono un esempio. Entrambi vestono i panni di due personaggi scomodi, spietati, disumani, sui quali, tuttavia, il regista si trattiene dall’esprimere qualsivoglia giudizio morale.
Fa eccezione il personaggio di Lula: uno dei pochi ad avere una linearità psicologica e a non presentare una personalità disfunzionale. La vitalità della donna è sostenuta da un amore ingenuo (proprio come Dorothy ne Il meraviglioso mago di Oz), che la condurrà a salvare la sua anima e quella di coloro che la circondano.

Per Lynch il bene e il male non hanno un valore dicotomico. Sono, piuttosto, un mezzo per perlustrare i segreti, i pensieri, le ossessioni, i desideri umani ed è forse proprio per questo che non fa distinzione alcuna tra i personaggi anche da un punto di vista stilistico: ciascuno di essi ha nella storia lo stesso peso e la stessa rilevanza.

Trentacinque anni dopo la vittoria della Palma d’oro a Cannes, Cuore selvaggio è stato programmato in diverse sale cinematografiche italiane.
Un film da vedere per apprezzare la genialità di David Lynch e il suo cinema che sa scrutare oltre il visibile, il celato e il non detto.

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