Da Rembrandt a Matisse: da Parigi riflessioni spirituali su “La Cena in Emmaus” di Girolamo Dal Maso

Rembrandt, “I pellegrini di Emmaus”

I gesti compiuti da Gesù nella distribuzione dei pani sono tra i suoi più caratteristici. In essi quasi si identifica: «Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti». Li ritroviamo nell’ultima cena e sono quelli che permettono ai discepoli di riconoscere Cristo, il Risorto, ci ricorda in particolare il Vangelo di Luca. Tali gesti son materia di meditazione, e son divenuti nel tempo un topos significativo dell’arte pittorica. Così ha fatto anche Rembrandt che è tornato spesso su questo soggetto.
La Cena in Emmaus del Louvre di Parigi potrebbe avere come didascalia proprio i versetti appena citati della moltiplicazione dei pani. Rembrandt sottolinea, in questo caso, l’intimità della scena (non senza un accenno alla solennità, come il catino absidale in alto sullo sfondo, spazio concavo accogliente e liturgico – come se taverna e chiesa, spazio profano e spazio sacro, si co-appartenessero), attraverso quella sua tipica gradazione di bruni e marroni, così calda e vibrante, in cui si sottolinea l’umanità dei personaggi, il loro essere di carne, di sangue, di sentimenti e affetti. Qui nel momento del riconoscimento la familiarità, la consapevolezza e il ricordo di tutto il cammino fatto insieme nel passato, la memoria di una quotidianità con Gesù che si era creduta persa, sembra vincere sulla sorpresa. È una gioia pacata, ancora incipiente, piena di affetto.
C’è un’altra bellissima rappresentazione della stessa scena (I pellegrini di Emmaus), completamente diversa, quella, giovanile, conservata al Jacquemart-André, sempre a Parigi. Qui il chiaroscuro è violento. Anche la reazione dei discepoli è forte: lo stupore, misto a spavento, fa indietreggiare quello che sta di fronte a Gesù, mentre l’altro, a malapena visibile, nel dipinto praticamente una macchia nera in basso, è addirittura prostrato a terra, quasi a indicare una fede abbagliata dalla luce del Risorto, quasi fino alla cecità. Così pure Gesù è reso lui stesso ombra dal suo bagliore. Si mostra e nello stesso tempo si ritrae, sparisce. La sua è una presenza di cui è difficile dare conto, che ci mette a soqquadro. C’è e non c’è. Presente nella sua assenza.
Vorrei, in questa meditazione sulla gestualità di Gesù e sul suo effetto su di noi, richiamare anche altre immagini, come quella del Filosofo in meditazione, ancora al Louvre, altra opera del Rembrandt. Anche qui c’è un interno, con un senso di raccoglimento, eppure si tratta di uno spazio aperto: da una parte aperto alla luce che entra, calda, dalla finestra, dall’altra è aperto verso l’alto attraverso la scala a chiocciola. Un poeta ha visto in questa messa in scena l’attività interiore come un uomo che secerne, quasi come una lumaca protetta nel suo guscio, il suo pensiero come una sostanza spirituale. Questo dipinto può insegnarci molte cose: come il vecchio saggio anche noi ora siamo chiusi nelle nostre quattro mura. Cosa vi produciamo in esso? Sappiamo renderlo uno spazio di interiorità viva, luminosa, creativa? La nostra solitudine è abitata, bagnata dalla luce, aperta all’alto, capace di elevazione?
Un altro personaggio di Rembrandt che può parlarci oggi è Geremia che piange su Gerusalemme per l’assedio dei babilonesi. La vicenda di Geremia è profondamente toccante e sconvolgente ma anche profondamente cristologica, tanto è vero che quando Gesù chiede cosa pensa di lui la gente, una delle risposte è proprio che lui sia «Geremia o uno dei profeti». Rembrandt come solito sa descrivere l’intensità degli affetti in modo commovente. Tra l’altro i lamenti di Geremia sono testi che venivano usati nella settimana santa. Anche noi abbiamo di che commuoverci vedendo il dolore della nostra città. Ma non si tratta di lasciarci prendere solo da qualche facile emozione, da lacrime da talk show. Come per il filosofo in meditazione si tratta per noi di cogliere nella crisi attuale un’occasione; così come è stata per il popolo ebraico la deportazione in Babilonia: in quel periodo di massima crisi politica e religiosa abbiamo la più alta riflessione teologica dei profeti, come Isaia ed Ezechiele. Vorrei concludere, quindi, questa piccola carrellata, con alcuni esempi in cui un artista profondamente provato (e anche Rembrandt lo è stato nella sua lunga vita e carriera, piena di successi e di fallimenti, di gioie e di dolori) ha fatto di questo periodo di prova lo stimolo per una nuova creatività.
Il primo esempio è Paul Klee. Nell’ultimo periodo della sua vita, costretto a fuggire dalla Germania a causa del nazismo, e ormai gravemente malato, Klee disegna una serie di schizzi che hanno come tema gli angeli. Sono figure essenziali, in cui il tratto del disegno è semplice ma incisivo. Il colore è sparito, o meglio è diventato luce. L’angelo obliante, dimentico, richiama la posa del filosofo e del profeta di Rembrandt. Gli occhi chiusi e le mani raccolte indicano una concentrazione, un raccogliere in sé quanto è fuori, interiorizzandolo, come un sonno vigile. Non possiamo capire tutto, ma tutto possiamo custodire in noi, così come noi, secondo l’espressione di S. Paolo, siamo nascosti in Dio. Questo è un oblio che non dimentica ma custodisce, lascia decantare, non pretendendo di esaurire il mistero.
C’è un altro angelo, quasi l’opposto, complementare. È l’angelo aperto alla speranza. Questa volta gli occhi sono aperti al cielo e le ali sembrano le braccia elevate di un orante. Lo sguardo sembra un po’ impertinente, da scugnizzo, vispo eppure in attesa. Da una parte sembra voler elevare il mondo in alto, portarlo con sé, come una oblazione e intercessione, dall’altra sembra attendere che la benedizione gioiosa e giocosa scenda. Terra aperta al cielo, cielo aperto alla terra.
Infine Henri Matisse. Nell’ultimo periodo della sua vita, gravemente malato, costretto su una sedia a rotelle, il grande maestro del colore, della leggerezza, del gusto della bellezza e dell’eleganza compiuta, ha una incredibile, felice esplosione creativa. Non può più dipingere e allora si inventa dei collages. Usa le mani per tagliare letteralmente i colori e creare nuove, meravigliose composizioni di carta. Così è per Polinesia in cui gli azzurri e le forme bianche danzano, felicemente, insieme. Ci sono anche dei riferimenti pasquali: i motivi vegetali, infatti, richiamano il tema del giardino e della vita nuova che rinasce e, soprattutto, la colomba che libra leggera richiama la pace e lo Spirito.

Matisse, “Polinesia”