“Certo io resisterò” di Margine Operativo di Chiara Crupi

Foto di Carolina Farina

Quando Alessandra Ferraro e Pako Graziani tracciano il DNA di Margine Operativo, il loro progetto di vita artistica che fa dello sconfinamento fra le arti la rotta di una ricerca, scrivono della loro “convinzione che l’arte è un dispositivo che può creare cambiamenti”. Certo io resisterò, lo spettacolo diretto da Pako Graziani, è un esempio di cosa può accadere quando l’arte come “dispositivo” utilizzi la storia quale propellente di accensione. Anzi precisamente il doppio cardine della storia: quella della politica, dei grandi eventi, dei capi di stato e di partito e quella senza iniziale maiuscola, che coinvolge tutti in prima persona, fatta di percorsi, disperazioni e motivazioni individuali. Perché alla fine sono prima di tutto gli individui come singoli, a portarne il peso.
In scena c’è un uomo. Non vediamo nient’altro e questa è la sua prigione: in quanto detenuto politico è privato di tutto: famiglia, amici, affetti. Ha la prospettiva di vent’anni di prigione. Nello spettro cromatico che si avvicina al bianco e nero della scena compare solamente un secchio rosso, entro cui il protagonista si lava le mani.  Che si tratti di Antonio Gramsci, lo spettatore è consapevole prima di entrare in sala. Lo ha letto nelle poche righe di presentazione, che riportano anche le parole del Pubblico Ministero al momento della sua condanna, poi ricordate in scena: «Per venti anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Lo spettacolo ci affida il compito di tenere da soli per come possiamo il filo della Storia con la S maiuscola, che ci racconta il Gramsci filosofo, giornalista, politico, linguista, critico letterario, per assistere alla storia di un essere umano. Non vedremo altro fino alla fine dello spettacolo che la forma concreta ed esatta dell’esemplare resistenza di un essere umano – anche se di eccezionale intelligenza e sensibilità – in cui tutti possiamo riconoscerci.
Dalle prime battute dette al microfono, l’attore Stefano Scialanga, unica presenza in scena, vince subito la sfida contro la retorica (una sfida inevitabile se si affronta un tema e un personaggio di questo calibro). La sua voce al microfono è limpida, semplice, senza orpelli. Il corpo è fermo, si muoverà pochissimo, un corpo “prigioniero” per tutto lo spettacolo, libero di muoversi solo di qualche metro come farebbe in una cella un corpo provato, oltre che dalle restrizioni, dalle malattie. Ma anche qui non ci sono eccessi né ridondanze. Nulla ci ostacola dall’essere catturati dalle parole di Scialanga.

Foto di Carolina Farina

Lo spettacolo ci presenta una drammaturgia che ruota intorno a Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Inizia a svilupparsi un intreccio di segni semplici e ben composti, raccolti in coppie di opposti: voce amplificata/voce nuda, tracce luminose/buio, parole/suoni. Il contrappunto luminoso del designer Marco Guarrera è molto efficace e scandisce l’incipit di ogni missiva, nello scorrere sempre uguale della detenzione. Ad ogni lettera appare una fenditura verticale di luce da un luogo differente della penombra, come se scrivere generasse in Gramsci uno spiraglio improvviso di ottimismo. Lui stesso scrive: «sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà». Attraverso queste lettere tenta appunto la sua resistenza come atto di volontà.
L’architettura sonora di Dario Salvagnini, che sembra descrivere lo spazio interiore del detenuto e quello fisico del carcere, si unisce alla voce in un’unica partitura e, in stretta sinergia con il regista, permette ai suoni di dialogare con il protagonista quasi alla pari, come se voce e suono fossero due attori. La resa dello spettacolo testimonia l’impegno e la ricerca multidisciplinare di un team affiatato.

Foto di Carolina Farina

La prima lettera è alla madre ed è dolce e ferma allo stesso tempo, una dichiarazione di idee, di intenti, d’amore, di scuse, di orgoglio. Mai di pentimento, avrebbe preferito la morte a questo. Un manifesto. Seguono lettere alla moglie Giulia, ai figli, alla cognata, al fratello.
L’esercizio tenace e anche ossessivo del pensiero, grazie al quale Gramsci elabora in carcere un progetto di studi che produrrà i suoi Quaderni dal carcere, l’allenamento dell’immaginazione, dal ricostruire la vita dei figli Delio e Giuliano, che non vedrà crescere (Giuliano nasce addirittura dopo il suo arresto), al dialogo con la moglie, all’amore per una famiglia che vive in Russia e di cui, dice, nel tempo viene a mancare la “sensazione molecolare”: di tutto questo siamo chiamati a fare esperienza ravvicinata, perché la violenza di quel vuoto, contro cui Gramsci esercita resilienza, è palpabile e disarmante. «Io non voglio fare né il martire né l’eroe» – scrive al fratello Carlo – «Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo».
Affiora spesso nelle lettere scelte per noi da Pako Graziani e Alessandra Ferraro, ben più temibile della consapevolezza e della lucida osservazione del decadimento fisico, il timore di una possibile alienazione morale. Sull’orlo di questo confine è la lettera alla cognata Tatiana in cui, per spiegare d’una certa trasformazione interiore che sente accadere in sé, il detenuto immagina la trasformazione delle convinzioni morali di un naufrago rispetto all’idea di cannibalismo, una volta che sono finiti i viveri.
Sappiamo che i nove anni di detenzione segneranno Gramsci irrimediabilmente, causandogli una morte che lui stesso aveva presagito.  Ma alla fine della sua storia riproposta in sala, la sua forza e la determinazione sono quello che ci resta impresso: «Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio».
Lo spettacolo è appena terminato e dunque non ci sarebbe spazio per altre parole. Eppure, seduto sul divano rosso di Fortezza Est Pako Graziani non si sottrae alle mie domande e racconta del processo che lo ha portato a mettere in scena Certo io resisterò. «Non è stato semplice maneggiare i colloqui privati di questo gigante della storia, organizzare le lettere in una drammaturgia per renderle performative senza banalizzarle, per renderne l’essenza difendendosi dall’enfasi, dalle sovrastrutture, dai luoghi comuni». E prosegue: «Alcune lettere sono state utilizzate integralmente, altre solo parzialmente, altre ancora come quelle indirizzate alla madre sono state legate-connesse in un’unica lettera utilizzata come incipit dello spettacolo. L’uso dei microfoni è un tratto distintivo dei nostri spettacoli, e sono sempre usati unicamente in maniera funzionale, in rapporto con la musica e la sonorizzazione. La drammaturgia testuale viene elaborata, creata, pensata, scritta – da me e da Alessandra Ferraro – in stretta connessione con la drammaturgia sonora elaborata da me e da Dario Salvagnini che da diversi anni cura i suoni, le musiche e l’ambiente sonoro degli spettacoli e delle performance di Margine Operativo».
«Il carattere quotidiano e privato dell’epistolario, la forma letteraria sicuramente più lontana dalla rappresentazione la rende assai difficile da recitare», ci spiega l’attore Stefano Scialanga. Aggiungiamo che lo stile delle lettere di Gramsci porta anche il peso del costante tentativo di eludere la censura del carcere (mentre ad un’altra censura, quella del Partito Comunista, saranno sottoposte in fase di prima pubblicazione). Di Gramsci l’attore ha seguito il filo rosso dell’aspetto umano di detenuto, il carattere rigoroso e schietto, l’intelligenza, l’ironia, la fantasia, persino una certa ingenuità nelle sue incrollabili convinzioni.
Il Gramsci di Graziani, nudo e senza retorica, con l’esercizio ostinato del pensiero e mantenendo viva – a costo del dolore – la sete del confronto e delle relazioni umane, diventa un esempio avvicinabile e concreto, non un monumento della storia. La sua prigione suggerisce, in un mondo che fa oramai a meno del tempo ragionato di una lettera postale ma continua a utilizzare le prigioni, che siano crude e violente oppure subdole e invisibili, che nessuno è veramente libero. E rammenta: «Tutta questa vita mi ha rinsaldato il carattere. Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio».

Foto di Carolina Farina

Certo io resisterò

 uno spettacolo di Margine Operativo
liberamente tratto da Lettere dal carcere di Antonio Gramsci
ideazione Pako Graziani e Alessandra Ferraro
regia e drammaturgia Pako Graziani
con Stefano Scialanga
sound designer Dario Salvagnini
light designer Marco Guarrera
produzione Margine Operativo
in collaborazione con Q44 – Festival della Resistenza e della Memoria, Garage Zero.

Fortezza Est, Roma, 15 dicembre 2023, nell’ambito del Progetto di Margine Operativo Ai Confini dell’Arte 2023.