CastellinAria: l’intenzione di creare un legame con il pubblico di Maria Francesca Stancapiano

Pensare di organizzare un festival non rappresenta un’idea da tutti. È una responsabilità, infatti, che in molti non hanno il coraggio di assumersi. Parecchi devono essere gli ingredienti da sapere equilibrare per ottenere non proprio un risultato perfetto, ma quanto meno appetibile. Primo fra tutti, una buona dose di creatività, una capacità organizzativa non indifferente e soprattutto un senso di collaborazione. Tutto ciò, ovviamente, non basta. Ci sono poi le rassegne tematiche di solito legate a un singolo ambito o a un autore e queste tendono a valorizzare il luogo che si abita, per un breve o lungo periodo, dove il tutto si svolge. Il modello più vicino al nostro prototipo di festival in Italia, e non solo, è quello di Bayreuth, del 1876, anno in cui Wagner dà vita al primo Festival nella città a sud della Germania. Motivo cardine di questa rassegna era creare un legame unico tra artisti e spettatori. A cosa altro, altrimenti, può servire un festival? Certo a lanciare un “prodotto” nuovo di attori e compagnie teatrali emergenti o a lanciare primi studi di quelle già note; a creare riflessioni sui processi di evoluzione o di produzione della situazione teatrale anche in luoghi altri a quelli deputati, quali il palcoscenico stesso, la piazza o site-specific.
Bene: questi sono gli ingredienti, abbiamo detto, essenziali e che non devono mancare. Premessa doverosa per introdurre quelli che sono stati i giorni trascorsi ad Alvito in occasione della Seconda Edizione di CastellinAria-Festival di Teatro Pop, dal 3 al 10 agosto, che ha visto la direzione artistica e organizzativa della Compagnia Habitas, formata da Livia Antonelli, Niccolò Matcovich e Chiara Aquaro. Fermiamoci per un attimo alla loro dichiarazione rilasciata in un’intervista, a cura di Letizia Bernazza, proprio su Liminateatri.it (https://www.liminateatri.it/?p=1162), subito dopo la conferenza stampa tenutasi a fine maggio presso Carozzerie N.O.T. Alla domanda: «Come nasce CastellinAria?», segue la risposta: «Nasce per un tacito grido – se così si può dire, usando un ossimoro – del Castello di Alvito. Livia (Antonelli) e Niccolò (Matcovich) sono andati a visitarlo nell’estate del 2017 e si è creato un cortocircuito prima di tutto emotivo: il silenzio, la luce, il sole agostano e, non ultime, quelle mura imponenti che trasudano secoli di storia hanno fatto brillare i loro occhi e scatenare la fantasia». Un grido prima di tutto emotivo, dunque. Un grido che si è lasciato prendere dal troppo entusiasmo senza, forse, raccogliere, con totale lucidità e professionalità, quelle che dovrebbero essere le caratteristiche fondamentali alla base di un festival o di una rassegna. Perché? In base all’elenco/storia che sta nell’incipit di questa riflessione, nei giorni che abbiamo passato all’interno del festival (dal 4 al 7 agosto, quest’ultimo escluso) si sono percepite volontà e creatività, quest’ultima dettata da una forte passione placcata, purtroppo, dalla confusione e dalla mancanza di comunicazione all’interno dell’organizzazione. Della logistica, ad esempio. Per alcuni di noi, essere distanti dal Castello di Alvito, ha voluto dire che il paese, durante il giorno, non era facilmente raggiungibile con l’aggravante di non poter essere immediatamente presenti agli eventi.
Ma, andiamo oltre, alla fase più importante che è quella della programmazione. Ritorniamo all’intervista citata sopra. Alla domanda: «Credete che le persone del luogo abbiano la necessità del Teatro e, quindi, di accendere, come voi, «fuochi amici» e di creare quell’«evanescenza… che lancia segnali “in Aria?». Gli organizzatori rispondono in questo modo, dopo un entusiasmante «Cento volte sì!», «L’impegno che ci prendiamo quest’anno è di coinvolgere in maniera più continuativa anche i ragazzi del territorio, che l’anno scorso si sono affacciati timidamente pensando al teatro come a qualcosa di vecchio e noioso. Ma CastellinAria vuole scardinare anche questo pregiudizio, non solo con l’offerta di spettacoli pop, come recita il sottotitolo, quindi di grande qualità ma per tutti, bensì con un’offerta che vada ben al di là del teatro e si trasformi quindi in festa pop: musica live ogni sera, attività laboratoriali a cura di associazioni del territorio in orario aperitivo, giochi di tutti i tipi (l’anno scorso grande successo del biliardino gratis, che senz’altro replicheremo quest’anno), dj set verso mezzanotte per i più scalmanati, stand enogastronomici con le eccellenze del territorio… Peraltro, tranne ovviamente cibo e bevande, tutto a offerta libera».
Ecco: già in questa dichiarazione appare chiara la base essenziale che dovrebbe avere un festival: il coinvolgimento del territorio. Cercare di “educare” le persone del luogo al teatro. Come? Offrendo qualcosa di “pop”, ossia andando incontro, forse, alle esigenze del momento? Fermiamoci un attimo: se così fosse non si tratterebbe più di educare la gente al teatro ma di accontentarla con un mezzo artistico e non solo. Con la presenza di stand di birra, pizza, dj set. Insomma, tutto ciò che ricorda più un evento paesano di intrattenimento puro dove c’è ANCHE l’offerta di spettacoli teatrali. E quanti sono al giorno gli spettacoli teatrali? Uno, quindi quelli visionati dal 4 al 6 sera tre, soltanto tre, in cui a fatica si aspettava l’avvio del festival registratosi, poi, con lo spettacolo – già vincitore (meritato) del Roma Fringe Festival 2019- Pezzi, della Compagnia Rueda Teatro, in cui viene raccontato, con trovate semplici e di elevata intelligenza, l’assenza di un padre/marito il giorno dell’8 dicembre in cui tre donne, una madre e due figlie, devono preparare l’albero di Natale; posizionare al meglio le luci; prendere le giuste palline; decidere come e quante metterne; scegliere la punta più adatta in maniera delicata.
Tre “Pezzi” di vita uniti dal sangue familiare: due sorelle e una madre. Quest’ultima, in particolare, tenta di unire una famiglia oramai sfasciata dal dolore per la perdita del capofamiglia, di cui non ne conosciamo il nome, ma sappiamo quale cravatta amava indossare, quella blu, e come si rivolgeva al rientro dal lavoro alle sue donne. Sono loro tre a rievocare l’uomo con il sorriso forzato, triste, sentito. Povera ed essenziale la scenografia: scatoloni che verranno più volte spostati e aperti e da cui uscirà un curioso albero di natale da costruire con canne di bambù. Uno spettacolo riuscito da un punto di vista drammaturgico, registico (la regia è firmata da una ragazza di soli 24 anni, Laura Nardinocchi) e interpretativo in cui davvero vediamo le diverse età e le differenti caratteristiche personali che vanno a contraddistinguere le tre donne: una madre, una bambina e una adolescente. Uno spettacolo che avvolge e coinvolge lo spettatore in un manto di tenerezza e di fragilità dove le urla prendono il sopravvento in contrapposizione ai sorrisi forzati per far sembrare tutto bello, tutto perfetto, nonostante la mancanza abbia rotto equilibri interiori. Il dolore domina il palcoscenico e penetra nel cuore dello spettatore, che riesce, finalmente, a entrare in comunione con il teatro, e a immedesimarsi in situazioni quotidiane che non necessitano per forza di una definizione verbale, perché quella è già insita in ciascuno di noi.
La sera prima di Pezzi abbiamo assistito a un “non spettacolo teatrale” a una “non performance” con grande coraggio sia da parte del pubblico (o meglio, di coloro che sono rimasti fino alla fine!) sia del regista e attore Ivano Capocciama con Viziami, un canto d’amore. Ivano Capocciama, un artista originario della Val di Comino, l’anno scorso è stato tra i fautori di CastellinAria, di cui ha co-curato la direzione artistica insieme alla Compagnia Habitas, che quest’anno gli ha dedicato il palcoscenico per una prima nazionale in cui appare il non senso del teatro, tutto ciò che, fin dall’inizio, disturba a cominciare dalla lettura dei testi, tredici lettere di donne che hanno sofferto per amore: perché leggerle, scimmiottando Carmelo Bene e finendo per scatenare soltanto un puro divertimento? Risate tra parole di donne che hanno sofferto per amore che ci conducono, di continuo, a chiederci se stiamo realmente assistendo a uno spettacolo o, piuttosto, a un intrattenimento trash dove un uomo, truccato da donna, si spoglia, rimane in reggiseno e mutande lise, lanciando marshmallow blu al pubblico e affermando che si sta divertendo. Il tutto per ben 90 minuti e senza una evidente regia.

Ritorna la domanda iniziale: dov’è la scelta della programmazione? E se c’è in base a quali criteri viene effettuata?

C’è stato, poi, un ospite a CastellinAria, la compagnia internazionale Barletti/Waas con Tristezza & Malinconia o il più solo solissimo George di tutti i tempi (4 agosto), un progetto di e con Lea Barletti e Werner Waas, e con Simona Senzacqua. Una coproduzione Compagnia Barletti/Waas nell’ambito di Fabulamundi – Playwriting Europe con AREA 06 e ItzBerlin e.V.o di cui hanno curato la traduzione del testo Lea Barletti e Werner Waas con il sostegno del Goethe-Institut. Si riconosce a questo spettacolo la capacità di aver abitato lo spazio intero del Castello di Alvito, rompendo con ironia qualsiasi parete tra attore e spettatore. Riesce nel tentativo Waas con la sua interpretazione nonché con la sua drammaturgia, costruita intorno alla tematica della depressione che ritrae la comune apatia, tutta contemporanea, dell’essere e il disincanto dell’uomo di fronte alla sua innata precarietà. Peccato si tratti di un’opera dal ritmo troppo lento.

 

Oltre agli spettacoli e alle aree di svago, il Festival ha ospitato anche degli incontri. Chi scrive ha preso parte a quello La figura del Dramaturg. Dialogo tra Renata R. Molinari e Werner Waas. Incontro nato con l’obiettivo di distinguere la figura del drammaturgo da quella del dramaturg in Italia e non solo. Bene: a parte gli interventi puntuali della Professoressa Renata Molinari, docente di Drammaturgia, si è percepita una certa confusione nell’investigare il tema centrale. Molti di noi, credo, siano usciti dalla sala con tanti punti interrogativi su cosa, quella caduta di vocale, potesse realmente fare la distinzione.

Dispiace fare un elenco pressoché “negativo” delle cose che, a mio avviso, non hanno funzionato, proprio perché non viene messa in dubbio l’intenzione dei curatori di dare vita a un Festival che avesse e, mi auguro, avrà nel futuro un ruolo importante nel territorio e nel teatro. Tuttavia, sarebbe deontologicamente scorretto non sottolineare: la debolezza di non riuscire a costruire un Festival con una tematica precisa, con una volontà ferma in grado di istituire un legame autentico tra attore e spettatore, con riflessioni su cui ragionare e da portare a casa anche se cariche di dubbi.
Dispiace perché sì, certo, alla base di CastellinAria ci sono giovani che hanno dato vita a un’impresa titanica con impegno e voglia di fare. Se non fosse stato per loro nessuno conoscerebbe Alvito, la bellezza di quel paese, la gentilezza dei suoi abitanti e la bontà della cucina locale. Cibo e intrattenimento, però, non bastano per mettere toppe a una mancanza di comunicazione, per riunirsi nei caldi giorni d’estate fuori dal circuito romano e per partecipare a una festa (e non a un Festival).
Confidiamo in una terza edizione in cui i punti cardine saranno, senza dubbio, all’ordine del giorno e dove ci sarà una scelta più accurata nella programmazione.