“Atlantide”: una scialuppa contro le merci teatrali. Ne parla Elena Arvigo Intervista di Katia Ippaso

I versi di Paul Valery illuminano la strada: «Tutto ha avuto inizio da un’interruzione». Nel bagaglio, ci sono le esperienze, i vuoti, i lutti, ma soprattutto i desideri. La volontà di non cadere nella tentazione del lamento, dell’eterna richiesta d’assistenza. La certezza che niente può dirsi veramente finito finché ci si scopre ancora capaci di creare. Il viaggio dei “sommersi” che aspirano a salvarsi da soli è appena iniziato, e potrebbe portare molto lontano. Atlantide è forse la creatura più vitale nata durante il blackout della pandemia. Partorita dallo stimolo intellettuale di un’attrice come Elena Arvigo, abituata a mettere a disposizione del cantiere-teatro i molteplici talenti di cui dispone, Atlantide mette insieme un bel gruppo di artisti di teatro (ma anche sceneggiatori e comunicatori), che, dopo un confronto nel tempo, si sono trovati a condividere alcuni principi controcorrente: la sfida alla merce spettacolare, una costante tensione conoscitiva, il rifiuto di sistemi di controllo sulla fioritura delle sperimentazioni. La prima dimostrazione pubblica di questa avventura corale è prevista per il 27 marzo, giornata mondiale del teatro: un affondo sull’Otello di Shakespeare dalle ore 15 in diretta dalla pagina Facebook di Atlantide. A farci oggi da guida per le strade immaginifiche di quello che considera “l’ottavo continente” la stessa Elena Arvigo, genovese, 46 anni.

E quindi il 27 marzo potremo assistere al primo movimento del viaggio di Atlantide. All’interno di quali scenari mi muoverete?

A causa del fatto che molte regioni hanno cambiato colore, abbiamo dovuto rinunciare a un palinsesto più complesso e corale che prevedeva un avvicendarsi di volti e testi. Ci limiteremo a presentare un docufilm realizzato da Alessandro Averone, che ha a lungo studiato l’Otello di Shakespeare. Nella Giornata Mondiale del Teatro, non potevamo che ripartire dalle fondamenta.

Chi ha aderito finora?

Elvira Scorza, Elena Gigliotti, Caterina Gramaglia, Fabrizio Martorelli, Francesco Bolo, Alessandro Averone, Monica Nappo, Cristina Perico, Valentina Banci, Mimosa Campironi, Geremia Longobardo, Emanuela Rolla, Orlando Cinque, Simone Faloppa, Matteo Alfonso, Monica Santoro, Giovanni Arezzo, Roberta Lidia De Stefano, Consorzio Balsamico, Silvia Salvatori, Fabio Sartor, Selene Gandini. E sono sicura che non ci fermeremo qui.

Sono tutti suoi compagni di viaggi teatrali?

Non tutti. Ci sono artisti che non ho mai conosciuto, attraccati nel nostro continente con i loro tesori, progetti di studio e di ricerca.

Cosa immaginate per il futuro?

Dialogo, relazione e libertà di espressione sono i punti fissi. È prevista la collaborazione con un contenitore indipendente nice platform in cui gli artisti che lo desiderano atterreranno in una vera e propria programmazione online-on demand e live. Siano nati durante il lockdown, ma speriamo di proseguire anche dopo la situazione emergenziale.

Cosa l’ha portata a immaginare Atlantide e i suoi abitanti?

Avevo bisogno di fare qualcosa che mi trascendesse.

Dopo tutta quest’assenza e tutto questo silenzio, si potrà tornare a fare spettacoli nello stesso modo con cui li si faceva prima? Non varrebbe la pena di sondare le possibilità di un cambiamento radicale del sistema-teatro?

Quest’anno di isolamento ha svelato una tragedia già avvenuta, che non riguarda solo il mondo dello spettacolo. Ha a che fare con la devastazione del contesto culturale.

Come è stato possibile che si creasse questa gigantesca rimozione? In che cosa abbiamo sbagliato tutti noi, attori, registi, mediatori culturali, spettatori?

Credo che ci sia una responsabilità collettiva, nel senso che abbiamo lasciato che avvenissero alcune cose che non hanno a che fare con l’arte, ma con il consumo. Perché ci conveniva così. Perché siamo stati viziati. Perché siamo stati disattenti. Eravamo in una rincorsa folle. Questa interruzione ha svelato la polvere sotto il tappeto. 

Non molto tempo fa le ho sentito dire che la politica si è comportata meglio del sistema teatrale. 

Il nostro ministro, i nostri politici, hanno dimostrato di non sapere di che cosa stiamo parlando. I teatri invece sì che lo sanno, e parlo soprattutto dei teatri pubblici. Si sono comportati peggio nel senso che, pur sapendo quello che avveniva, alla fine hanno negato una responsabilità. 

Quale è il pericolo maggiore?

Durante il primo lockdown, ho condotto una lotta sul piano dei diritti, delle tutele. Lotta legittima. Ma con il tempo ho compreso che il problema vero è l’estinzione dell’idea artistica. Adesso sono tutti clienti. Sono clienti i malati di Covid 19, sono clienti gli spettatori di teatro. È pericoloso chiedere continuamente agli spettatori che cosa può piacere di più. Perché il pubblico deve anche essere sorpreso. I teatri, i direttori artistici, dovrebbero fare da intermediari tra artisti e pubblico, ma se non ci ascolta nessuno, diventa difficile trovare lo spazio del dialogo. Nessuno ci ha interpellato per chiederci che cosa stavamo pensando, quali potevano essere le nostre creazioni, i progetti di studio. E tutto si trasforma in merce. 

Una crisi che non inizia con la pandemia.

È un territorio scosceso. Anche prima delle misure anti-Covid 19, tutte le volte che volevi proporre uno spettacolo, ti scontravi contro pregiudizi e automatismi. Sempre di più, a teatro bisogna portare i “nomi”.

Indubbiamente, a teatro, lei è molto conosciuta e apprezzata: nata artisticamente con Strehler, ha alternato lavori di cui è interprete e regista a lavori da scritturata (è stata diretta da maestri come Eimuntas Nekrošius e Jan Fabre). Ha lavorato anche per il cinema (il suo ruolo come protagonista nel cortometraggio Zombie di Giorgio Diritti ha avuto un grande successo al Festival di Venezia 2019), ma se dici Elena Arvigo nomini l’attrice di prosa per eccellenza. Come porta il suo nome?

Per me il teatro è sempre stata una priorità. Perché sento che mi assomiglia di più. La mia idea di attrice è più simile a quello che faccio sul palco che a quello che mi è stato fatto fare per il cinema o la televisione. Il problema è che, in questa logica di vendita e acquisto, il teatro è stato messo all’angolo. Quando il lavoro non viene visto come un’operazione teatrale ma come un’operazione commerciale, ho sempre l’impressione di aver sbagliato qualcosa, di non aver applicato una strategia. A quel punto, il mio nome lo porto male, perché sento che tutto vacilla.

È veramente possibile creare una comunità di soggetti capaci di affermare se stessi mantenendo una identità collettiva nel tempo?

Io penso di sì. E comunque non abbiamo scelta. Se non vogliamo scomparire, dobbiamo allearci. Credo che in Italia ci sia proprio un problema con la parola artista.

In che cosa fa paura?

Si ha paura della capacità di pensiero critico dell’artista. L’artista non è un intrattenitore. E non ha bisogno di conforto. Mi hanno sempre insegnato che se uno spettatore abbandona la platea, non è detto che la ragione si trovi nel fatto che non gli piace lo spettacolo. Negli ultimi anni si è affermata una volgare abitudine: gridare ai quattro venti che il proprio spettacolo ha fatto “sold-out!”. Avere il teatro pieno non è per forza rassicurante. Ha a che fare con il numero di visualizzazioni. Questo succede dappertutto. Anche a Sanremo, valgono le visualizzazioni. Fino a che non arriva Ornella Vanoni e qualcuno finalmente canta. 

A quali autori si sta dedicando?

Ritsos, Pirandello, Ibsen, Clarice Lispector.