Archivi del movimento, danza oltre il limite del suo stesso agire di Paolo Ruffini

foto André Le Corre

Al Romaeuropa Festival i lavori scenici di Sharon Eyal e Omar Rajeh

Sono figure diversissime per esperienze e attitudini sceniche Sharon Eyal e Omar Rajeh, l’una di radice israeliana e nomade artisticamente nello sperimentare i significati del movimento superando il paradigma della stessa danza mentre l’altro, libanese, è attento a ricostruire una tradizione contemporanea della danza nella cultura araba. I rispettivi lavori Love Chapter 2 e #minaret presentati a un’edizione, quella di quest’anno, del Romaeuropa Festival decisamente orientata a catturare gli enunciati politici che sorreggono le scritture e i diversi pronunciamenti linguistici, non solo ci raccontano una derivazione delle prassi coreografiche, uno spostamento del dettaglio che si trasfigura nella tensione sonora delle partiture (e si trasforma poi in “ritualità” del gesto per la Eyal e in corpo semantizzato e teatralizzato per Rajeh) o una necessità della danza di farsi portatrice di valore oltre il proprio specifico, ma si misurano soprattutto con una archiviazione sistematica del movimento. Quasi a catalogarne i presupposti “reali”. A definirsi attraverso un’analisi critica nell’atto, modulando di fatto un gesto liberato dal codice. Sharon Eyal (coadiuvata nella creazione da Gai Behar) sembra immersa in una ricerca volta a materializzare i sentimenti profondi che muovono dalle emozioni e dall’amore ma che in scena, invece, trovano una forma spietatamente estrema, quasi asemantica. Si concretizza nell’ossessione di una fisicità assoluta in quella possibilità orchestratrice di un ulteriore senso della danza, una danza spinta oltre il proprio portato narrante ma così dialetticamente riversa criticamente sul codice, tanto da restituirlo svuotato da contenuti accademici o filologici. Come un guanto rivoltato, Love Chapter 2 mantiene dunque la struttura ma ne sovverte il principio, ordisce tranelli, tracima verso uno spazio rutilante apparentemente astratto, facendoci credere quanto quei corpi siano di fatto funzioni o poco più di un tracciato di idee. È, contrariamente, una riflessione su questo tempo attraverso il gesto danzato, leggendolo e destrutturandolo, un approccio che azzarderemo postcoloniale, cioè di ri-semantizzazione di quel corpo che innesca una “overture” di movimenti reiterati senza mai liberarsi. È una scrittura sistemica alla ricerca di ellissi motivazionali, a partire da ciò che la danza oggi è in grado di dire senza cedere a forme scontate, un atto di conoscenza e ri-conoscenza nella collettività e nella spazialità. Il suo lavoro, il suo lavoro intellettuale e concettuale, è allo stesso tempo precisissimo dal punto di vista tecnico senza però vivere «nell’illusione della totale neutralità delle tecniche e dei corpi che tali tecniche rappresentano o dalle quali sono rappresentati» (1); un lavoro che educa alla memoria rispetto all’idea di opera e di immaginario che la accompagna, dove il tentativo risulta proprio quello di attingere dagli scarti piuttosto che dalle aderenze a una identità dove «il corpo tende (…) a riempirsi di segni del consumo e di materiali provenienti dalle diverse merci» (2). Naturale prosecuzione di indagine dal precedente OCD Love che già imbastiva da un altro punto di vista le stesse tematiche intorno al sentimento dell’amore, Love Chapter 2 raggiunge una assolutezza visiva. Qui lo spazio liberato da riferimenti e orientamenti è un alveo, un involucro di senso, sembrerebbe immateriale e percepito in una grana cromatica sfocata che “trattiene” i cinque danzatori. Al ritmo di un tappeto sonoro di Ori Lichtik che insegue accenti armonizzanti nella tagliente sfera dell’elettronica, dove la percussione incalzante fa tornare alla memoria un possibile indizio di danze yemenite mantenendo quell’afflato popolare di una prova con se stessi e con l’’”altro” che «riesca a riflettere e a far rivivere i sentimenti, sia individuali che collettivi, della società di cui è espressione, offrendosi nello stesso tempo a chiunque come paradigma di sentimenti e attese umane universali» (3). Quasi sempre sulle mezzepunte, con uno sforzo che evidenzia le nervature e le tensioni muscolari, i danzatori sono avvolti in un costume adamitico e essenziale, tanto da evidenziare una trasfigurazione al di là dell’oggettivo universo mostrato; l’oscillazione della quale sono avvolti viene portata a una grado di straordinaria efficacia, e come fuscelli di bosco o canne di bambù vibrano ininterrottamente, ombre del loro stesso corpo, ectoplasmi, probabilmente spiriti (ruàch, in ebraico), sono il dispositivo precisissimo ma allo stesso tempo imprevedibile di uno spettacolo mozzafiato.

foto André Le Corre

 

 

 

 

 

 

foto André Le Corre

 

 

 

 

 

 

Di tutt’altra fattura il lavoro di Omar Rajeh. La sua è una forma dolente, un corpo parlante attraverso l’enigma del presente che, in questo caso, vuole “ritrarre” la privazione, lo strazio, la sconfitta della ragione. #minaret si concentra sullo sventramento di Aleppo, sui significati che questo evento ha generato in quel suo lascito di orrori di guerre pianificate da decenni. Aleppo come metafora, Aleppo il corpo sacrificale di Ryszard Cieślak (l’attore musa di Jerzy Grotowski), Aleppo l’inettitudine dell’Occidente, ancora una volta colpevole di occuparsi soltanto dei propri affari, magari contribuendo a ingrassare le fila degli stessi aguzzini. Lo spazio è una tavolozza, apparecchiature e oggetti e danzatori che spostano e modificano le perpendicolari agite, una sorta di tela all’interno della quale si compone e si scompone l’opera proprio nel farsi del “racconto” scenico; tutti in scena, danzatori e musicisti (anche in questo caso straordinari) dove al gesto reiterato e carico d’espressione post ideologica (ovvero non patetica) fa da eco una tessitura sonora deviante, tra inceppi elettronici e parti tradizionali, si direbbe uno spazio parallelo al visivo e al contempo con esso impresso, come per un “macramè” di senso corpo e suono hanno lo stesso ruolo, la stessa grana. Si muove per quadri lo spettacolo, parti apparentemente autonome che tirano le fila di accadimenti, storie intrecciate e individuali, una mappatura di anime e di oppressioni, di figure del potere e di vittime. L’urlo di una umanità allo stremo, amplificato da un drone che volteggia come un avvoltoio per quasi tutto il tempo dello spettacolo, una “strategia” della tecnologia che aiuta a inquadrare da altre prospettive il trasformarsi dei corpi in soggetti sensienti quando non in cadaveri. Dall’alto riflesso sul fondo il video dà corpo ai corpi, ci immette nell’orrore, siamo in quella piazza, in quelle strade, ci restituisce una possibile con-partecipazione e compassione, siamo di fatto osservatori e testimoni muti, siamo quell’Occidente colpevole, noi e la nostra morale a senso unico così tanto in voga di questi tempi. Un suono sordo, un fastidio accompagna per tutto il tempo, sin dal preludio alla catastrofe guidato dal canto del muezzin, la traccia di un rumore costantemente allertante di una fine già nota e riproposta dal display di telefoni cellulari che “fermano” quelle strade o quelle piazze lacerate profondamente dai bombardamenti e dalla barbarie. Ci chiediamo, guardandoci alle spalle, cosa è cambiato? Un Novecento abituato «alla violenza sul corpo, sui muscoli, fisica, materiale, che scalfiva fin dalle radici gli stessi processi biologici» (4), è davvero superato? Questi due lavori ci ricordano quanto sia necessario porre attenzione al dettaglio, creare un archivio delle memorie, definire un vocabolario tramite la danza, seppure si vada oltre la danza, la si mastichi e risputi generando una pratica contemporanea che fa i conti con l’inconscio delle persone qui come altrove.

foto Stephen Floss
  1. Alessandro Pontremoli, La danza 2.0 – Paesaggi coreografici del nuovo millennio, Editori Laterza, Bari-Roma 2018, p. XI.
  2. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale – Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 29.
  3. Elena Bartolini De Angelis, Danza ebraica o danza israeliana? La danza popolare nel farsi dell’identità del Paese, Effetà Editrice, Torino 2012, p. 143.
  4. Leonardo Franceschini, Deconolizzare la cultura. Razza, sapere e potere: genealogie e resistenze, Ombre Corte, Verona 2013, p. 16.
foto Stephen Floss

 

 

 

 

 

 

foto Stephen Floss