Alessandro Serra rilegge “Il giardino” di Čechov come un sogno visionario e cupo di Laura Novelli

C’è un’anima palpitante ne Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov. Ed è l’anima di un’umanità aggrappata alla nostalgia di un tepore antico che si oppone al nuovo, all’imprevedibile, al progresso, alla Storia. Quest’anima inchioda i personaggi principali all’incapacità di agire e li trasforma inevitabilmente in fantasmi alle prese con le loro stesse ombre. Ma nel contempo li rende umani, fragili, insicuri, veri, universali. Tanto più luminosi perché sospesi tra farsa e tragedia.
Ultima opera del grande drammaturgo russo, Il giardino dei ciliegi – come è noto – debuttò al Teatro d’Arte di Mosca nel 1904 (pochi mesi prima della morte dell’autore) con la regia di Stanislavskji-Dančenco e con Olga Knipper, moglie di Čechov, nel ruolo della protagonista. Ovverosia quella tormentata Ljubov’ Andrèevna Ranèvskaja che, dopo cinque anni di permanenza a Parigi (dove ha sperperato il suo patrimonio e avuto una drammatica storia d’amore), torna nella sua grande tenuta russa insieme alla figlia Anja, la governante Charlotte Ivànovna e il servo Jaša. Fuggita dal suo mondo a seguito della morte del piccolo figlio maschio annegato in un fiume della proprietà, l’aristocratica Ljuba ora riallaccia coraggiosamente il nodo delle sue radici ma il giardino andrà presto all’asta e, gravata dai troppi debiti, ella non riuscirà a salvarlo. Anche qui, dunque, l’immobilità della classe nobiliare parrebbe condannare i suoi stessi artefici. Rispetto al precedente repertorio cechoviano (basti pensare a un titolo quale Tre sorelle), questo testo introduce tuttavia un movimento nell’inanità. Un bisogno di cambiamento che trova reale compimento nell’epilogo (sarà il contadino arricchito Lopachin ad acquistare il giardino per trasformarlo in terreno edificabile) e che, fuori da una lettura psicologico-sociale, non chiede di essere compreso razionalmente quanto piuttosto poeticamente.

Ci troviamo di fronte, cioè, alla modernità di un affresco umano dove la nostalgia diventa elegia, languore, commozione. E dove tutto passa attraverso le maglie del dire (o del non dire), attraverso l’intarsio dei personaggi, le sottili vibrazioni degli assolo. Commedia in parte autobiografica. Amara sì, ma forse semplicemente incline ad accettare la vita così come viene. Senza giudizio. L’opera di un tramonto, di un crepuscolo. E se molta critica ha visto nel testo un preludio dei venti rivoluzionari che da lì a poco avrebbero fatto piazza pulita dello zarismo, altrettanta ne ha sottolineato proprio il lirismo, la forza dialogica e comunicativa. Tuttavia le due visioni non confliggono perché è indubbio che l’anima palpitante de Il giardino sia il giardino stesso: memoria che si traduce nell’implacabile necessità della “prassi” e nell’altrettanto implacabile ascesa di un nuovo ceto borghese; memoria che però, agli occhi dei nobili possidenti squattrinati, resta una certezza dell’infanzia; resta lontana dall’oggettiva gravità dei debiti, quasi fosse uno spazio arioso della mente (impossibile non rievocare il biancore raffinato dello spettacolo di Giorgio Strehler o il giardino vero realizzato, anni prima, da Visconti), un luogo unitario della memoria.
Dopo il successo del suo pregevole Macbettu (premio Ubu 2017 come migliore spettacolo dell’anno), Alessandro Serra si accosta al capolavoro dell’autore russo e realizza uno spettacolo – di cui cura anche drammaturgia, scene, luci e costumi – coreografico e visionario, che amplifica la partitura originaria con continue invenzioni registiche calate in un’atmosfera cromatica scura, giocata su tonalità grigie, marroni, seppia e nere. Siamo in un sogno dai tratti cupi che prende avvio sin dal primo quadro, laddove i personaggi sono stesi a terra dormienti e si alzano uno ad uno per entrare in azione: per uscire dall’altrove onirico che precede il loro racconto “in vita”. Ad attenderli c’è chi quella dacia di campagna non l’ha mai lasciata e l’incontro avviene dentro il perimetro di un disegno scenico corale, geometrico, studiato nei dettagli, in cui ogni presenza ha il suo peso specifico. Ljuba è una Valentina Sperlì sobria e vagamente distaccata. La giovane Anja trova in Marta Cortellazzo Wiel un’interprete fresca e dinamica, mentre Varja (figlia adottiva che ha mandato avanti la proprietà durante l’assenza della madre) viene affidata a Petra Valentini, anch’ella misurata e incisiva. Il cast maschile vede, tra gli altri, Fabio Monti nel ruolo di Gaiev (fratello di Ljubov), Leonardo Capuano in quello di Lopachin e un poetico, egregio, Bruno Stori in quello del vecchio servitore Firs.

È notte fonda. Qualche fioca luce rischiara questo ritrovarsi insieme per il quale il regista immagina oggetti simbolici (sedie, un tavolino, un armadio) e un’espressività fisica sempre in levare, che in diversi passaggi si trasforma in un fermo immagine stile foto di famiglia tardo-ottocentesca o fotogramma del cinema muto. Rovesciando l’equilibrio tra registro dialogico e registro agito, Serra sembra puntare essenzialmente su due elementi costitutivi: una maniacale composizione delle immagini e una ben precisa partitura dei movimenti attoriali. Elementi qui entrambi molto puliti e curati ma forse enfatizzati al punto da far slittare in secondo piano le sottili orchestrazioni del linguaggio, del dialogo, delle pause. Non intendiamo dire che non ci sia più il testo di Čechov. Sicuramente però la revisione drammaturgica del regista, pur tenendo fede alla trama e ai fatti, li dirotta su una teatralità di tradizione quasi barocca, i cui artifici metaforici propongono una frequente analessi di quanto la parola, i silenzi, i lievi sottintesi delle parole intendono dire e/o negare. Il risultato è notevole dal punto di vista stilistico ma il “sovratono” complessivo del lavoro non restituisce a pieno, secondo noi, né l’ambigua fragilità umana propria dei protagonisti né il ritmo (quello dato dal succedersi delle scene ma anche quello interno ai personaggi stessi) di questa straordinaria opera. Certamente resta forte, negli spettatori, la visionarietà onirica che attraversa lo spettacolo e che senza dubbio intercetta le venature trasognate e infantili della scrittura cechoviana. Non a caso il ritorno della ricca possidente a casa è un ritorno nella “stanza dei bambini”, la stanza in cui la vita della protagonista in un certo qual modo si è fermata. Questo è il vero luogo generativo della storia. Lo sottolinea Serra nelle sue note. E lo aveva ben compreso già Strehler, che appuntò a margine della sua celebre regia del 1973:«Nella camera dei bambini del 1°atto ci sono “le cose” che appartenevano all’infanzia di Ljubov e Gaiev. Le battute di Ljubov non lasciano dubbio in proposito. L’indicazione di Čechov è: la camera che è “ancora” chiamata la camera dei bambini. E in quell’ ”ancora” è racchiuso, con estrema densità, il senso che probabilmente Čechov voleva dare a tutto l’ambiente-scena-racconto-situazione».
Ciò che sarà perduto alla fine è perciò, insieme al giardino, questa emblematica roccaforte interiore: Serra ce la racconta da subito come un luogo scuro, vuoto, schiarito solo da candele e attraversato da pochi oggetti che disegnano essi stessi delle istantanee dentro la visione globale della scena. Le sedie metalliche prima usate come praticabili da spostare, poi portate in spalla dal vecchio Firs come fossero elementi di un’opera d’arte contemporanea. L’armadio ligneo di Ljuba trascinato al centro del palcoscenico e umanizzato come un pageant medievale. È sempre qui, in questa stanza-mondo, che irrompe la dinamica presenza di una Carlotta danzante (Chiara Michelini) vestita prima di rosso e poi di nero, chiamata a interpretare il registro grottesco dell’opera: un fool/mago che canta e balla scuotendo il lento dissiparsi della realtà cui assistiamo. Ed è qui che gli attori mettono in scena la coreografica sequenza del ballo, sottolineato dalla musica di Shostakovich e – ancora – da un’orchestrazione corale meticolosa ma forse poco naturale. È ancora qui, infine, che il regista disegna l’incisivo gioco di ombre cinesi che accompagna l’addio di Ljubov – ingigantita nella silhouette nera del fondo – al suo giardino, al suo passato. Un distacco che è dolore personale ma anche lacerazione sociale.
Nulla, in definitiva, è lasciato al caso in questo disegno d’insieme. Eppure non vi ritroviamo la compattezza fluida e materica di Macbettu. L’opera di Čechov appare, piuttosto, appesantita da una zavorra di trovate di per sé brillanti ma alla fine dei conti poco funzionali ed eccessive. In molti tratti il lavoro risulta, infatti, lento e difficilmente fruibile, anche se è innegabile la capacità del regista di costruire un affresco fortemente visionario al quale tutti gli interpreti (compresi quelli impegnati nei ruoli minori) si prestano con estrema professionalità. Arriva qualche eco di Nekrošius, qualche altra di Sepe, ma arriva anche il ricordo nostalgico di certe intuizioni dei registi che in passato si sono misurati con la medesima opera (oltre ai già citati Visconti e Strehler, pensiamo a Stein, Brook, Dodin). E se è vero che un lavoro non va mai giudicato sulla base della tradizione scenica ad esso legata, è anche vero che Čechov è Čechov e che il suo teatro è immenso perché sa mostrare, con apparente leggerezza, la fragilità dell’uomo moderno. Se manca questa poesia rischia di  mancare, a nostro avviso, l’anima palpitante de Il giardino.

Il giardino dei ciliegi

di Anton Pavolovič Čechov
uno spettacolo di Alessandro Serra
regia, drammaturgia, scene, luci, costumi Alessandro Serra
con Arianna Aloi, Andrea Bartolome, Leonardo Capuano, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Felice Montervino, Fabio Monti, Massimiliano Poli, Valentina Sperlì, Bruno Stori, Petra Valentini
foto di scena Alessandro Serra.

Produzione Compagnia Orsini, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile del Veneto
in collaborazione con Compagnia Teatropersona, Triennale Teatro dell’Arte 

Teatro Argentina, Roma, dal 25 febbraio al 3 marzo 2020 (le repliche previste fino all’8 marzo e la successiva tournée sono state annullate a seguito delle nuove disposizioni di contrasto alla diffusione del “coronavirus” del DPCM del 4 marzo 2020).