Il gabbiano di Sepe garrisce con la melodiosità di Ranieri di Sergio Roca

Foto di Manuela Giusto

Interessante riscrittura de Il gabbiano da parte di Giancarlo Sepe che rivede tutta la narrazione della commedia cechoviana dal punto di vista delle relazioni affettive tra Kostantin Treplev e Nina ma, ancor di più, con la madre Irina Arkadina (non a caso, il regista, ha dato come sottotitolo al lavoro: à ma mère).
Dopo l’insuccesso della prima de Il gabbiano a Pietroburgo, nel 1896, Čechov fu tentato di abbandonare la via della drammaturgia teatrale e fu solo grazie all’insistenza del duo Konstantin Sergeevič Stanislavskij e Vladimir Nemirovič Dančenko se si evitò che l’autore ritornasse ad occuparsi solo della sua professione medica e a scrivere romanzi e novelle.
La storia è nota. Kostantin, aspirante drammaturgo, è innamorato di Nina che è desiderosa di entrare nel mondo dell’arte; per farla felice, il ragazzo, le fa recitare da protagonista un suo lavoro teatrale alla cui rappresentazione, rivolta a parenti e amici, è presente la madre di lui, la matura attrice Arkadina. L’insofferenza degli spettatori, in particolare della genitrice, creerà un forte turbamento nel giovane che soffrirà anche nello scoprire che Nina si è invaghita dello scrittore Trigorin – già amante di Irina – e che la giovane è decisa a trasferirsi a Mosca, non solo per intraprendere la professione di attrice, ma anche per vivere la sua storia d’amore. Deluso nella professione e nei sentimenti, Kostantin tenta il suicidio.

 

Foto di Manuela Giusto

Due anni dopo Kostantin rivede Nina che, abbandonata da Trigorin, vive la sensazione di un profondo fallimento: è sì divenuta attrice, come desiderava, ma non ha scritture di un certo rilievo mentre la sua mente è frastornata e annichilita come un quella di un gabbiano ucciso per “noia” da Treplev ai tempi del fallito spettacolo. Kostantin, affranto dal dolore e dall’incomprensione generale, si suicida.
Sepe, nel suo adattamento, come scrive nelle note di regia, rivede la realtà storica e assegna a una figura “esterna” l’analisi dello smacco della prima de Il gabbiano: «Čechov voleva capire il perché dell’insuccesso de Il gabbiano e chiama l’unica persona affidabile, un critico musicale di origine francese che non aveva di che essere geloso e rivendicativo […] un uomo che conosceva l’eterna armonia dei sentimenti […] Marcel, questo il suo nome, legge davanti a Čechov il suo testo e alla fine si sprigiona in una esegesi, un’analisi spregiudicata del testo e la messa in scena parte come una emanazione spontanea delle sue parole che diventano battute del testo e frasi di canzoni meravigliose…».
Nella versione di Sepe, Massimo Ranieri agisce come demiurgo. L’anima senza tempo del critico musicale si impegna a correggere la scrittura cechoviana “irrompendo” violentemente nella vicenda: non solo recita le battute di alcuni personaggi “espunti” (come Sorin, lo zio di Kostantin, o il medico Dorn), ma diviene anche un “altro” Kostantin più anziano, maturo (non a caso il personaggio viene indicato nella locandina come “il figlio”) il cui ruolo è aiutare, assistere, giudicare e giustificare l’autentico Kostantin de Il gabbiano (interpretato dal bravo Francesco Jacopo Provenzano). Il figlio canta (sei stupendi brani in lingua francese) e narra di sé come fosse irreale, presente e pur lontano. Ci si chiede se sia lui a far agire gli attori sulla scena, come tenta di fare il capocomico nei Sei personaggi o, viceversa, se siano loro ad obbligare la “nuova” figura a rispondere al loro impulso. È un soggetto che esprime un profondo disagio emotivo, per mancanza d’amore, per essere figlio “rifiutato” da una madre anaffettiva, egoista e invadente.

 

Foto di Manuela Giusto

Interpreta Arkadina, una determinata e “concreta” Caterina Vertova, che ha il non facile compito di rendere credibile l’arida e egocentrica donna. Arkadina si sente prigioniera di un ruolo che non le si confà perché, come «madre, è come caduta in un tranello» in quanto trova impossibile conciliare i «sogni di un’attrice e i sogni di una madre»: tanto vale star bene e occuparsi di se stessa che sopravvivere, sacrificandosi per l’amore materno.
La chiave di lettura, proposta da Sepe, lo ha obbligato a una serie di scelte registiche coraggiose e complicate. Gli attori sono stati costretti, infatti, a mantenere una recitazione antinaturalistica tale da non consentire, agli spettatori, di entrare – minimamente – in empatia con i personaggi ideati da Čechov. Molto suggestiva l’illuminazione di Maurizio Fabretti, frequentemente radente, che ha reso i volti degli interpreti surreali, a volte “infernali”, tanto che sembrava di assistere ad una processione di anime in pena, come quelle nel purgatorio dantesco, che agiscono non per loro volontà ma perché obbligate a subire gli eventi necessari alla loro espiazione.
Impossibile dare una corretta collocazione storica alla narrazione. Sia la scenografia che i costumi (entrambi ideati da Uberto Bertacca) potrebbero adattarsi ad un’area spazio-temporale così ampia da estendersi per molte decine di anni: soltanto la partitura sonora e la poltrona rossa (usata dal figlio), assieme ad un pianoforte dalla tastiera multipla, potrebbero far pensare che il critico musicale (anima di Kostantin), abbia scelto di vivere un’esperienza terrena da chansonnier in una Parigi postbellica, ma questa è una sensazione soggettiva.
Notevole l’interpretazione, oltre quella dei due citati protagonisti, degli attori incaricati di agire i ruoli a latere. Forte e sofferta Martina Grilli in Maša ed efficace Pino Tufillaro nel rendere il carattere del vanaglorioso scrittore Trigorin. Federica Stefanelli, Nina, assieme a Provenzano, Kostantin, invece, hanno dato quel tocco di giovanile freschezza e sensualità che hanno restituito, alla storia, almeno a tratti, l’originale poetica amorosa di cui il testo ottocentesco è pervaso.
Complessivamente, Sepe ha allestito uno spettacolo “visionario” che stravolge la classicità dell’opera, fornendo una chiave di lettura plausibile ma non particolarmente godibile. I collegamenti narrativi tendono a lasciare spiazzato lo spettatore colto, che conosce la storia, e confuso quello meno preparato che non ha mai letto o visto, in precedenza, tale commedia. Uno schema ispirato che però può risultare anarchico all’ occhio di chi vede.
Eccezionali i sei brani cantati da Ranieri così come, toccanti e pieni di pathos, sono stati i monologhi di Kostantin/Ranieri e di Arkadina/Vertova.

Foto di Manuela Giusto

Il gabbiano (à ma mère)
da Anton Čechov
adattamento e regia Giancarlo Sepe
con Massimo Ranieri, Caterina Vertova, Pino Tufillaro, Federica Stefanelli, Martina Grilli, Francesco Jacopo Provenzano
musiche Harmonia Team
disegno luci Maurizio Fabretti
scene e costumi Uberto Bertacca.

Teatro Quirino, Roma, fino al 31 marzo 2019.