Forever Young 2022: cinque piccoli universi nel chiostro di Rubiera di Carlo Lei

Siamo a Rubiera, nell’antico ricovero per viaggiatori e “oziosi”, come ricorda il sindaco all’apertura dei lavori, oggi centro di produzione, la Corte Ospitale, diretta da Giulia Guerra. Tutto in mattoni caldi, compresa l’antica chiesa sul lato nord, dentro il fresco della terracotta, il silenzio delle camere lasciate sfatte di prima mattina, e fuori la ferrovia, il piccolo centro col suo corso, i campi, la via Emilia, l’odore di stallatico e il ronzio delle cicale con cui si azzarda a rivaleggiare, a una certa ora, quello non meno accecante dei proiettori teatrali. Raccontare il weekend finale di Forever Young obbliga a restituire la molteplicità degli elementi e dei segni che le cinque giovani compagnie, con il loro carico di tensioni e linguaggi, mettono in campo nelle sale che attorniano il chiostro della Corte. L’ultima fase di una rassegna per compagnie under 35 che prevede un premio di produzione di 8000 euro e la presa in carico della distribuzione per le prossime due stagioni, è una tappa importante per la vita di un progetto e la giuria ha saputo farci i conti con indiscutibile attenzione.

30 minuti 

Ciascuna delle cinque compagnie ha dovuto misurarsi con uno “studio” di 30 minuti del proprio progetto. Vi è chi, come la Compagnia Maragoni/Fettarappa/Vila, probabilmente la più applaudita della cinquina (e Menzione speciale della Giuria), ha optato per l’offerta al pubblico di momenti diversi del loro spettacolo in fieri abilmente legati tra di loro, materiali scelti da un serbatoio già ben fornito. Il loro Solo quando lavoro sono felice è un dialogo con il pubblico sul tema dell’interiorizzazione delle dinamiche padronali, su quella promozione del sé che nasce nel frangente dei colloqui di lavoro, ma che rischia non solo di dilagare nella vita quotidiana extralavorativa, ma anche di intaccare la personalità, corrodendola, portandoci a una nuova forma di sdoppiamento e alla conseguente nevrosi – lampante è il lapsus di Fettarappa, che scambia gli stabilimenti di Mirafiori con villa Mirafiori, sede della facoltà di Filosofia della Sapienza. I corpi sottili dei due autori-interpreti si ritrovano dunque piegati quasi come quelli dei loro laptop, alle prese con le famigerate lettere di motivazione, con la messa a punto di un curriculum, con il disperato adeguamento di ciò che resta delle ideologie marxiste, socialiste, presocialiste, addirittura luddiste al vuoto che si para di fronte allo sdoppiato “sottoposto”. “Inferiore” lo chiamava, in un’epoca grigia ma tutto sommato più chiara della nostra, il Villaggio della Megaditta, esito grottesco delle istanze di Volponi, Bianciardi, Frassineti. Balena in questi frangenti l’ipotesi delle dimissioni come unica salvezza: ha la forma delle scatole di cartone in cui infilare i propri effetti personali prima di lasciare l’azienda in una corsa disperata “da”, non “verso” qualcosa, mentre su un altro cartone incombono stampate le inquietanti sagome a grandezza naturale dei fuggiaschi, in posa rigidamente assertiva, pollici alzati, sguardo ammiccante – morte nel cuore.

Foto di Gruppo Fotografi Rubiera

Altri, come la compagnia di Livia Rossi e Ugo Fiore, risultata vincitrice, riesce a ritagliare per quei 30 minuti una sorta di compiuta micrografia di quello che probabilmente sarà il loro spettacolo, Personne, chroniques d’une jeunesse, collocando in modo seducente la chiusa dello studio su un momento di quasi insostenibile suspense. La seduzione: è questo uno dei segni evidenti sia nel contenuto del lavoro, sia del suo linguaggio, costruito col ricorso a strumenti raffinati e composti con vera arte. Ugo Fiore, infatti, che racconta di sé in prima persona, conquista poco per volta un livello di quieta ma insostenibile intensità nella performance, in un dialogo produttivo con tutte le componenti (musica, luci, videoproiezioni, testo). Percorre con gli occhi fissi su di noi, sul filo dell’autobiografismo, i giorni della sua infanzia nella villetta di un sobborgo parigino: il fratello e il cugino sono con lui, condividono l’apnea di questa permanenza sospesa, che pare senza stagioni, scolorita come certe vecchie foto. Gli adulti sono assenti, lavorano tutto il giorno; quando appaiono o sono fugaci, trascurabili apparizioni sopra una vita di piccoli strazi, rapporti, sguardi, tradimenti, catastrofi, o sono tragicamente in ritardo sugli eventi. Gli altri due bambini, spiega Ugo, sono più simili, «sembrano loro i veri fratelli», gli usurpano il pianoforte, suonandolo a mani separate come un corpo solo, giocano a pallone, mentre lui, dall’alto del primo piano, forse non visto eppure ancora così vicino, li guarda dalla finestra. Insieme ai video dello stesso Fiore, sui quali si staglia la sua propria ombra ingigantita («E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te» è l’epigrafe nicciana del progetto), la drammaturgia sonora di Federica Furlani è anch’essa composita e organica e combina l’elettronica, la voce e la cautamente dosata aura horror del theremin, il tutto irresistibilmente proteso verso l’apparizione/nascondimento del nero oggetto, dell’inquietante gorgo non così dissimile dal tombino nel quale sprofonda il piccolo Georgie di It, che, nel caso dello studio su Personne, non ha altro che un nome – ma un nome di persona: Xavier, il nuovo amico, da incontrare nel pomeriggio, al parco, da soli.

Foto di Gruppo Fotografi Rubiera

Lavoro 

Il tema del lavoro, presente come si è visto in Solo quando lavoro sono felice è lo spettro che si aggira per molti degli studi presentati. In Gli altri #2_Serbia-Ue 2098, secondo capitolo di una trilogia il cui primo passo era stato mosso a Santarcangelo lo scorso anno, è una proiezione di cui lo spettatore può legittimamente prevedere l’apparizione. L’interessante collettivo artistico transnazionale dei Corps Citoyen inizia a raccontarci di Anja Dimitrijevic, artista di Belgrado, e delle sue vicissitudini per cercare di rimanere nell’Unione Europea. Gli strumenti rappresentativi sono quelli del teatro post-drammatico che più si interroga sui dispositivi e sui linguaggi tecnologici. La stessa Anja, nel suo glaciale abbandono appare quasi un cyborg di sé stessa, sia quando tenta (o forse no?) un dialogo con il pubblico attraverso lo schermo del pc, sia quando sotto una live-cam mostra i suoi documenti italiani e le foto della sua infanzia, anche queste già un po’ sbiadite, con i genitori e il fratellino, al mare a Capodistria. Il tema è quello degli incroci pericolosi tra vita e burocrazia, una nuova forma di potente fato che incardina le azioni umane, e potrebbe portare a un’interessante ricerca sui rispettivi condizionamenti. A questo allude il racconto a proposito della nonna di Anja, Ivanka, divenuta Giovanna nel Ventennio dell’italianizzazione forzata. La lunga parte iniziale di messa a punto degli strumenti e del canale comunicativo ha procrastinato, nell’avaro arco dei 30 minuti, il momento in cui far apparire chiaro il tema e gli sviluppi del progetto: qui la scelta dei materiali da proporre all’interno del format è stata probabilmente meno efficace che per altri. Eppure, quei temi è come se, in qualche modo, chiedessero al pubblico la pazienza di essere raggiunti in re, come una naturale compartecipazione nella loro progressiva emersione.
L’argomento “lavoro” è comparso più evidente in un progetto apparentemente distante dalla rutilante critica di Solo quando lavoro sono felice, fatto com’è di una materia sognante, danzante, tenera. Si tratta di Cartasìa, opera di un nutrito gruppo di artisti guidato da Miriam Costamagna, Andrea Lopez Nunes, Andrea Rizzo, Giovanni Consoli. Il tono e i linguaggi sono qui quelli più capaci di risvegliare il sentimento e la meraviglia – e vi riescono. Protagonista dello studio, che sta in scena senza bisogno di parole, è un artista in crisi creativa che accumula carta su carta di progetti irrisolti, nella speranza di produrre qualcosa per una prossima mostra. Ciò che accade è che tutta questa carta gettata prende vita (evidente fin dal titolo il riferimento alle schegge della disneyana Fantasia), ora rifugiandosi in uno stipetto, poi assumendo gradualmente forma umana. Le musiche sono adoperate in modo funzionale – non è escluso che il ruolo di mero sottofondo evocativo-emozionale possa svilupparsi, nel prosieguo del lavoro, in un elemento dal carattere più segnato, in un rapporto con l’azione che sia di maggiore rilievo scenico – e la tecnica dei manovratori riesce a restituire una qualità del movimento credibile, emozionante, capace di far sobbalzare e richiamare l’infantile domanda «come fanno?», carica di meraviglia. E anche se tutto pare tendente all’evasione, al sogno come antidoto alla realtà, il nucleo tematico della “rivalsa dello scarto”, del progetto abortito, del rifiuto che rivendicano il diritto alla propria esistenza è di grande attualità. Così come non è da sottovalutare la reazione dell'”apprendista stregone” alla nascita del mostro, creatura resistente ed aliena: non con forbici, asce o altre lame, ma con la tenerezza di un contatto sempre più intimo, persino sensuale, di una carezza e un ballo lento. 

Foto di Gruppo Fotografi Rubiera

Spettatori e immaginari

Dall’immaginario thrilling, quasi horror di Personne, a quello poetico del teatro di figura di Cartasìa, da quello asciutto e flat di Gli altri #2_Serbia-Ue 2098, a Forever Young si è riusciti a selezionare tutti lavori che richiedevano allo spettatore seduto in sala di presentarsi vergine al contatto con la materia delle proposte. La massima distanza misurabile potrebbe essere quella che divide il menzionato lavoro di Maragoni/Fettarappa/Vila con quello di Putéca Celidònia, gruppo napoletano che mette al centro del proprio esperimento l’impatto antropologico della lingua napoletana, incarnata dalla figura di Antonella Morea, inserita in una impalcatura di acciaio e fili di lana che ne sostiene la mole e che fa dell’attrice quasi un’installazione vivente. La meta è una rivisitazione dei Giorni felici beckettiani in un “basso” napoletano.
Il nucleo e insieme il contesto di La felicissima jurnata è, come si diceva, il testo, la sua lingua: un flusso di napoletano senza soste ma pieno di sfumature è sciorinato da Lina in ipnotiche, sempre vive, attente cadenze, mentre il suo Lello (Dario Rea) si dà da fare attorno in un ambiente che è come una protesi della struttura che imprigiona lei, e vive di azioni autolesioniste, ripetute: i fili che la moglie tira a sé sono la borsa del testo originale, mentre il marito si aggrappa con la bocca a continue tirate di fumo e a lunghe espirazioni le quali, attraverso una cannula, giungono in una borsa trasparente da flebo, riempita d’acqua. L’immaginario dell’isolamento alienato, putrido e negletto ha alcuni antecedenti (vengono in mente Acquasanta di Emma Dante, gli Stranieri di Antonio Tarantino…) e il risultato in scena potrebbe scontare, nei confronti di tutto il materiale raccolto per questo lavoro, testimoniato anche alla pagina del progetto (https://www.putecacelidonia.it/2021/04/21/felicissima-jurnata/) e dei lacerti di registrazioni audio posti in apertura allo studio, come le conseguenze di una gemmazione imperfetta, una non ancora raggiunta chiarezza del rapporto tra quella verità vera dei vicoli del Quartiere Sanità e ciò che, senza essere imitazione o contraffazione, si vuole restituire in scena, sia pure con la garanzia nobilitante di un classico della drammaturgia novecentesca a tentare di far ordine. Paradossalmente, il progetto che per la complessità della partitura gestuale, per l’impressionante struttura scenografica, per la qualità delle performance attoriali appare già compiuto, rimane ancora da risolvere, forse da reinquadrare definitivamente per dare il meritato lustro ai materiali umani e artistici.

Domenica, tardo pomeriggio: nel lento partire, tra macchine, treni, passaggi, dal chiostro di Rubiera compagnie, operatori, critici si scambiano gli ultimi abbracci e le ultime considerazioni. Le chiavi delle stanze sono riconsegnate, l’ultimo sorriso di Giulia Guerra, un po’ più stanco ma non meno largo, lampeggia dietro il portone d’ingresso, si fa silenzio nelle sale, le cicale si riprendono il loro ruolo da primedonne.