“Klub Taiga”, l’erranza di Industria Indipendente di Paolo Ruffini

Foto di Martina Leo

L’erranza rappresenta un’interrogazione politica della città, scrive Nicolas Bourriaud, una scrittura in cammino, critica dell’urbano considerato come la matrice degli scenari in cui ci muoviamo. Del mondo periferico, d’altronde, che irrompe nell’autoreferenziale equilibrio occidentale il pensiero di Borriaud si è nutrito da sempre per ridefinire priorità e spazi sociali inediti e nel tratteggiare forme del presente, dal suo punto di vista ch’è un po’ a-sistemico nella cura artistica e un po’ innervato da quel retrogusto antropologico asimmetrico, volutamente “impotente”; ci propone una radicale sottrazione dagli impliciti privilegi sui quali abbiamo imbastito il nostro sistema valoriale, rivelando inaspettati contesti minoritari, nuovi habitat e nuove disseminazioni di spazi esistenziali. Sembrerebbe che il pensiero di Bourriad, e in particolare le tesi espresse nel suo recente Il radicante, si siano depositate nell’ultimo lavoro scenico di Industria Indipendente Klub Taiga – Dear Darkness compagine romana capitanata da Erika Z. Galli e Martina Ruggeri ormai maturata nel tessere quella preziosa corrispondenza di senso tra espansioni sonoro-visuali e gesto performato denaturato dalla retorica teatrale anzi, reso persino “spossessato” il loro teatro in una naturalezza inversa, di uno spazio esistenziale (appunto) assoluto. La scena “prende forma” tra il diradarsi di uno stagnante fumo e l’arcaicità di un suono sordo che incombe, pressante si insinua, chiede udienza; lo spazio appare magmatico e trascolorato di interferenze cromatiche non definite, ricorda una sala d’altri tempi, sicuramente riporta alla mente nella sua derivazione visiva una sala di immaginari caffè balcanici di una ipotetica città-ponte della vecchia Mitteleuropa. Una feritoia tra esotismo e memoria depauperata da una idealizzazione da cartolina; con cinica irriverenza Klub Taiga è quel ponte tra l’adesso e il non più di qualcosa ch’è stato, in uno spazio zeppo di tappeti, divani e abat jour da salotto, affastellando accenti mediorientali e club privé contemporanei, tra seduzione e solitudine. Tra scomposizione dell’attenzione e trasfigurazione visiva, dunque, in quella che Henry Jenkins chiama attenzione parziale continuata «per esperire pienamente ogni universo narrativo, (e dove) i consumatori devono assumere il ruolo di cacciatori e di pazienti collezionisti, inseguendo frammenti di storia attraverso vari canali mediatici» (1). Come un mantra il tessuto sonoro cresce, amplifica la determinazione del live che di per sé ha un impatto notevole; dall’ombra alcune figure si configurano come presenze vive mentre tutto lo spazio si trasforma in contenitore di segni che organizzano le geometrie virtuali potentemente materiche. Come fantasmatiche impressioni retiniche alcuni “personaggi” iniziano a orchestrare il disegno scenico, prendono vita come “pretesto” momentaneo per poi tornare in quella dimensione inabissata tra il visibile e il non visibile; è la voce-presenza di Federica Santoro, qui splendida “rivelatrice” di un testo sempre autoriflessivo e allo stesso tempo riverso allo spettatore, esposto ovvero consegnato a quella occasione di ascolto e percezione come uno dei tanti intrecci di uno schema drammaturgico complesso. Tutto si trasformerà in accadimento dell’inatteso mai lasciato all’improvvisazione però, sebbene venga rimarcata una certa stesura trasfigurante alla happening che avrà la destinazione “magniloquente” di un concerto d’opera senza esserlo, elettro-vocale, con tanto di “enfasi” sintetiche e sintassi percussive impegnative pronte a tracimare in una trance “ambientale” preziosa e mai didascalica che il gruppo esegue magistralmente (e che annovera l’Yva di OPA OPA_invasioni balcaniche, altra formazione incandescente); nulla è lasciato al caso, dunque, tutto ha la precisione di una scena parlante alla Emir Kusturica, alla scomposizione dei piani che magicamente si tengono. Il testo detto dalla Santoro è parte della scrittura delle due autrici-registe, un segno incisivo, ricorrente nell’indicare qual è la “trattazione” politica alla quale siamo invitati ad assistere: «Indirizzo quindi le mie parole alle creature tutte che non hanno idee preconcette ed immutabili, e sono sinceramente desiderose di conoscenza, mai innocente e sempre contestabile».

Foto di Martina Leo

Klub Taiga è tante cose: rivendicazione di diritti esposta, azioni urbane disturbanti, l’imperialismo sovietico che si tinge di democrazia fallace, l’inadempienza occidentale, l’Est e i rigurgiti capitalistici di un nuovo revanscismo religioso e allo stesso tempo l’evanescenza del sogno, odalische che flessuosamente ordiscono una concupiscenza smaccata (di una Annamaria Ajmone sempre precisa nella sua scomposizione armoniosa del gesto), sale da tè che rimarcano un passé immaginario tra i paesaggi di Jean-Auguste-Dominique Ingres e l’harem concettuale di Fatema Mernissi; insomma, una stratificazione di elementi e pulsazioni che fanno di questo spazio una “bolla”, un affascinante coagulo sur-sensoriale (grazie alla maestria di Luca Brinchi). Questo insieme di elementi portano, di fatto, a una condizione, a uno stato d’animo che restituisce la narrazione oltre il mero dato letterale. Tutto accade nella possibilità stessa dell’accadere in quel trip di suoni, deviazioni percettive e azioni “non giustificate”, non necessarie, non incardinate nell’ordine del profitto estetico; come un tempo a perdere della creazione artistica, Klub Taiga minaccia un anarchismo di fondo cercando il solo significato nella sensibilità dello spettatore, nella sua disponibilità a non far coincidere testo suono e azioni ma a farne esplodere i dogmi, scintillare le diverse composizioni, deflagrare il senso come una meravigliosa possibilità di tradurre l’arte senza vincoli di genere o scuola (o accademia, ch’è peggio). Spettacolo gratificante, cinicamente sottratto al savoirfaire di tanto ciarlare l’impegno proponendo una lettura liberata dal tempo e dalle forme. Bellissimo.

1) H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano, 2006, p. XLIV.

Foto di Martina Leo

Klub Taiga – Dear Darkness
di Industria Indipendente
con Annamaria Ajmone, Luca Brinchi, Erika Z. Galli, Steve Pepe, Martina Ruggeri, Federica Santoro, Yva&The Toy George,
in collaborazione con Dario Carratta, Floating Beauty, Timo Performativo, TEIN clothing.
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
con il sostegno di Angelo Mai (Roma) e Santarcangelo Festival.

Teatro India, Roma, dal 12 al 15 maggio 2021. In tournée.