Essere nella danza Intervista a Laura Delfini di Paolo Ruffini

Foto di Diana Bandini

Figura poliedrica nella formazione della danza quale ambito di espressività e capacità sia individuale che di relazione creativa e di crescita, Laura Delfini è insegnante e studiosa del movimento e della danza nella visione labaniana. Ha studiato danza classica sin da piccola presso il Centro Danza Mimma Testa, approfondendo poi la tecnica Graham, la più diffusa a Roma alla fine degli anni Settanta (con Elsa Piperno e Joseph Fontano), per scoprire in seguito Londra e il Laban Centre. Al ritorno in Italia ha insegnato coreologia labaniana, improvvisazione e composizione, tenendo laboratori di danza educativa nelle scuole pubbliche, lavorando in scuole di territori “difficili” romani (Tor Bella Monaca, Via della Pisana), come anche nel contesto della sezione Arti e spettacolo del Liceo “Lucrezio Caro” di Roma. Continuativamente dal 1999 è docente di analisi del movimento nell’eredità labaniana e, più recentemente, anche di comunicazione interpersonale del Corso per Danzeducatore dell’Associazione Mousikè di Bologna. Dal 2012, insegna analisi e osservazione del movimento secondo i principi di Rudolf Laban nel corso di formazione in pedagogia del movimento La danza va a scuola dell’Associazione Choronde Progetto Educativo, a Roma.
È membro del comitato direttivo della DES Associazione Nazionale Danza Educazione Società. Nel 2019 ha svolto l’attività di tutor relativamente alle residenze di due giovani coreografi in qualità di coreologa nell’ambito del progetto Periferie Artistiche 2019 (Associazione Culturale Vera Stasi a Tuscania).
Oggi si interessa alla danza come realtà concreta di condivisione collettiva, luogo di espressione individuale e ambiente “narrativo” di sé.
In questa direzione, ha ideato uno straordinario progetto Archivi viventi, un’esperienza di ricerca con l’obiettivo di arginare la perdita di memoria del patrimonio della danza di ricerca italiana degli anni Ottanta. Difatti Laura spiega che «la definizione deficit identitario ritrovata in una recente lettura ha sollecitato il mio interesse; mi ha ricordato – e confermato – quanto il tema della fragilità identitaria sia un leit motiv della cultura coreutica italiana, lo stesso che nel 1993 mi portò a raccogliere in un volume dal titolo Coreografie contemporanee le schede delle coreografie di un notevole numero di autrici e autori di danza di allora. Al deficit identitario è certamente connesso un deficit di memoria a cui possiamo aggiungere l’idea di deficit di narrazione. Nel mondo della danza contemporanea si è già parlato molto di queste tematiche attraverso articoli, convegni, dialoghi e confronti; ciò significa che si tratta di un argomento non facile né nuovo».
Per quel che riguarda il progetto Archivi viventi il 19 dicembre 2020 è stato realizzato il primo appuntamento (online): una sorta di numero zero che ha visto il contributo di Claudia Monti, Giovanna Summo e Ian Sutton. Sono stati invitati ad assistere artisti, organizzatori, giornalisti, studiosi. I tre artisti hanno offerto una narrazione preparata e supportata da materiali (immagini fotografiche, disegni, video). I feedback degli invitati sono risultati tutti positivi ed estremamente utili al processo di messa a punto del progetto.
Ora il gruppo si sta ampliando, infatti sono già stati invitati altri due artisti, Teri Weikel e Alessandro Certini, oltre alla giovane studiosa e danzatrice Maria Elena Curzi. Sono in cantiere tre appuntamenti: il primo sarà una breve residenza a Tuscania (VT), dietro invito di Silvana Barbarini, un’occasione di ricerca per tutto il gruppo. Seguiranno due momenti di apertura al pubblico romano presso lo spazio Ostudio di Chiasma e un terzo in ottobre a Modena.

Come ha “preso corpo” il progetto Archivi viventi e quali sono gli artisti coinvolti? E quale afflato è stato il tuo, vista l’esperienza di cui sei portatrice, nel condividere questo percorso di recupero della memoria? 

Comincio da qualcosa di personale: mia madre, Aurora Milillo, è stata una studiosa di tradizioni popolari, di narrazione e memoria storica. Da bambina l’ho seguita in diverse ricerche sul campo, specialmente in Basilicata. L’aver ascoltato tante storie, averla accompagnata mentre con l’Uher (un -seppur portatile- pesantissimo registratore a bobina) registrava favole, ricordi e fatti, averla osservata mentre cercava di aprire un dialogo con l’interlocutore – a volte tanto distante culturalmente -, ha fortemente informato e influenzato il mio percorso di vita e di ricerca.
L’intervista è diventata per me uno strumento di conoscenza, utilizzato diverse volte, a partire dalla mia tesi di master per la quale ascoltai i sei danzatori della Sosta Palmizi, oltre al loro primo organizzatore Diego Dettori e alla loro grande maestra e coreografa Carolyn Carlson. Ho intervistato artisti di danza più o meno noti tra cui Sara Pardo e, diverse volte, Simone Forti sempre in concomitanza ad una mia partecipazione a suoi seminari.
Ho sviluppato fiducia e curiosità nell’ascolto delle faccende altrui.
Archivi viventi è nato per gioco durante il primo lockdown assieme a Claudia Monti, Giovanna Summo e Ian Sutton, con una partecipazione iniziale anche di Fernando Battista. Il progetto è andato avanti trovando una sua identità attraverso i dialoghi intercorsi tra me e i tre artisti; il loro contributo è stato determinante e mi è servito per ri-orientare più volte il pensiero e per mettere a punto il progetto.
Ho cominciato ad immaginare processi di lavoro stimolanti che potessero condurre a prodotti creativi, dinamici, fruibili della storia e delle tante storie individuali e dei piccoli gruppi, storie conosciute da pochi, spesso solamente dai contemporanei più o meno coetanei degli artisti stessi.
Ho individuato dei punti che contribuiscono a disegnare l’orizzonte di riferimento di questo progetto: alcuni spunti dalla microstoria, altri dalla public history e, infine, dall’esperienza delle human libraries.
Dalla microstoria ricevo l’attenzione ai piccoli eventi, ai particolari, come anche l’utilizzo dell’aneddotica con la sua forte potenzialità divulgativa. Ogni racconto una piccola fetta di storia, una zoomata in un evento, un fatto, un’esperienza, una pratica di danza.
Dalla public history, l’idea di far conoscere la storia a un pubblico più vasto e non specialistico; in generale, il perseguire pratiche storiche alternative.
Infine, dall’esperienza della human library l’idea che, poiché una persona è portatrice di storia, per merito delle sue esperienze di vita, si possa fare archivio. La narrazione contribuisce a smontare i pregiudizi che si creano attorno a ciò che non si conosce.
Archivi viventi nasce e si realizza in divenire per non perdere la memoria di una parte della danza italiana di ricerca degli anni Ottanta. Allo stesso tempo è una indagine e una pratica che intende creare e curare la relazione tra le persone, tra chi racconta e chi ascolta.

Il concetto di “archivio vivente” credi sia possibile applicarlo ad artisti (performer, danzatori, coreografi) generazionalmente più prossimi a questo tempo? Diverse figure della scena contemporanea italiana stanno lavorando su un proprio “archivio” del gesto definendo altre “caratteristiche” nel linguaggio segnico e del movimento, e dunque un proprio sistema di riferimenti. Una loro proposta di definizione di corpo, di movimento e di spazio scenico. A loro modo, sembrerebbero rimarcare un’esistenza nell’alveo delle tradizioni della danza e allo stesso tempo manifestare una volontà di superarne i confini. Il concetto di “archivio vivente” presuppone una storicità dell’esperienza? Come la si misura questa eventuale storicità?

Nell’ambito degli studi coreutici, attorno al tema “archivio” – declinato in vari modi – molto è stato scritto. Possono essere opere di studiosi che osservano, analizzano e sistematizzano il lavoro di specifici artisti della danza o anche opere di artisti stessi che ricercano la lista e la denominazione dei materiali di movimento a loro più cari e l’identificazione e denominazione dei modelli compositivi.
Per molto tempo la danza è stata un’arte ad esclusiva trasmissione orale, da persona a persona, il che tendenzialmente ha richiesto spazi adeguati e tempi tarati su quelli di apprendimento delle persone stesse.
Ad un certo momento sono cambiate le modalità di ricerca, da una parte per le curiosità e gli stimoli emergenti dalla tecnologia, dall’altra per la diversa distribuzione delle risorse economiche non sempre sufficienti a supportare i modi e i tempi della danza in presenza.
Un esempio tra tanti è rappresentato dalla ricerca Improvisation Technologies di William Forsythe che nacque con lo scopo di rendere autonomi i danzatori appena arrivati nella compagnia: l’identificazione, la sistematizzazione e l’organizzazione all’interno di un sistema informatico di quello specifico modo di danzare, ha fatto storia. Con il pragmatismo che lo contraddistingue, il coreografo americano ne ha spesso parlato come uno strumento nato per velocizzare i tempi di apprendimento dei nuovi danzatori e quindi della sua utilità anche nel far risparmiare tempo e denaro alla compagnia.
Ogni gruppo cerca di creare un lessico perché i diversi membri possano comunicare e capirsi tra loro. La danza lo ha fatto, sia cercando linguaggi universali che aspirano a un “neutro” stilistico (vedi Laban, Benesh) sia ridefinendosi in base a stili specifici. In fondo un archivio è un punto di riferimento, un insieme a cui poter sempre tornare. Si costruiscono archivi per organizzare mondi e non perdersi nel caos.
In Archivi viventi la persona-artista è la sede della raccolta di documenti, privati e pubblici, in fluttuante equilibrio. Tutto è embodied.
Si tratta di persone che raccontano ad altre persone, come quando in famiglia si guardavano le fotografie per richiamare alla memoria un fatto, un luogo, un odore. I fili dei racconti si intersecano e costituiscono una rete solida di conoscenze, di umori, di ironie e di intelligenze. Il solo fatto di tessere una rete assieme ad altre persone crea solidità. Il focus qui è sul collettivo fatto di individui che insieme fanno una storia raccontabile.
Alla prima domanda rispondo che ci si fa “archivio” non appena si comincia a collezionare storia; all’ultima che la storicità dell’esperienza si misura in base al desiderio di trasmissione, alla volontà al dialogo, alla fiducia riposta nella relazione tra le persone. Se una delle due persone a capo del filo lo lascia cadere, si perde la connessione.

Trasmissione di una esperienza, trasmissione di un codice. La definizione di un linguaggio (non una lingua) per un coreografo/danzatore/performer passa attraverso quale percorso?
Quanto influisce, se influisce, secondo te, l’immaginario? Per immaginario intendo quel portato di segni e costruzioni di pensiero alle quali ci si riferisce (si riferisce il coreografo/danzatore/performer) non soltanto in termini di pratiche esperite ma anche, se non soprattutto in termini di “adesioni” concettuali. Penso a una serie di epigoni nel cosiddetto Terzo Teatro o in certe esperienze “derivative” da fascinazioni della Bausch o della Carlson, ma gli esempi potrebbero essere molti altri.
E ancora, la costruzione di un archivio non si nutre, secondo te, anche di interferenze “oggettive”, depositate e dunque cercate in un altrove rispetto al corpo del performer?

Le tue domande sollevano questioni molto ampie a cui non credo sia semplice rispondere in generale. Provo facendo riferimento a ciò che ho intercettato durante alcune mie esperienze e approfondimenti.
Poiché nella danza esistono il danzatore e il coreografo, due corpi, due storie, due biografie, mi concentro sul coreografo o, comunque, su colui che più frequentemente tende ad assumere un ruolo centrale e coordinante e una responsabilità fondativa. Potrebbe anche essere un collettivo o anche una realtà che prevede esplicitamente la dimensione del danzatore come co-creatore.
Credo che ogni percorso nasca da una domanda. La domanda crea una forza che spinge. La spinta apre un percorso.
Il percorso attraverso cui passa un coreografo per definire il proprio linguaggio è personale, certamente intriso di elementi storici e biografici, è un’esperienza unica. Può essere molto intimo e aprirsi con cautela al mondo o esplodere e spalancarsi. Consapevolmente o meno fa riferimento e, allo stesso tempo, disegna un orizzonte artistico, culturale e politico. Anche per merito del dialogo tra il coreografo (o il collettivo) e i danzatori o i performer e con il pubblico o con altri partecipanti piano piano si tracciano un’identità linguistica e una visione e affermazione artistiche.
Queste affermazioni artistiche sono varie e diverse. Seguendo la linea che va dal personale all’universale, si collocano ciascuna in un punto diverso, ma tutte vivono della tensione tra questi due punti.
Riprendo dalla tua domanda: l’immaginario, i segni e le costruzioni di pensiero come anche le adesioni concettuali costituiscono le fondamenta sul quale il vissuto individuale si poggia per intercettare e intersecarsi con i colori, sapori, odori del mondo, ma anche con dolori, felicità, incertezze, e ancora ingiustizie, ribellioni e utopie.
L’artista è inserito in una contemporaneità di cui percepisce le istanze.
Per esempio: il tema del risparmiare tempo che ho nominato sopra in riferimento a William Forsythe mentre dirigeva il Frankfurt Ballet (1984-2004), pur probabilmente continuando ad essere un argomento valido in diverse realtà, oggi non ha più quel ruolo e valore di spinta creativa che ebbe in quel contesto e in quegli anni. Piuttosto in questo momento la necessità può avere a che fare con il prendersi il tempo, con la lentezza e l’ascolto. O anche con più artigianato e meno tecnologia, più collettivo e meno assolo.
Riguardo all’ultima domanda, credo che anche quando si attinge – usando le tue parole – «a interferenze depositate e dunque cercate in un altrove rispetto al corpo del performer», seppure non sempre consapevolmente, da quell’altrove ciascuno opera delle scelte. Con questo voglio dire che l’interferenza “oggettiva” non esiste, è sempre soggettiva perché c’è chi la vede e la sceglie e c’è chi non la nota affatto.

Quali sono, se ci sono, le parole della “danza”? 

La risposta a questa domanda può cambiare anche in relazione al momento storico. Alcune parole sono intrise di contemporaneità, altre ritornano, altre ancora si consolidano, altre, infine, sono universali.
Poiché la danza è una questione artistica, educativa, culturale e politica, le parole che si scelgono sono molto importanti, definiscono percorsi e determinano obiettivi.
La scelta è orientata da ciò in cui si crede e di cui ci si occupa.
Ciò che segue traccia la mia strada da diverso tempo.
La danza sostiene l’integrazione interiore della persona. INTEGRAZIONE.
La danza apre nuove modalità di relazione e ne sostiene il consolidamento. APERTURA. RELAZIONI.
La danza, come anche altre arti, contribuisce alla creazione di un patrimonio interiore che libera la persona da temi e pensieri ripetitivi e mortificanti: praticarla ci ricorda che le persone, i corpi e le menti hanno possibilità espressive, cognitive e comunicative estremamente più ricche di quello che può apparire. LIBERTÀ. CREATIVITÀ. EMPOWERMENT.
La danza è per tutti. INCLUSIONE.
Aggiungo che per me oggi la danza ha bisogno di piccoli progetti curati, di stimolo per il corpo e il pensiero. PICCOLO. CURA. CORPO. PENSIERO.

Esistono, dal tuo punto di vista, vocabolari specifici che articolano o definiscono il “discorso” scenico? Come contribuiscono a dispiegare il senso del lavoro e delle progettualità? 

Ti rispondo con un racconto personale.
Dal 1988 al 1992 ho studiato al Laban di Londra dove mi sono immersa in quelli che si chiamavano i choreological studies come allieva di Valerie Preston-Dunlop, ex assistente di Laban, studiosa e ricercatrice, notissima e apprezzatissima labaniana. Il plurale era molto importante rispetto a un choreology scultoreo e singolare.
Nel 1987 la definizione di choreological studies era stata: “studio pratico-teorico della forma e del contenuto della danza incentrato sullo studio strutturale del medium di danza, ossia performer, movimento, suono e spazio utilizzando quattro modelli di indagine: esperienziale, esplorativo, analitico, documentario”. Questa definizione si trova citata su un libro del 1995 dal titolo Dance Words compilato da Valerie Preston-Dunlop stessa.
Ciò che all’epoca di quella pubblicazione mi stupì fu che una studiosa così intrinsecamente labaniana come la Preston-Dunlop, che si era occupata di rintracciare gli universali e di organizzarli nell’ambito di quei choreological studies, pubblicasse un testo che comprendeva anche i lessici interni alle compagnie. Cosicché, ad esempio, vi si trova la definizione di working alongside another performer. Si tratta di un modo ideato dalla coreografa Yolande Snaith per significare: “Un processo di improvvisazione in cui i performer utilizzano la loro visione laterale per diventare consapevoli del materiale (di movimento) degli altri, permettendo così a chi osserva da fuori (pubblico) di notare le relazioni che accadono spontaneamente di cui i performer non fanno necessariamente esperienza”.
Ecco.
Dance Words è un testo di oltre 700 pagine che, personalmente, trovo utile e geniale. Una grande risorsa.
L’aspirazione è quella di un vocabolario che raccoglie le parole di danza di tutti. Per me rappresenta benissimo la ricchezza e la varietà della cultura di danza, l’importanza di coniugare linguaggi provenienti da aree di studio differenti rimanendo aperti alla comunicazione e allo scambio. 

E infine, ha ancora un ruolo in tutto ciò la critica? 

Nulla ha un ruolo se non è inserito all’interno di una rete. La rete nutre la rete stessa in una circuitazione continua, in un sistema di vasi comunicanti. I punti di incontro della rete sono le persone che stanno studiando danza (pratica/teoria), i danzatori pensanti, gli storici, i critici, gli studiosi di danza in genere (sociologia, estetica, coreologia), gli operatori di danza nella scuola e nelle comunità. Il critico ha bisogno, come ciascuno di noi, di scrivere per un lettore, di parlare per un ascoltatore. E viceversa.
Le storie migliori sono quelle in cui si crea una coincidenza temporale tra artisti e critici. Un esempio virtuoso è il sodalizio tra i coreografi postmodern americani e Sally Banes: i suoi testi sono ancora oggi un concreto e prezioso punto di riferimento e molti coreografi devono la loro notorietà anche ai suoi scritti.
Tutti abbiamo bisogno di essere visti o letti, sia l’artista sia il critico; insomma di non essere invisibili.
Quando è curiosa e interessata ai percorsi, la critica ha ancora un ruolo molto importante.
Oggi mi porrei una domanda differente, ossia se la scrittura, così come noi la conosciamo e pratichiamo – e di conseguenza la sua lettura – può ancora così come è rappresentare uno strumento sufficiente oppure se si rende necessario prefigurare nuovi modelli di comunicazione.