Graphic novel d’autore: “Impeesa” e “Patria” di Paolo Ruffini

Acclarato che il fumetto abbia raggiunto anche in Italia il suo peso specifico culturale per nulla scontato, vista l’atavica ritrosia di una certa idea di intrattenimento mainstream (e con questa una sorniona “accademia” con la puzza sotto il naso che si rivela anche in inaspettate risacche della sperimentazione), gli si di riconosce allora profondità di analisi e mai scontate deviazioni visive e ai suoi autori, veri e propri generatori di visionarie interferenze nei piani sequenza o nei campi lunghi, la capacità di recuperare l’epos con strumenti a intermittenza dove il fermo immagine delle strisce si carica di spessore letterario grazie all’immaterialità dialettica delle nuvole. Di fatto, l’evoluzione del fumetto ha raggiunto punti di non ritorno eccellenti e immaginifici anche in ambito della cosiddetta narrazione pop; che siano la serialità di alcuni personaggi riproposti nel loro avvicendarsi avventuroso o le istantanee di oggetti grafici più dichiaratamente “poetici” persino “pittorici”, la nona arte ha ormai uno spazio di familiarità con un pubblico non solo fidelizzato storicamente, cooptando tra gli aficionados una crescente area che va ben oltre la “preveggenza” di Umberto Eco. Due uscite recenti da scovare in libreria ci rimandano a quel senso di epifania visiva motivata da uno spazio mentale e per certi versi minoritario che del fumetto è una caratteristica, due libri ancora dentro l’emisfero di un racconto per immagini che restituisce un corpus storico, o porzioni di esso, dove si susseguono gli eventi facendo stridere gli ordigni della memoria, ma che hanno il grande pregio di recuperare con luce nuove storie – appunto – per certi versi “secondarie”, delle quali si conoscono soltanto alcuni aspetti, spesso non quelli rilevanti. Le due uscite in questione riportano, ognuno con lo specifico linguistico e segnico che le contraddistinguono, un’altra versione, forse anche soltanto l’incandescenza emozionale di storie che appartengono a loro modo se non alla storia di tutti, almeno a quella di molti. Torna il tratto incisivo e allo stesso tempo evocativo, sfumato, di Ivo Milazzo con un racconto firmato con Paolo Fizzarotti per le Edizioni NPE (2021, euro 16,90), una ricostruzione per tasselli della vita di Robert Stephenson Smyth Powell, meglio conosciuto come Baden-Powell il fondatore dello scoutismo. Impeesa – ovvero l’animale che non dorme mai, così lo chiamavano i Matabele africani – è una figura complessa, almeno con la sfaccettata caratteristica di un uomo sempre alla ricerca e con uno spiccato senso dell’onore, anche quando le regole le modella sul proprio senso pratico. Il dialogo tra Baden-Powell e (scopriamo pian piano nella lettura) Rudyard Kipling è infarcito in un continuo flashback di nozioni sul senso dell’esperienza nella natura, di scoperte di mondi e culture con la sfacciata fortuna di riuscire sempre a cavarsela anche in situazioni davvero difficili. Il segno di Milazzo benché evoluto rimane quello intatto che abbiamo conosciuto in Welcome to Springville, in Tiki o Tom’s bar, o ancora nel recente e commovente Un drago a forma di nuvola, per non parlare dello straordinario e indimenticabile Ken Parker che ha nutrito più di una generazione fino all’ultima avventura, quando si è sperato che potesse sopravvivere a se stesso, al suo spirito di continua scommessa con la vita, invece di cadere a causa di un maledetto incontro con la delinquenza, uno dei tanti, ma questo quello fatale. Come non ricordare la prima “inquadratura”, nel primo numero di Lungo fucile, nell’innevato Montana che abbiamo imparato a conoscere quale paesaggismo di fine Ottocento dove addirittura si percepiva il fiato dei personaggi nel freddo gelido degli immensi spazi della natura, un piccolo segno che apriva a un mondo di immaginari persino tattili dei quali Milazzo è maestro. Impeesa è un non-romanzo di grande spessore, sicuramente per la ricostruzione che ne fa lo “sceneggiatore” Fizzarotti, ma non si dolga quest’ultimo se qui rimarchiamo la splendida ricostruzione ambientale fatta dai disegni e acquerelli di Milazzo, veri gettiti di colore “sezionati” da figure e ombre di una precisione “allucinata”, quasi realistica. L’Africa, l’India, Londra e molti altri luoghi alimentano un racconto avventuroso proprio ottocentesco, in qualche modo alla Kipling. Manca, e dispiace rilevarlo, una giusta lettura di quel periodo, quel distacco dall’enfasi narrativa che ci aiuterebbe a capire che, poi, di epoca coloniale trattasi, con tutto ciò che ne consegue. Insomma, avremmo gradito una maggiore consapevolezza critica, al di là della grancassa di un eroismo versione imperialista e che in Italia come eredità si è depositata prevalentemente in ambienti cattolici, sebbene i lupetti e le coccinelle nostrani sono soltanto la parodia delle intenzioni di Baden-Powell. Tutt’altra natura presenta il lavoro di graphic novel di Toni Fejzula Zecevic tratto dal romanzo di Fernando Aramburu Patria edito da Guanda Graphic (2020, euro 24,00). Ricordiamo senz’altro uno dei romanzi più laceranti degli ultimi anni dove il discorso sulla memoria è rovesciato, uno spostamento di prospettiva lasciata senza commento “morale” e che ha per interfaccia Bittori, una vedova un po’ stonata di testa, sembrerebbe, ma centrale nella sua capacità di ricostruire un pensiero e uno spazio temporale del tutto sconquassato di una comunità alla disperata ricerca di ritrovarsi dopo il delirio della lotta armata dell’ETA. Siamo negli anni da poco trascorsi nella Spagna spossessata dopo rivendicazioni da parte della lotta basca, una società allo sfinimento e dove i morti giudicano i vivi per l’inadempienza di una civiltà che non fa differenza tra innocenti e coinvolti nel conflitto. Bittori torna ossessivamente al cimitero per parlare con il marito Txato ucciso dai terroristi, un atto intimo ed estremo, vicino alla follia. Gli confida che tornerà ad abitare nella vecchia casa, il luogo del loro amore lasciato dopo la sua morte per non infastidire ulteriormente la “sensibilità” del paesino che mal sopporta la “testimonianza”, il vero della presenza della vittima. La memoria, si sa, è soprattutto un problema. Percorso di riconciliazione, recupero di relazioni di un mondo esploso dove tutti, a diversi livelli, sono coinvolti: qualcuno è sorella di un assassino, altri sono testimoni di fatti, altri ancora hanno scelto di non vedere e di tacere. Il presente come per il passato, anche relativamente recente, e pensiamo alla Shoah, è sempre una opportunità di verità, se la si vuole cogliere. L’architettura di Fejzula, autore di matite e cere notevolissime, segue pedissequamente la struttura narrante del romanzo, concedendosi salti temporali che hanno a che fare con l’onirico, sogno e incubo che si ripresentano per riscuotere il senso di una vita paradossalmente in continuità di tensione e paure dal franchismo al terrorismo. Libro meraviglioso, scritto con l’acume di un ricostruttore di parole passate al setaccio dal romanzo, di per sé opera grandiosa, e un sintomo visivo tenuto dalla stessa frizione emotiva di quelle parole, mai rilassato, mai pacato, lì a ricordarci la prossimità della furia della violenza. Un libro che parla oltre la sfera della graphic novel, un’opera possente. Lo stesso Fejzula in uno dei suoi incipit all’inizio del libro ci ricorda che «secondo Umberto Eco i libri si parlano l’uno con l’altro, di secolo in secolo. Magari qualcuno riesce ad arrivare un po’ più in là».