Lo stato dell’arte: con C.Re.S.Co. tra i boschi di Campsirago di Simone Pacini

“Progetto Conrad”. Foto di Michela Cerini

Ascoltare, camminare, confrontarsi: parto dalla fine, con le tre azioni principali che hanno segnato l’esperienza che cercherò di ripercorrere in questo report. A Campsirago, nel cuore della Brianza, durante il secondo fine settimana del festival Il Giardino delle Esperidi, ribattezzato quest’anno Esperidi on the moon, si è svolta il 4 e 5 luglio 2020 la nona tappa (la prima del 2020) de Lo stato dell’arte, il progetto che C.Re.S.Co. porta avanti dal 2018 per parlare di poetiche e spostarsi per una volta dalle politiche, suo pane quotidiano.

La formula è consolidata: un festival, due giorni, quattro compagnie che si raccontano a vicenda un loro progetto in fieri (a che punto è il loro “stato dell’arte”), un “testimone interessato”, un narratore (stavolta il sottoscritto), un’apertura alla comunità del festival.

Il coronavirus aveva messo in difficoltà tutto questo, ma nelle riunioni a distanza degli scorsi mesi Michele Losi, direttore artistico del festival e membro del Tavolo delle Idee di C.Re.S.Co. che cura il progetto, da subito aveva manifestato con ostinatezza la volontà di andare avanti nella programmazione.

Detto, fatto. Ci ritroviamo in mezzo al bosco con quattro compagnie, per tre progetti: la compagnia INTI che con Campsirago Residenza ha ideato il Progetto Conrad, la piccola compagnia Palazzo Tavoli dalla Calabria e Fossick Project. Insieme a loro c’è Laura Valli direttrice artistica di Qui e ora come testimone interessata, Raffaella Giancipoli come testimone C.Re.S.Co. e il sottoscritto.

Tocca al padrone di casa Losi aprire le danze: «Vado nei boschi da quando ho 5 anni, all’inizio con mio nonno e poi come guida alpina durante gli anni dell’università. Questa relazione con la natura mi ha portato a realizzare spettacoli legati al paesaggio, prima con Sista Bramini in un filone “grotowskiano”, poi con cose più mie. Avere una residenza teatrale in mezzo al bosco non è certo un caso e sicuramente alimenta il mio fare artistico. Durante il lockdown mi ha chiamato Luigi D’Elia, attore e narratore più volte ospite al festival, e mi ha proposto di fare un progetto su Joseph Conrad e il suo Cuore di tenebra. Accetto con entusiasmo e nelle riunioni a seguire immaginiamo subito una progettualità fuori dagli schemi di produzione, senza comfort».

Continua Losi nella sua introduzione: «Ci diamo subito un appuntamento: appena possibile ciascuno di noi farà un esperienza nella natura: Luigi con Michela Cerini (videomaker che cura le immagini per il progetto) vanno nella riserva naturale di Torre Guaceto, in Puglia. Io, Alvise Crovato (fotografo del progetto) e Diego Dioguardi (sound designer) ci disperdiamo per le Alpi, attaccati dagli stambecchi. È chiaro fin da subito che il progetto prenderà esiti diversi: immaginiamo 30 cortometraggi in altrettanti luoghi wilderness per realizzare una serie tv, sentieri esperienziali con tempi molto lunghi, anche di 3/7 giorni, nella natura selvaggia, laboratori. Al momento siamo in una fase di pura sperimentazione, che ci dà la possibilità di stare intorno alla natura. Di avere paura. Di guardare in modo differente».

Sottolinea D’Elia: «Serve una regia delle diverse operazioni? Questo progetto vuole uscire dai vecchi schemi produttivi degli spettacoli».

Interviene Michela Cerini, che ha già realizzato a Torre Guaceto il primo dei trenta cortometraggi (con interpretazione e testi di D’Elia): «Mi sono chiesta come possiamo raccontare la natura e mi sono risposta: attraverso la poetica. Anche con foto e video ma sempre riconnessi alla natura. Credo che sia importante fare questo per alleggerire il termine natura. Per valorizzare gli ambienti naturali con le parole del teatro. È una rarefazione necessaria per vedere tutto in maniera allo stesso tempo leggera e profonda. Oltre alle azioni dal vivo, ci siamo immaginati anche una piattaforma web dove mettere suoni, immagini e riflessioni».

Laura Valli suggerisce un filo conduttore tra le 30 narrazioni, che partono da Conrad come caduta da un baratro e possono parlare di solitudine nella natura, di perdita di controllo. Ma anche della solitudine di oggi, quella legata al lockdown.

Tocca a Losi chiudere questo primo giro: «In Conrad, la natura si scontra con la ragione e questa no comfort zone che stiamo tratteggiando sarà il fil rouge del progetto. Ci immaginiamo laboratori nella natura in una performance continua. Il prossimo esperimento sarà su Il barone rampante, vogliamo dormire tre giorni in mezzo agli alberi. Anche il logo che abbiamo scelto va in questa direzione: un lichene stilizzato come essere primordiale».

“Luachi”. Foto di Alvise Crovato

Stefano Cuzzocrea ideatore e curatore del progetto Luachi della piccola compagnia Palazzo Tavoli che ha avuto un primo studio pochi giorni prima al festival brianzolo, ci introduce il progetto: «I canti polivocali sono vivi o morti? Siamo partiti da questa suggestione, ma anche da un progetto concreto del 2018 a Belmonte Calabro, nell’Ex Convento Cappuccini, che si chiama rifugi d’aria_Border – festa di comunità. Lì già da qualche anno cercavamo di ripensare il concetto di “festival” per un piccolo paese dove non ci sono teatri. Abbiamo cercato di realizzare una “festa di comunità” a più livelli: con il documentario, il teatro e la parola. Quell’anno avevo chiesto ad Alessio Bressi di venire in residenza con un’idea sui canti polivocali calabresi. Dato che mancano le comunità locali di una volta, il canto oggi può essere reinventato diventando pratica performativa, attraverso una cura e una messa nello spazio. Ho coinvolto per questo Ester Tatangelo, che con i cantori ha lavorato in natura in spazi aperti».

Cuzzocrea finisce il suo intervento citando l’antropologo Ernesto De Martino, che ha affermato: «Tutte le volte che vado giù succede che a un certo punto cantano. Io faccio domande e la gente prende e canta».

Anna Maria Civico, cantante, si sofferma su alcune questioni legate al canto: «Il canto contadino non è musica da palco, ma nasce come medium di comunicazione per chiamare animali, persone. Quelli che noi affrontiamo non sono canti paraliturgici, ma parlano sostanzialmente di lavoro e amore. Per noi è subito stata una necessità dare forma alle suggestioni poetiche con le immagini. Oltre che a rimodellare le voci naturali a favore di un’esigenza musicale molto precisa. Nel nostro lavoro ci sono elementi vocali come il sussurro e il verso che sono molto presenti. Anche perché l’ambiente naturale si imprime: ad esempio il belato delle pecore nella tradizione sarda, ma anche i rumori del vento e dell’acqua a contatto con le pietre».

«Nella messa nello spazio di Luachi» – aggiunge Cuzzocrea – «ci ha ispirato il realismo magico, quello dei nostri nonni. Il loro rapporto con la natura, immaginare un mondo dove tutto era vita. Col canto raccontiamo come ogni parte della natura sia viva. In questa fase stiamo riflettendo sulla modalità di ascolto: che può essere dal vivo, mediata da un impianto, in cuffia, anche perché Luachi parla del suono più che della parola, è quello il suo mezzo di comunicazione. Fino ad adesso i canti sono stati letteralmente “buttati” nella piazza, ma siamo solo ad un primo studio».

“Luachi”. Foto di Alvise Crovato

Ester Tatangelo si inserisce per raccontare come è entrata nel progetto: «A quell’edizione di Border ero presente come spettatrice per il concerto di Alessio Bressi, in una chiesa dove ci sono i volti e le mani dei santi. Me lo ricordo come una cura, un bagno di vibrazioni. In seguito mi ha chiamato Stefano proponendomi di teatralizzare quei canti polivocali. Sarebbe stato per me il ritorno nella mia Calabria, tanto più che nella mia famiglia ci era impedito di parlare in dialetto. Alla distanza (io abito a Roma) si sono sommate la cura e l’attenzione. Così ho iniziato a tirar fuori delle immagini dai canti. Ho pensato subito che non fosse necessario inserire testi».

«Un aneddoto importante per la genesi di Luachi» – prosegue Tatangelo – «è stata la trasferta del gruppo a Cardeto per un evento con la figlia dell’etnomusicologo Alan Lomax (che negli anni Cinquanta ha condotto una vasta opera di registrazioni sul campo in Italia). Lì i canti erano spariti. A Belmonte invece lavoravamo con i canti, soltanto. Ho notato delle incisioni sugli strumenti. Ho pensato a Le Vie dei Canti di Bruce Chatwin. Per questo ho chiesto ai cantanti di portare oggetti che avevano relazioni con quei canti, come bagattelle o asciugamano di lino. In seguito sono nate immagini vere sulle quali abbiamo realizzato delle improvvisazioni. È venuta fuori una sequenza onirica, grazie ad esempio al rapporto con i Giganti calabresi, un teatro di figura popolare dalle nostre parti, e con le loro danze che sfiorano i bambini, nelle feste popolari. Ricordo la paura e l’eccitazione nell’essere toccati. Nel nostro progetto i giganti sono stati “depotenziati”. Non nascondo una certa difficoltà a raccontare il contemporaneo, a metterlo in relazione con la tradizione. Perché emergevano sempre immagini arcaiche. Stiamo pensando ad un ulteriore lavoro sul suono attraverso ad esempio la radio, il digitale, il cacophoner per lo sviluppo del progetto».

La parola “contemporaneo” scuote l’assemblea: per Laura Valli «Contemporaneo non è un codice ma anche solo quello che accade». Raffaella Giancipoli si chiede «Cosa c’è di contemporaneo in questo?».

“Firecharmers”. Foto di Alvise Crovato

La giornata volge verso il termine, c’è tempo per Cecilia Valagussa di Fossick Project di introdurre il loro duo di musica e immagini, dedicato agli animali in via di estinzione. Il debutto è stato in Nepal nel 2016 con il Pangolino, a seguire, grazie ad una residenza in India, hanno lavorato con l’otarda indiana, nel 2019. Nel nuovo progetto, il primo “italiano” anche per causa Covid, gli animali “in scena” sono la salamandrina dagli occhiali, l’ululone, e il tritone crestato. A questi si unisce il fishing cat. Cecilia lavora con la lavagna luminosa, «qualcosa che mi ricorda le scuole medie» dice, mentre ci fa vedere i bellissimi designi che raccontano più di mille parole. Marta Del Grandi usa voce, synth e chitarra.

Nel secondo giorno cambiamo location e ci trasferiamo nella piccionaia di Campsirago Residenza. Cambiano anche i protagonisti, per il Progetto Conrad (che nel frattempo ha debuttato con una camminata in natura) raccogliamo le testimonianze di Diego Dioguardi (che ci racconta del campeggio libero in val di Mello) e di Alvise Crovato, che sposta l’attenzione sul secondo riferimento del progetto: Le Vie dei Canti di Chatwin, curiosamente (ma non troppo) già citato per Luachi.

“Progetto Conrad”. Foto di Alvise Crovato

«Mentre Luigi e Michela erano a Torre Guaceto e Michele e Diego in Val di Mello» – racconta Crovato – «io sono andato sul Gran Paradiso a fotografare il territorio. Cosa che ho ripetuto qui a Campsirago prima del debutto, per dare suggestioni riguardo al sentiero. Il risultato sono due reportage con uno stile fotografico che cita le epoche dei due libri: il primo molto vignettato come nella fine Ottocento di Conrad, l’altro dai colori contrastati come le pellicole di fine anni Settanta di Chatwin».

«Sopratutto qui a Campsi» – procede – «abbiamo cercato di enfatizzare il rapporto fra foresta e teatro, sempre sulla scia di Chatwin. Abbiamo scelto luoghi simbolici con pietre e alberi importanti».

Sono arrivati anche importanti feedback sulla performance, e concordo pienamente con le annotazioni di Ester Tatangelo che ha denunciato «una difficoltà ad ascoltare il testo registrato» auspicando «più attori» e di usare maggiormente «la profondità del bosco». Quando la natura è così protagonista un testo è sempre difficile da fruire, e molti di noi si sono chiesti se fare un percorso con le cuffie, come ad esempio in Alberi Maestri, altra produzione di Campsirago Residenza, sarebbe stato più adatto. Centrale è anche la questione del testo di repertorio, sicuramente meno digeribile rispetto ad una drammaturgia creata appositamente.

“Firecharmers”. Foto di Alvise Crovato

A questo punto hanno preso la parola le due più giovani del gruppo, fondatrici della compagnia Fossick Project. Marta Del Grandi, cantante e musicista assente ieri, ci ha in primis illustrato il significato del nome: «“Fossick” è venuto per caso, come parola del giorno su Word Reference. Abbiamo fatto una ricerca, è una parola che in Australia significa cercare in profondità, scavare, ma anche cercare l’oro. Ci sembrava perfetta per il nostro lavoro sugli animali in via d’estinzione».

«Il nostro primo spettacolo sul Pangolino ha debuttato a Katmandu, dove abito» – ha proseguito Marta – «a Patan, il quartiere degli artisti. Nella piazza principale c’è un museo, dove fanno eventi nel Chiostro. Siamo riuscite a fare lì il nostro debutto grazie all’aiuto del Console Onorario Italiano in Nepal».

Cecilia Valagussa ha introdotto il nuovo spettacolo che avrebbe debuttato una settimana dopo al festival di Vimercate: «I nostri personaggi, che sono animali spesso umanizzati, si trovano sempre in situazione di pericolo. Nella fase di creazione dello spettacolo eravamo scosse dall’incendio in Australia che ha messo a rischio molte specie animali. Il fishing cat, che vive in Thailandia dove abbiamo iniziato la nostra ricerca, soffre per mancanza di habitat. Complice la pandemia, gli altri protagonisti dello spettacolo sono diventati tre anfibi nostrani. Siamo partite da un testo e da uno storyboard, ci siamo rese subito conto che sarebbe stato uno spettacolo più complesso degli altri tre. Anche perché col passare del tempo ci siamo rese conto che, pur non venendo dal mondo del teatro, proprio teatro stavamo facendo. Lo chiamiamo “teatro delle ombre contemporaneo musicale”, rende l’idea?».

Aggiunge Del Grandi: «Siamo influenzate da Greta Thunberg e dai suoi discorsi, io volevo metterne uno nello spettacolo ma Cecilia si è opposta. I nostri sono concerti visual ma hanno anche ha a che fare con la narrazione. Due anni fa non avremmo mai pensato di fare teatro. E soprattutto personalmente dopo l’esperienza con la band non avevo mai suonato da sola». «Anche per me è così» – conferma Valagussa – «è difficile essere in scena, su un palco».

Ad un certo punto le ragazze sono incalzate dalle domande dei più grandi: «Che riferimenti avete?», «Cosa andate a vedere a teatro?», «Quali sono i vostri maestri?». Risponde Cecilia Valagussa: «Sono affascinata dalla tradizione delle marionette, ma non vedo spettacoli di marionette, non ho maestri in tal senso. Anche tecnicamente ho imparato da sola».

Ecco che verso la fine dei nostri due giorni, viene fuori l’aspetto più interessante: la differenza fra due generazioni, quella che cerca i maestri perché ne ha bisogno e quella più iconoclasta, decisa ma anche ingenua. Che non ha paura di mettersi in gioco.

A tal proposito, Ester Tatangelo ci parla della sua maestra, che l’ha aiutata ad arrivare “organicamente” a qualcosa. Anche per combattere la “strizza” del debutto (come ci ha confidato Valagussa).

Nella presentazione finale, davanti al pubblico di Esperidi, ho cercato di tessere qualche filo tra i tre progetti di cui abbiamo discusso: il Progetto Conrad di INTI e Campsirago Residenza, Luachi di Piccola Compagnia Palazzo Tavoli e Firecharmers di Fossick Project.

La prima cosa che salta all’occhio è che si tratta di tre progetti fortemente multidisciplinari, che mescolano teatro, cinema, fotografia, musica, illustrazioni, canto, teatro di figura e composizione musicale. I due elementi comuni sono da un lato la fine delle categorie per tre progetti senza la figura del regista. In Conrad c’è una direzione artistica, in Luachi una cura e una messa nello spazio, in Firecharmers le due protagoniste si contaminano con i loro differenti linguaggi. E poi c’è il rapporto con la natura: quella di Conrad nella wilderness, quella calabrese dove nasce e trova la sua collocazione Luachi, quella degli animali in via di estinzione di Fossick Project.

Oltre alla natura, anche la geografia è molto importante nei tre progetti, per questo mi preme segnare i luoghi dove sono nati i progetti: Torre Guaceto, Val di Mello e Gran Paradiso per Conrad, la Calabria profonda, autentica, alla ricerca del rinnovamento della tradizione per Luachi (che guarda caso significa “luoghi”). Infine il progetto più internazionale, Firecharmers, è nato tra la Thailandia e Milano, passando per Corniolo in provincia di Forlì-Cesena (sede di D.R.E.A.M. Italia, un’associazione che si prende cura dei tre anfibi).

Infine, è doveroso fare un breve riferimento al periodo molto particolare che abbiamo vissuto: il Progetto Conrad nasce dal lockdown, su Zoom, da un sentimento condiviso di solitudine, Firecharmers ne viene fortemente influenzato tanto da cambiarne i personaggi, fino ad avere più tempo per la scrittura drammaturgica. Luachi forse è l’unico che ne risente solo marginalmente.

Per concludere, mi preme ricordare ancora una volta il momento più significativo de Lo stato dell’arte Camspirago ovvero il finale della seconda giornata di confronto, quando si è acceso il dialogo sulla figura dei maestri e delle maestre, evidenziando approccio e riferimenti così diversi tra chi è nato prima e dopo la caduta del muro di Berlino (ho preso questo evento come spartiacque), ovvero tra le fondatrici di Fossick Project e il resto dei partecipanti. Per noi, i maestri sono stati coloro che ci hanno accompagnato e ci accompagnano, oggi l’approccio è cambiato e i punti di riferimento si possono trovare anche, citando due esempi che sembrano antitetici, in Greta Thunberg e su TikTok.

Questo finale aperto rilancia verso nuove possibilità di contaminazione, gli artisti infatti nelle pause dei lavori hanno manifestato più volte la volontà di collaborare. E prima di scivolare verso l’ultima serata del festival che si è conclusa con una silent disco, tiriamo le fila di questi due giorni di crescita collettiva «in un clima di grande rilassatezza» – sentenzia sul finale Raffaella Giancipoli – «grazie ad una situazione festival ideale dove per una volta non si è parlato di finanziamenti, bandi e diritti dei lavoratori». Proprio questo aspira ad essere Lo stato dell’arte.